Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

"Casa d'altri" di Silvio D'Arzo

Jun 162022

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Silvio D'Arzo con "Casa d'altri" fonde armoniosamente il minimalismo esistenziale (ovvero la noia, la povertà di stimoli, di relazioni sociali) e il minimalismo narrativo. Secondo molti critici di oggi e secondo molti esponenti della neoavanguardia si può scrivere anche di niente, senza una trama avvincente, addirittura senza una trama. È proprio questo un modo per mettere alla prova e vedere chi è un autentico narratore e chi no. D'Arzo ha superato brillantemente questo esame. Il racconto, definito perfetto da Montale e il più bel racconto italiano del Novecento da diversi critici letterari, si può riassumere tutto con queste parole: "Un'assurda vecchia: un assurdo prete: tutta un'assurda storia da un soldo". È un racconto di poche decine di pagine, scritto con grazia, leggerezza e maestria, che si legge tutto d'un fiato. D'Arzo non ha avuto il tempo, essendo morto di leucemia a soli 32 anni, di scrivere il romanzo della sua generazione come voleva e neppure di veder pubblicata da una importante casa editrice i suoi racconti. Lo scrittore ha creato il suo capolavoro "Casa d'altri" sul finire della sua vita, nei suoi ultimi mesi. D'Arzo era troppo versato nella letteratura inglese e scriveva in modo lineare, mentre la vita è complessa e contraddittoria: questo potranno obiettare coloro che hanno dimenticato il grande narratore emiliano e lo hanno relegato ai margini della letteratura italiana del Novecento. D'Arzo arriva al conquibus, arriva subito al dunque, non complica ulteriormente le cose già complicate di per sé, arriva come si suol dire al nervo delle cose, non si perde in preamboli, digressioni, astrazioni: questo possono affermare con buona ragione i suoi estimatori, infischiandosene dei canoni e della fortuna critica. Pavese, direttore dell'Einaudi, rifiutò di pubblicare "Casa d'altri", ma forse più che per motivi letterari e stilistici per ragioni prettamente esistenziali perché il tema del suicidio era un suo nervo scoperto, qualcosa che gli procurava angoscia, un vero fantasma della sua mente fin da tempi immemorabili ed insospettabili, come si può desumere leggendo il suo diario. Uno scrittore può prediligere la materia inanimata, gli altri o sé stesso. Ci sono incognite e incertezze per ognuna delle tre vie. L'importante è che, indipendentemente dalla sua scelta, si tratti di predilezioni e non di ossessioni, altrimenti uno diventa monotematico. Ma non ci sono solo queste tre dimensioni del reale. Ci sono anche lo spazio, il tempo, gli accadimenti del mondo. Tutte queste dimensioni interagiscono tra di loro. Tutto dipende dall'osservatore, dal sistema di riferimento come in fisica, ma anche dal termine di paragone. La scrittura infatti è sempre paragone, accostamento, nel caso più semplice similitudine. D'Arzo è esemplare nel trattare tutti i piani della realtà e ad intrecciarli in modo poetico ed enigmatico. Ma torniamo al suo capolavoro "Casa d'altri".
C'è chi ha a noia la vita perché ha vissuto troppo o troppo poco. Una vita noiosa è altamente stereotipata, ripetitiva, alienante. C'è la depressione endogena. C'è la depressione reattiva, causata da traumi ed eventi spiacevoli. Nel caso specifico alla donna protagonista del racconto mancano le occasioni, gli eventi, una vita accettabile. Ma c'è anche la noia che assale, la monotonia che non riesce a scalfire. Sembra una montagna insormontabile per Zelinda, vedova e lavandaia. Lo spleen di Baudelaire, l'assurdo di Camus, l'anello che non tiene e il male di vivere di Montale: i riferimenti gnoseologici e culturali possono essere molti per D`Arzo. Il peso di vivere per Zelinda si fa intollerabile. La vita si presenta a lei sempre nello stesso modo: la trafila di giorni sempre uguali, le stesse cose da fare, la solita routine. Ma è anche una vita di stenti, una vita fatta di fatica, "una vita da capra".
Scrive DArzo: "Con due si cerca meglio la verità". Nietzsche scriveva che uno solo ha sempre torto, ma con due inizia la verità. Di certo gli interrogativi incessanti di Zelinda sono un fardello troppo ingombrante e troppo peso per portarli da sola.
Non trova più ragion di essere. È disperata perché ha perso speranza. Ma nel racconto D'Arzo si sofferma più sugli interrogativi angoscianti, sul suo rovello interiore causato da essi, che sul vuoto esistenziale della donna. La domanda cruciale è se può finire prima la sua vita. Il prete non trova parole. Abbiamo due protagonisti: una vedova stanca di vivere, un prete di campagna e sullo sfondo Montelice, un paese in cui non accade mai niente ("sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza,uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre.."). Da una parte Zelinda, ovvero la credente con il suo dubbio incessante, e dall'altra il prete, con la sua dottrina, ma anche le sue perplessità. È un dialogo tra due fedeli, tra due fedi. Da un lato l'interrogativo della donna, dall'altro il prete, per cui diventa una ossessione, un cruccio, un enigma la vita di Zelinda. Entrambi sono attraversati da esitazioni. Ci si può uccidere? È questa la domanda di Zelinda al prete. Ma è questa la risposta che deve dare la letteratura. Vale la pena vivere? I suicidi sono degli impazienti scriveva Bufalino. Vale la pena pazientare? Secondo la religione cristiana il suicidio è un atto di natura violenta contro sé stessi, è l'omicidio di sé stessi. Tutte le religioni condannano il suicidio. Secondo la moderna psichiatria la stragrande maggioranza dei suicidi sono depressi e la depressione può essere curata con gli psicofarmaci e la psicoterapia. Ma ai tempi di Silvio D'Arzo queste cose non si sapevano. Di solito si cerca sempre di rimandare. Si cerca addirittura di procrastinare l'improcrastinabile. Bisogna non pensare alla morte per vivere pienamente. Bisogna pregare per salvarsi. Ma perché pensare egoisticamente alla propria salvezza individuale? Come scrive Camus a cosa serve la mia salvezza se non si salva l'umanità? Se ognuno ha le sue certamente le sue colpe, ma anche le sue giustificazioni, i suoi alibi e la possibilità di espiare allora forse sarebbe meglio sperare in un Dio talmente misericordioso da lasciare l'inferno vuoto come teorizzato da taluni teologi.
Il suicidio è talvolta questione di un istante. Il suicida per alcuni resta prigioniero di un istante, in cui azzera ogni possibilità, ogni speranza. In questo racconto invece il suicidio sembra invece il frutto di una scelta maturata da tempo e ben ponderata.
La Chiesa ammette eccezioni? Zelinda considera il suo un caso particolare. Non ha più vitalità. Non ha più voglia di vivere. E allora chiede se se ne può andare anzitempo in punta di piedi. Ritiene di aver già mangiato il suo pane, di sapere come sia la vita. Ritiene che non ci sia più niente da conoscere e da vivere. Ha fatto il suo bilancio esistenziale. Ha tirato le sue somme. Dalle cose che le sono capitate, dalle persone che ha incontrato, dalla vita che ha fatto, dalla porzione di mondo e di realtà che ha vissuto, ha tratto le sue conclusioni: non vale più la pena vivere. È una considerazione personale che per lei diventa certezza assoluta. La sorte ormai per lei non ha più niente in serbo. Non ci sarà più nessuna sorpresa. La vita per lei sarà sempre la stessa e lei non ne può più. Zelinda si è scordata che anche la vita più arida, più grama può essere riscattata, può essere un dono. Ma lei si considera una donna di 63 anni che è ormai senza futuro. Che cosa possono fare le parole di fronte a questo dramma? Che cosa può fare la religione incarnata qui da un prete? Ma qui il dramma è doppio. Anche il prete ormai è un sacerdote da sagre di paese. È prossimo alla pensione, al congedo, all'addio, alla morte. Tutto questo si svolge in un piccolo paese, in un piccolo mondo angusto. D'Arzo narra l'inenarrabile, due vite avvolte dall'insensatezza, dall'assurdità di esistere. Il linguaggio è povero di figure retoriche, ma l'intera vicenda è una macrometafora della vita e della morte, che si intrecciano in modo indissolubile.
D'Arzo è implacabile. Crea un congegno perfetto. Scrive in modo essenziale l'essenziale della vita e della morte. Toglie nello stile e nella trama ogni orpello, ogni ridondanza. Leva tutto il superfluo. Rimane per queste poche pagine il mistero che ci irretisce e ci incupisce, la sospensione. Le vite degli uomini sono tutte diverse. La sofferenza, le vicissitudini, la stanchezza di esistere non sono uguali per tutti. Alcuni vengono messi più alla prova dalla vita di altri. Secondo la teologia cristiana il suo disegno è imperscrutabile, sfugge alla logica umana, ma Dio valuta ogni caso in modo equanime, soppesando tutto, qualsiasi cosa. "Ognuno ha una ragione valida per uccidersi", scriveva Pavese. Ma si uccidono solo coloro la cui sofferenza interiore per stati d'animo o eventi nefasti ha sorpassato ogni livello di sopportazione. Se si mette sul piatto della bilancia ci sono svariate ragioni per uccidersi e svariate ragioni per continuare a vivere. Viene considerato razionale continuare a vivere. Ma è pura convenzione. Allo stesso modo viene considerato più coraggioso continuare a vivere che farla finita. Si ritiene a torto o a ragione che quando una persona si uccida o tenti di uccidersi perda il senno della ragione. D'altronde la cultura e la società devono essere biofile. Non si può fare altrimenti. Condannare il gesto estremo è un modo per dissuadere gli indecisi o coloro che si trovano in difficoltà. È un modo per interrompere l'emulazione dell'estremo gesto. Condannare il suicidio è un modo per mandare avanti il mondo, pur ammettendo la pietà cristiana per la vittima. Alla domanda di Zelinda c'è la risposta secca del prete: non sono ammesse eccezioni. Il prete risponde che per la morte propria e altrui non si decide noi, ma decide Dio. Nessuno può anticipare i tempi. Nessuno deve disperare. Zelinda però viene trovata morta. Nessuno sa se l'ha fatta finita. Forse lo scrittore emiliano lascia alla fine alla donna la libertà di autodeterminarsi. Il prete è prossimo a lasciare il paese per tornare a casa. Ma è forse la casa del Padre? Ad ogni modo il prete, che rappresenta la religione, esce sconfitto. Sicuramente la pecorella smarrita non è tornata nell'ovile. Ma probabilmente dall'ovile, dalla ortodossia religiosa si era allontanata solo con i pensieri, con i tarli della sua mente. Sorge spontanea una domanda, leggendo D'Arzo: è giusto che Dio condanni Zelinda, che ha vissuto una vita irreprensibile per una sola cattiva azione e che ha fatto del male solo a sé stessa? Dio non potrebbe fare un'eccezione ai suoi regolamenti o alle sue presunte regole? La risposta di qualsiasi prete probabilmente è che bisogna vivere cristianamente fino alla fine, fino in fondo. Il racconto di D'Arzo tratta di una situazione senza uscita, ma nessuno sa se nella vita alla fine c'è una via di uscita oppure no. Grazie alla fede si può credere all'aldilà e alla salvezza, ma la logica umana, i fatti e la scienza lasciano in sospeso la questione proprio come D`Arzo. La vecchia è morta, le cose vanno come al solito, sta “per venire la morta stagione, gli sterpi secchi, le passere uccise dal freddo, la notte che arriva alle sei, i fossi ghiacciati, i vecchi che se ne muoiono in fila…”. Talvolta la vita sembra un contorno sfumato, una domanda mal posta, un'occasione mancata. Eppure sono tante le sfaccettature della vita. Siamo così presi e immersi dalla quotidianità che ci dimentichiamo che è un dono: forse è questo il vero messaggio dello scrittore.

 

Su David Maria Turoldo...

Jun 122022

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I poeti contemporanei di solito non credono in Dio. I poeti del Novecento sono atei o si professano tali. Oppure vivono la loro fede in una dimensione totalmente intima e privata. Potremmo giocare con i paradossi e affermare che i poeti sono politeisti o che addirittura la poesia stessa è politeista, citando a riguardo Pessoa e Auden. Nel corso del Novecento la poesia ha subito l’influsso del materialismo marxista, ma non solo: diversi poeti non professano la fede perché non ce l’hanno oppure anche perché sanno che la poesia del loro tempo è contrassegnata da troppo intellettualismo. Insomma è un fatto di convenienza culturale: non sta bene dichiarare i propri convincimenti religiosi in un mondo in cui pochi li hanno. Dichiarare la propria fede è solo una dichiarazione di intenti. Poi bisogna vedere gli esiti nella realtà fattuale. Nella poesia contemporanea si va dal cristianesimo di Luzi, all’ateismo di Caproni, al cristianesimo-marxismo, pieno di tormenti di Pasolini. Ogni poeta più che religioso è spirituale. Alcuni poeti non hanno bisogno del conforto dell’ortodossia, del conformismo del praticante. Possono attingere alla bellezza della natura, a una ricerca autentica, frutto di un lavoro su sé stessi e talvolta di uno studio attento delle forme. Un poeta non crede di solito in Dio, ma si interroga continuamente su Dio e lo cerca in sé, negli altri, nel mondo. La premessa irrinunciabile della fede è la ricerca incessante. Però in Clemente Rebora per esempio troviamo un grande sacerdote e un grande poeta. Pur essendo antologizzato e studiato è ormai dimenticato: è considerato un classico, ma ormai sembra appartenere a un mondo altro, a una concezione della vita e della poesia lontana anni luce da noi. Eppure esemplare fu il suo magistero (nonostante si fosse fatto prete solo nella maturità), di cui ai giorni nostri ormai percepiamo solo deboli echi. Ecco una delle sue più celebri poesie:

“Dall’immagine tesa

vigilo l’istante

con imminenza di attesa –

e non aspetto nessuno:

nell’ombra accesa

spio il campanello

che impercettibile spande

un polline di suono –

e non aspetto nessuno:

fra quattro mura

stupefatte di spazio

più che un deserto

non aspetto nessuno:

ma deve venire;

verrà, se resisto,

a sbocciare non visto,

verrà d’improvviso,

quando meno l’avverto:

verrà quasi perdono

di quanto fa morire,

verrà a farmi certo

del suo e mio tesoro,

verrà come ristoro

delle mie e sue pene,

verrà, forse già viene

il suo bisbiglio.”

Anche in Turoldo religiosità ecumenica e spiritualità poetica convivono, nonostante le brutture e l’inautenticità del mondo. In lui troviamo la forza di un cristiano, che non cede ai demoni del nichilismo e neppure alla credenza sempre più diffusa di un Dio assente. Rispetto a Rebora, Turoldo per quanto colto forse è meno letterario, senza ombra di dubbio è più comprensibile. Il suo è uno stile asciutto, essenziale, piano, senza cadere mai in leziosismi. Il poeta rifugge ogni estetismo con cui molti credono di fare poesia. Certamente ci influisce il fatto che è morto nel 1992; è più vicino a noi, alla nostra epoca. Nato a Coderno nel Friuli nel 1916, David Maria Turoldo, diventa sacerdote e frate dei Servi di Maria. Si laurea in filosofia alla Università Cattolica di Milano con una tesi su “Per una ontologia dell’uomo”, discussa con il filosofo Gustavo Bontadini. Incurante delle polemiche letterarie, delle schermaglie tira dritto per la sua strada e fa una poesia al contempo altissima e onesta. La sua è un’esistenza pienamente cristiana. Per citare il Vangelo il poeta fu nel mondo, ma non fu di questo mondo. Dopo anni e anni il suo lavoro di ascolto diede i suoi frutti. Turoldo è la dimostrazione che si può cercare Dio con assoluta semplicità ed esprimerlo in versi con chiarezza. Non è per niente facile il suo compito perché nel cuore di ogni uomo alberga inquietudine e ambiguità. Non è facile tradurre in poesia questa ricerca perché se da un lato alcuni possono scrivere per dirla alla Baudelaire le loro “corrispondenze” (cioè corrispondenze tra i propri stati d’animo e il paesaggio), dall’altro è molto più difficile trovare delle interrelazioni tra gli accadimenti (Nanni Balestrini scriveva poesie con la tecnica del collage perché sosteneva che non ci fosse alcun rapporto tra le cose che ci succedono per esempio quando andiamo a fare una passeggiata) e ancora più difficile trovare delle affinità elettive con le altre persone. La questione è che il mondo non si basa su armonie prestabilite. Ungaretti lo testimonia in modo magistrale nella lirica “I fiumi”: “Il mio supplizio/ è quando/ non mi credo/ in armonia”. Dopo tutti gli orrori del Novecento nessuno oggi può essere né sentirsi in armonia. Ci vorrebbe raccoglimento interiore per elevarsi a Dio o per raggiungere il Nirvana. Quando ci guardiamo dentro invece abbiamo a che fare con un “io male sbozzolato”, così definito da Zanzotto. Ma sempre per usare un’espressione poetica di Caproni quando ci relazioniamo agli altri ci imbattiamo in “Alcuni io/ Quasi io”. A proposito dei rapporti tra gli esseri umani Woody Allen nel suo film “Io e Annie” dice: “E io pensai a quella vecchia barzelletta, sapete, quella dove un tizio va da uno psichiatra e dice: “Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina”. E il dottore gli chiede: “Perché non lo interna?”, e quello risponde: “E poi le uova chi me le fa?”. Credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”. Non parliamo poi delle difficoltà di chi vuole esprimere Dio in poesia, che sono sempre dietro l’angolo. Turoldo non si limita a fare ciò, ma è anche testimone partecipe della sua epoca; esprime dubbi, perplessità. Mette a nudo contraddizioni e lacerazioni. È un uomo tra gli uomini. Non si pone al di sopra di niente e nessuno. Neanche si rifugia dal mondo. Non segue la mistica, secondo cui sarebbe auspicabile la solitudine e l’assenza di sé, la nullificazione del proprio io per giungere a Dio. Anzi nella sua vita volle sempre vivere il cristianesimo in una dimensione culturale (frequentò i migliori intellettuali del suo tempo) ma anche comunitaria (fu uno degli artefici della fondazione di Nomadelfia). La sua fede fu caratterizzata dalla cosiddetta fraternità evangelica e dalla carità. Turoldo parlava a tutti. Non è giusto perciò che la sua memoria e la lettura dei suoi versi sia relegata a un pubblico di nicchia o di soli credenti. Ci sarebbero tutte le premesse e le condizioni per farlo conoscere ai più. Turoldo era un poeta solo, era anche un sacerdote solo, ma aveva pudore della sua solitudine, la trascendeva; forse la considerava hegelianamente un’antitesi e la superava spesso. Quando uno è solo o si sente solo non può che rispecchiarsi nelle sue poesie perché parlano a lui, parlano di lui. Turoldo come tutti gli uomini di chiesa si è sentito solo perché uonini e donne si baciavano in bocca ma anche perché si sentiva lasciato solo da Dio. Il poeta non aveva una donna che lo confortasse. Doveva sublimare il suo desiderio. Il suo sacerdozio lo obbligava al conforto e alla comprensione empatica nei confronti degli altri, ma lo lasciava solo con sé stesso. Scriveva in “Non ho mani”: “Io non ho mani/ che mi accarezzino il volto,/ (duro è l’ufficio di queste parole/ che non conoscono amori)/ non so le dolcezze/ dei vostri abbandoni:/ ho dovuto essere custode/ della vostra solitudine:/ sono salvatore di ore perdute”. Ma si ricordava e ricordava a tutti che i più soli erano i malati e gli ultimi: “C’è una povera in via Ciovasso/ che non può più camminare,/ e dorme entro i giornali/ nessuno di quelli che stanno/ di sopra/ ha tempo di scendere e salutare./ Per lei è di troppo/ un po’ di scatole per guanciale/ e stare/ nel cuore di Milano”. Allora perché la solitudine? Perché le ingiustizie? Perché il male? Il disegno di Dio è imperscrutabile e inintellegibile. Turoldo non si esercitava in nessuna teodicea, ma scriveva che Dio “penava nel cuore dell’uomo” e inoltre descriveva il rapporto tra l’uomo e Dio in questo modo così semplice e terribile: “Tu e lui,/ null’altro./ Lui/ il Tu senza risposte”. Ma come vivere la fede cristiana? Come aveva scritto nella sua tesi l’esercizio della ragione comportava fatica. Se lo scrittore Enrico Brizzi scriveva ironicamente nel suo primo romanzo che la rovina della Chiesa erano i perbenisti che stavano nella prima fila Turoldo nei suoi versi si esprimeva così:

“Per favore, non rubatemi

la mia serenità.

E la gioia che nessun tempio

ti contiene,

o nessuna chiesa

t’incatena:

Cristo sparpagliato

per tutta la terra,

Dio vestito di umanità:

Cristo sei nell’ultimo di tutti

come nel più vero tabernacolo:

Cristo dei pubblicani,

delle osterie dei postriboli,

il tuo nome è colui

che-fiorisce-sotto-il-sole.”

Il problema della fede è la relazione tra percipiente e percepito, tra conoscente e conosciuto, tra contenitore e contenuto. È Dio in primis che percepisce, conosce, contiene e giudica. Noi uomini possiamo ben poco. In Luzi, cristiano autentico ma non uomo di chiesa, il rapporto con la fede è più tormentato, complesso, critico rispetto a Turoldo. Infatti il poeta fiorentino scriveva:

“Oh il vostro cristianesimo” gli dico.

“O crepato trabocca in tutto l’altro, sia pure il deserto,

oppure è un fiumicello da nulla

che stagna fra gli orti sotto casa e li ammorba”.

Turoldo, pur mostrando dubbi, si abbandona a Dio. Scrivere poesia per lui era un modo che aveva di essere nel mondo senza essere di questo mondo. Era attore del suo tempo, ma mai suo discepolo. Non importa sapere da dove traesse le sue energie intellettuali oppure quanta costrizione o sacrificio interiore ci fossero in lui. Conta tutto ciò che ci ha lasciato. Leggere un libro di Turoldo significa recepire subito il suo messaggio cristiano, non perdersi in astrazioni inutili e verificare puntualmente che alla fine se ne esce arricchiti interiormente. Il poeta si rifà alla Bibbia. Ma i suoi componimenti sono universali e considerarli soltanto cristiani sarebbe un giudizio troppo affrettato e limitante. La sua poesia non deve essere circoscritta, delimitata. Non si devono porre angusti confini e paletti mentali, culturali. Turoldo deve essere di tutti perché immediato e sapiente. Si rivolgeva a tutti perché aveva a cuore tutti. Non si orientava solo verso un pubblico colto o ai fedeli. Sembrano pezzi facili di primo acchito le liriche di Turoldo, ma se analizzati nel dettaglio, se giudichiamo obiettivamente non possiamo che constatare il grande talento cristallino, intriso di cultura e permeato da una umanità profonda. Non sfugge a un lettore forte o solamente attento di poesia contemporanea quanto sia difficile imbattersi in un poeta come Turoldo che si confida, denuncia i mali del mondo, si rivolge a Dio e lo fa dicendo tutto pane al pane e vino al vino. In modo nitido ci fa intravedere la soglia del dicibile, ci fa affacciare sull’inesprimibile, ci contagia con la sua voglia di assoluto. Il mondo dovrebbe ricominciare dai versi di Turoldo. Hegel aveva ben inteso il declino dell’uomo contemporaneo quando aveva avvertito che la sua preghiera del mattino era la lettura del giornale. Per una parvenza quanto meno illusoria di palingenesi ci vorrebbe come preghiera quotidiana la lettura di una poesia di Turoldo. Eppure parte della critica militante ha sempre snobbato se non addirittura ostracizzato Turoldo. Ci sono a riprova di ciò antologie di poesia della seconda metà del Novecento senza di lui, ritenuto a torto poeta troppo facile oppure scartato per un pregiudizio ideologico. Il poeta ha anche dimostrato concretamente la sua fede quando non si è assolutamente prostrato per il cancro al pancreas che lo ha portato alla morte; anzi ha accettato la sua sorte con dignità, pazienza e sopportazione. La poesia di Turoldo al di là della memorabilità letteraria o meno ha un indiscutibile valore intrinseco e umano perché parla all’animo di ognuno di noi e, leggendolo, non possiamo che constatare che lui ci conosceva tutti nel profondo.

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