Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

Sull'utilità, sul senso di scrivere, sul contenuto di verità, passando per De Carlo, Tondelli, Orwell, Rilke...

apr 252023

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"Malinconie discrete che non sanno star segrete,

le piccole modeste storie mie,

che non si son mai messe addosso il nome di poesie,

amiche mie di sempre, voi sapete!

Ebbrezze conosciute già forse troppe volte:

di giorno bevo l' acqua e faccio il saggio.

Per questo solo a notte ho quattro soldi di messaggio

da urlare in faccia a chi non lo raccoglie."

("Canzone delle situazioni differenti" di Francesco Guccini)

 

 

 

 

 

 

Ha più senso oggi scrivere? Ha più senso scrivere una silloge poetica, se la leggeranno solo pochi e per di più quasi solo aspiranti e sedicenti poeti? Ha più senso oggi scrivere romanzi o racconti quando pochi vogliono leggere storie e allo stesso tempo si registra uno scadimento generale, perché chiunque ha una storia da raccontare, magari quella della sua vita, e moltissimi si sentono in diritto, quasi in dovere di scriverla, visti e considerati l'aumento della scolarizzazione, la diffusione esponenziale di programmi di videoscrittura e l'università di massa? Probabilmente nella storia dell'umanità di libri ne sono già scritti troppi; i grandi capolavori sono già stati tutti scritti; nessuno uguaglierà o supererà Omero, Dante o Shakespeare. Da giovane un mio ex amico mi disse che trovava molto interessanti gli input di un manuale di psicologia sociale che gli avevo regalato, ma mi chiese anche a cosa servisse leggere i romanzi, ad esempio come quelli di Andrea De Carlo. Io rimasi un poco interdetto e poi mi arrampicai sugli specchi, risposi che De Carlo descriveva bene la Milano degli anni '90, la sua vita frenetica, la carambola degli incontri. Allora lui efficacemente controbattè che i personaggi dei romanzi di De Carlo erano tutti liberi professionisti, artisti, intellettuali, insomma borghesi. Io risposi che comunque era anche quello uno spaccato della realtà, che De Carlo non faceva sconti a nessuno, tanto meno alla sua classe sociale di appartenenza. Risposi che anche i personaggi di Moravia, tranne poche eccezioni come la ciociara, erano altoborghesi, eppure nei suoi libri c'era molta verità, anche se solo della verità dell'umano e della Roma da lui vista e vissuta. Aggiunsi che De Carlo era un bravo scrittore, a volte commerciale, ma comunque spesso criticato per invidia, per partito preso, perché ad alcuni non andava giù che avesse avuto successo. Continuai dicendo che leggendo letteratura o comunque narrativa si migliora il nostro italiano e si arricchisce il nostro vocabolario; gli spiegai cosa volesse dire Tondelli quando scriveva che la letteratura contemporanea serve per "ritestualizzare il mondo". Gli dissi che a volte ci sono scrittori che dicono cose nuove oppure che dicono le stesse cose in modo nuovo, che hanno una sorta di sguardo obliquo sul mondo. Ma lui mi riportò subito alla realtà concreta e non soddisfatto rispose che faceva l'operaio, che per lui certi romanzi erano una perdita di tempo. Insomma con poche parole voleva dirmi che non aggiungevano niente al suo mondo interiore, alle sue conoscenze pratiche, alla decifrazione e alla lettura del mondo circostante. E me lo diceva in modo molto franco e onesto, se vogliamo crudo. Si noti bene: quello di Andrea De Carlo era solo un esempio perché non sono un detrattore né un ammiratore dello scrittore milanese (l'ho rammentato perché molti lo conoscono). Estendendo il discorso, anche le scienze umane quale apporto danno in fondo alle nostre conoscenze, se dimostrano spesso delle ovvietà oppure se scoprono delle cose controintuitive, che a molti risultano opinabili? Non a torto alcuni scettici, disfattisti e nichilisti potrebbero ritenere che la conoscenza che deriva da ogni branca dell'umanesimo sia maieutica e quasi tautologica. Però io a tal riguardo obietto questo: che una cosa sia facile da capire non significa che sia facile da scoprire, che una realtà che hanno sotto gli occhi tutti solo pochi sono in grado di rappresentarla, descriverla e in questo mondo ci vuole anche chi descriva una realtà o racconti o si inventi una storia. In definitiva per me essere semplici o dire cose semplici non significa essere facili o dire cose facili. Fatta questa premessa, risultano sempre più fuori dal mondo e deliranti quei poeti, veri o presunti, aspiranti, sedicenti o effettivi, che pensano che la loro arte sia necessaria, addirittura un dono a un pubblico inesistente, a un popolo bue, che si ostina a non capirli. Può darsi invece che loro non abbiano niente di nuovo da dire sul mondo e al mondo. Può darsi che le loro parole non abbiano più forza eversiva o meglio non abbiano più forza alcuna. Non rallegri a questo proposito il fatto che ci siano molti blog di poesia e che alcuni vengano visitati: molto spesso vengono visitati solo da aspiranti poeti, che a loro volta li visitano solo per proporre i loro versi alle redazioni di quei siti. E poi ad aprire un blog di poesia, che spesso ha vita breve, non servono grandi competenze, grande talento, grandi curriculum, grandi referenze. È ammirevole lo sforzo profuso da molti, ma non andiamo oltre e voliamo basso, rasentando terra, come cantava Bob Dylan. Infine forse non ha alcun senso scrivere, se non si è pagati. Quelli capaci e/o furbi scrivono canzoni, per la televisione o per il cinema. Non ha alcun senso spedire quotidianamente il proprio messaggio nella bottiglia nel mare magnum del web. Gli italiani leggono solo libri di intrattenimento oppure testate giornalistiche online per aggiornarsi gratuitamente. A onor del vero non comprano neanche più quotidiani. E allora c'è poco da autoesaltarsi o da vantarsi per un libro pubblicato a pagamento o comunque presso una piccola casa editrice. Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un'utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell e "Lettere a un giovane poeta" di Rilke. In quest'ultima opera il grande poeta scriveva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte. 

 

"Di noi tre" di Andrea De Carlo e "Seminario sulla gioventù" di Aldo Busi...

giu 262022

 

 

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Vi consiglio di leggere due romanzi sulla giovinezza. Il primo è "Di noi tre" di Andrea De Carlo, che ha una trama avvincente e che si legge tutto di un fiato. L'io narrante è Livio, ma i protagonisti sono tre: Livio, Misia, Marco. Il primo ha appena discusso la tesi in storia antica e ha polemizzato con la commissione di laurea. La stessa sera incontra Misia. Livio rimane colpito da questa ragazza bionda nel marasma di una cantina (dove si balla) perché emana "una luce speciale", "un'aria luminosa", "una naturalezza leggera". Per arrivare a conoscerla si intromette addirittura nella lite tra lei e il suo ragazzo, subendo l'aggressione del tipo. Poi Livio inizia a frequentare assiduamente Marco, che lo vuole coinvolgere in uno dei suoi tanti progetti strampalati: fare un film senza alcun tipo di finanziamento. I due devono perciò trovare attori non protagonisti, organizzare la troupe, scrivere la sceneggiatura, decidere la scenografia, gli interni e gli esterni. Livio presenta Misia a Marco e la coinvolge nel film. A questo punto Livio avverte che tra Misia e Marco è nata un'intesa. Della sofferenza causata da questa delusione sentimentale non c'è traccia nel libro. Livio è come se rimuovesse questa frustrazione. Comunque quest'ultimo diventa un pittore affermato grazie all'interessamento di Misia, che riesce a organizzare una mostra dei suoi quadri. Anche il film ha successo e porta alla ribalta Marco come regista e Misia come attrice. Marco addirittura diventa quasi un mito, prigioniero del suo stesso personaggio. Rifiuta la mondanità, detesta l'ambiente dello spettacolo, rifiuta lavori. Non voglio però raccontare tutta la trama. Dirò solo che i colpi di scena si susseguono tra Barcellona, Londra, Buenos Aires. A mio avviso le tematiche di questo romanzo sono due: 1) l'amicizia tra i tre che riesce anche a destare dal torpore esistenziale Livio, il quale alla fine riesce a dominare i propri sbalzi di umore (muovendosi rasoterra, così basso che non ha nessun posto dove cadere...De Carlo cita questo verso di Bob Dylan). 2) la critica nei confronti della società moderna in cui tutti si vendono: chi vende il corpo, chi l'intelletto, chi la dignità. Tuttavia le scelte di vita di tutti i protagonisti sono antitetiche a questa legge di mercato.
A mio avviso questo è un libro da leggere. Sono a conoscenza naturalmente che molti critici letterari storcono il naso ogni volta che si parla di un libro di Andrea De Carlo perché le sue opere vengono considerate troppo commerciali. De Carlo infatti è uno dei pochi che riesce a vendere senza essere un letterato e neanche un personaggio televisivo. Probabilmente alcuni invidiano allo scrittore la prolificità. Secondo me questo è il suo romanzo migliore. Riguardo a De Carlo sono dell'idea che avessero ragione Italo Calvino, che fu il suo talent scout, e Carlo Bo, che lo criticò positivamente.

 

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Il secondo romanzo è "Seminario sulla gioventù" di Aldo Busi. La frase che mi ha colpito di più di questo capolavoro è l'incipit del libro: "Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza". Il tempo e la maturità rimarginano ferite ritenute allora letali. Ma il vero fulcro del romanzo è lo stesso Busi, che ci mette dentro il corpo, l'animo, la rabbia, la disperazione, il cinismo, l'ironia disincantata. Tra un susseguirsi di mestieri per mantenersi, tra una ricaduta del trigemino e un incontro furtivo, Busi ci spiega tutti i meccanismi di quello che lui chiama "sessualterrorismo". Come scrive Busi uno fa tanta fatica "per sfuggire allo scemo del villaggio e al genio, e si ritrova giullare di una fighetta turistica". Il protagonista infatti per riuscire a barcamenarsi, pur essendo omosessuale, si fa mantenere da Arlette, sopportando a stento le sue amiche con le loro vanità, narcisismi e frivolezze. Il protagonista in un crescendo di insofferenza nei confronti del perbenismo si vendica dei suoi amanti, borghesi dalla reputazione immacolata, con ricatti e stoccate. Il protagonista esamina a fondo l'emarginazione che subisce dalla società e analizza i vizi segreti di coloro che sono insospettabili, pur avendo una doppia vita. Un'altra felice intuizione di Busi è la seguente: "le vere personalità sono quelle inventate: non c'è grandezza dove non c'è violenza". Come a dire che Busi è diventato un grande scrittore perché ha dovuto sopportare e accettare persone e mestieri, che se avesse avuto la possibilità di scegliere avrebbe rifiutato categoricamente.
Alcuni potrebbero chiedersi perché leggere questi due romanzi. A mio avviso servono a far riflettere in questo mondo dove tutti vanno di corsa e dove le menti non fanno altro che immagazzinare dati. Questi due romanzi fanno riflettere: fanno riflettere sulla giovinezza. Penso proprio che potrebbero essere definiti due romanzi generazionali. Non solo ma non sono mai noiosi. Non sono certo pretenziosi e non sono assolutamente due metaromanzi, genere in voga tra gli intellettuali. Inoltre Cioran scrisse: "quello che so a sessanta anni lo sapevo altrettanto a venti. Quaranta anni di un lungo, superfluo lavoro di verifica...". Ebbene a mio modesto avviso tutti abbiamo bisogno di fare questo "superfluo lavoro di verifica", anche se potrebbe sembrare paradossale di primo acchito. Talvolta non c'è niente di così necessario delle cose apparentemente superflue.

"Troppo tardi" di Carlo Cassola e riepilogo dei più grandi romanzi sulla seconda guerra mondiale...

giu 222022

 

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È ormai caduto nel dimenticatoio Carlo Cassola, che ha vinto a suo tempo premi letterari importanti come lo Strega e il Bagutta. Non rientra ormai nei canoni letterari. Gli italianisti a stento lo citano. Il suo nome e i suoi romanzi sono caduti nell'oblio. Eppure negli anni '60 e' 70 aveva una grande popolarità e un vasto consenso. Le sue opere avevano avuto notevole risonanza nel pubblico. Come scrive Cassola non è esatta l'equazione successo=demerito, ancora in voga oggi e utilizzata da tanti critici letterari. Qualcuno però, soprattutto in Toscana, lo ricorda ancora Cassola. Recentemente la tratta ferroviaria Cecina-Saline, di cui aveva scritto in "Ferrovia locale" è assurta alla cronaca per delle iniziative culturali in memoria dello scrittore, che era nato a Roma ma toscano d'adozione, tanto è vero che aveva ambientato molti romanzi nell'entroterra pisano. Nel 2020 l'università Cattolica ha istituito un premio di laurea in memoria di Cassola. La biblioteca comunale degli Intronati di Siena ha allestito una mostra bibliografica in suo ricordo.
I letterati non sono mai stati benevoli con lui. Alcuni critici hanno visto nella sua narrativa il ritorno al grado zero della scrittura. Altri però hanno evidenziato l'influsso delle epifanie di Joyce. Cassola è stato uno scrittore coerente stilisticamente e politicamente. I suoi libri erano letteratura ma erano anche best seller. La neoavanguardia lo accusò di essere la Liala del '63, ma lui con stile ed educazione andava a braccetto con Sanguineti. Pasolini lo criticò perché i suoi libri erano un ritorno al realismo. Nei suoi romanzi non ci sono le tematiche comuni a tanta narrativa in auge all'epoca: la nevrosi, l'alienazione, l'incomunicabilità, l'inettitudine. Erano tutti argomenti, considerati di primaria importanza per gli artisti. Lui si astiene da tanta intellettualità. Nel Novecento letterario il mondo e anche la psiche sono costituiti da frammenti eterogenei e la verità umana si trova solo nel dettaglio. La verità si fa puntiforme. I romanzi del ’900 sono i segni di una crisi profonda. Cito tra tutti “L’uomo senza qualità” di Musil, “Oblomov” di Goncarov, “Auto da fé” di Canetti, “La cognizione del dolore” di Gadda, “La coscienza di Zeno” di Svevo. Ma di esempi se ne potrebbero fare altri.

 

 

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(Nella foto Carlo Cassola)


Cassola invece privilegia il grigiore dell'esistenza, le vite comuni, connotate dall'insensatezza. Il poeta Carlo Bordini diceva che c'era della narratività nella sua poesia e della poesia nella sua narrativa. Anche in Cassola in fondo troviamo una commistione di generi. Non c'è una prosa lirica, una prosa poetica, ma la poesia della quotidianità. Spesso sono narrati fattarelli insignificanti di personaggi umili e dimessi con un lessico comune. La trama è scarna, mai avvincente, mai ricca di colpi di scena. I grandi eventi, la storia stanno molto spesso sullo sfondo. Eppure si percepisce la lunga mano sapiente di Cassola che orchestra e dirige tutto fin nei minimi dettagli: un grande narratore acuto e consapevole. Nessuna traccia comunque di quella che oggi chiameremo realtà aumentata o iperrealismo. L'acme della vita sta nei vagiti, negli orgasmi, nei rantoli. Ma nessuno sa con certezza quali sono gli istanti decisivi, i momenti topici del percorso. È anche questo che vuole dirci lo scrittore, che rimuove l'inconscio e non cerca mai di fare la rivoluzione: in vita sua ha già fatto la Resistenza e questo è più che sufficiente. Quindi non è mai stato velleitario né demagogo.
"Troppo tardi" è ambientato a Roma ai tempi del fascismo. Tratta di due fratelli adolescenti, Anna e Giorgio, abbandonati dal padre. I due hanno un rapporto ambivalente come si usa tra fratelli. La madre ha una mentalità comune, tiene molto al decoro piccolo-borghese. Vivono in una appartamento in affitto nel quartiere Prati. I due vengono mandati a scuola, ma Anna decide di interrompere gli studi di stenografia perché è svogliata. Non sa quello che vuole. Alcuni giorni si veste per passare inosservata, altri giorni si veste in modo vistoso per attirare l'attenzione. Il romanzo per la maggior parte è essenziale e dialogico. Nelle conversazioni tra ragazze si parla di questioni amorose, di confidenze. Anna è irrequieta, vorrebbe vivere "cento vite". Ma deve stare attenta perché basta accettare un invito in macchina da un medico per rischiare seriamente di venire abusata. Il dottore infatti la porta in campagna in un luogo appartato, ma lei riesce a opporsi efficacemente. Giorgio fa le sue congetture sulle ragazze. Cerca di trovare differenze di costume tra quelle che lavorano e quelle che studiano, pensa che le ragazze delle grandi città siano tutte poco serie: insomma pensieri e pregiudizi ricorrenti nei ragazzi di ogni generazione. Cassola si fa sfuggire un commento, un'osservazione amara, mette in bocca ai suoi personaggi una sentenza inoppugnabile: nella vita è solo questione di soldi, coi soldi si può essere generosi o farsi perdonare tutto. Su tutto prevale la cupidigia, il culto del denaro e un’etica del lavoro, che se analizzata risulta riprofevole. La trilogia di Mastronardi ad esempio (“Il maestro di Vigevano”, “Il calzolaio di Vigevano”, “il meridionale di Vigevano”) è eloquente a riguardo, illustra chiaramente la grettezza e l’arrivismo della borghesia votata esclusivamente al profitto. Ma quelli descritti da Cassola erano anche i tempi in cui una ragazza se usciva la sera e fumava le sigarette destava scalpore e scandalo nei perbenisti. C'era una ristrettezza di vedute all'epoca. Poco era consentito e molto era tabù. Anna si sposa incautamente e frettolosamente con un avvocato di mezza età di Recanati, che ha conosciuto a una festa. Eppure prima aveva conosciuto Ferruccio, amico di suo fratello, con cui c'era stata un'amicizia affettuosa senza intimità. L'unica affinità elettiva tra Anna e il suo marito era che entrambi si annoiavano a quella festa. Il suo fratello si sposa senza pensarci troppo con l'incoscienza della gioventù. Si può affermare che come i protagonisti di "Delitto e castigo" di Dostoevskij e di "I sotterranei del Vaticano" di Gide compiono l'omicidio assurdo allo stesso modo in questo romanzo i due fratelli compiono un gesto assurdo sposandosi entrambi in modo avventato. Ma la guerra inizia a trasformare le vite dei protagonisti. Il marito di Anna va in guerra e di lui per diverso tempo non si hanno più notizie. Anna e Ferruccio diventano amanti. Ferruccio si mette a fare il giornalista. Giorgio perde l'impiego perché scoperto in combutta coi repubblichini. A tratti il romanzo diventa concettuale, soprattutto quando Ferruccio, amante di Anna, decide che vuole fare lo scrittore, decide di spendere gran parte del suo stipendio in libri ed allora vengono fatte delle riflessioni intellettuali sui romanzi del Novecento. La digressione però non annoia. Il marito di Anna ritorna e chiede la separazione. Ferruccio poi capisce di non amare più Anna perché si invaghisce di una ragazza molto più giovane. Cassola si dimostra maestro a rivelare le contraddizioni dell'animo, ormai insanabili dei suoi personaggi. In fondo se i lettori dell'epoca si appassionavano per le vicissitudini narrate nei suoi libri qualche motivazione più che plausibile c'era, ovvero il fatto di essere letteratura di consumo di alta qualità per quei tempi. Infine come nel romanzo "L'antagonista", che Cassola considerava la sua miglior opera, anche qui c'è un duello a distanza tra due maschi, che si contendono una donna.

 

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(Nella foto Davide Morelli con l'amico di infanzia Emanuele Morelli dopo tre birre) 


Ricapitolando e facendo una breve sintesi dei romanzi italiani sul nazifascismo e sulla seconda guerra mondiale abbiamo:

 

"Uomini e no" di Vittorini: la Resistenza a Milano e la rappresaglia dei tedeschi
"La storia" della Morante: romanzo corale, crudo, ambientato a Roma, criticato anche per la descrizione della crudezza della Resistenza
"Il giardino dei Finzi Contini" di Bassani : la condizione degli ebrei a Ferrara
"Se questo è un uomo" di Primo Levi: il lager
"Cristo si è fermato a Eboli" di Carlo Levi: il confino
"Il sentiero dei nidi di ragno" di Calvino: la Resistenza vista con gli occhi di un bambino
"Il partigiano Johnny" di Fenoglio: la presa di Alba e la Resistenza nelle Langhe
"Lessico famigliare" della Ginzburg: l'attività antifascista e gli intellettuali antifascisti
"La polvere sull'erba" di Bevilacqua: il triangolo rosso in Emilia
"Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern: la ritirata in Russia
"La ragazza di Bube" di Cassola: ex partigiano che uccide il figlio di un carabiniere
"Il clandestino" di Mario Tobino: la lotta partigiana in Versilia
"L'ombra delle colline" di Arpino: l'uccisione di un tedesco da parte di un bambino
"L'Agnese va a morire" di Renata Viganò: la staffetta partigiana
"La casa in collina" di Pavese: la fuga e il rifugio dai bombardamenti nazisti
"Troppo tardi" di Cassola: la storia di un fratello, di una sorella e dei suoi due amori ai tempi del fascismo e della guerra.

 

 

 

"Il romanzo del Novecento" di Giacomo Debenedetti

giu 152022

 

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Questo libro raccoglie i Quaderni in cui il grande critico letterario Debenedetti stendeva le sue lezioni universitarie. La presentazione è di Eugenio Montale. Alla fine del libro si possono trovare le note, in cui sono elencati tutti i riferimenti bibliografici, e il repertorio di autori, opere, personaggi e periodici citati. Debenedetti si interroga sul concetto di contemporaneità. Analizza le epifanie di Joyce, le intermittenze del cuore e la memoria involontaria di Proust, il fu Mattia Pascal di Pirandello. Compara e accosta Italo Svevo a Joyce e Proust, Moravia a Pasternak. Ricorda il lavoro del critico Renato Serra. Studia le opere di Tozzi. Questi Quaderni sono un’ulteriore conferma del rigore e delle capacità analitiche di Debenedetti, che seppe per primo comprendere l’influenza delle scienze umane (la psicologia del profondo e la sociologia) e della microfisica nella letteratura moderna. Debenedetti è un profondo conoscitore della psicanalisi di Freud, della psicologia analitica di Jung e della fisica delle particelle. Tuttavia non c’è traccia di scientismo nel suo lavoro. Non gli interessa la ricerca totale dell’oggettività, che anni dopo sarà propria della critica strutturalista e della semiologia, che cercheranno di condannare all’oblio l’intuizionismo crociano. Debenedetti è consapevole che le intermittenze del cuore, le epifanie, l’assurdo, l’informe, il grottesco dei personaggi in sciopero degli antiromanzi non devono essere compresi tramite l’analisi delle ideologie e delle sovrastrutture. Bisogna comprendere soprattutto le infrastrutture della psiche. Lo studio della letteratura moderna non necessita di una logica positivista: Debenedetti ci avverte che la scienza moderna è entrata nella letteratura, ma non per questo egli utilizza la metodologia e l’epistemologia delle scienza per comprendere la letteratura moderna. Il grande critico ci avverte che nel panorama letterario, dopo la crisi irreversibile del naturalismo, all’improvviso è presente un ospite invisibile, un’entità del sottosuolo: l’inconscio. Epifanie, intermittenze del cuore, illuminazioni interiori, piccole rivelazioni, conflitti interiori, dissolvenze non si possono spiegare adoprando i sillogismi. La nevrosi non si può comprendere con l’ausilio della logica deduttiva, che cercherà sempre di occultare e rimuovere l’ineffabile. Debenedetti ci insegna che i comportamenti dei personaggi dei nuovi romanzi non sono la risultante dell’ideologia. Sono sintomi di un malessere che si è impadronito dell’uomo contemporaneo. Debenedetti per fare una disamina di tutto ciò si serve di un approccio interdisciplinare: non ha un metodo definito, ma allo stesso tempo ha molti metodi. Nella letteratura compare il personaggio-uomo perché la teoria dei quanta e il principio di indeterminazione spazzano via il meccanicismo e i rapporti di causa-effetto. Irrompe sulla scena un nuovo concetto: la probabilità. Ecco allora che qualsiasi azione, qualsiasi comportamento, qualsiasi evento è in sé aleatorio. Non può più esistere nessuna trama, nessuna narrazione come nei secoli scorsi. L’uomo è un essere indeterminato. Si sa ciò che è più probabile e ciò che è improbabile. Ma anche l’improbabile può avverarsi e il probabile non accadere. E se l’uomo è fatto di atomi…. allora perché la sua vita e il suo nucleo non possono essere governati dalle stesse leggi della microfisica? I conflitti sociali ed economici, gli stessi eventi storici apparentemente sembrano scaturiti dal “sovrumano”. Ma se dietro il “sovrumano” si celasse “l’infraumano”? La cultura e le stesse istituzioni sono forse preda dell’infra? L’illusione antropocentrica si dissolve in un istante, indipendentemente dal fatto che la microfisica sia il motivo profondo di una nuova dimensione antropologica dell’uomo oppure l’elemento per un parallelismo efficacissimo. Il discorso di Debenedetti, che sembrava essere solo letterario, ci porta a interrogarci anche sulle dinamiche sociali ed economiche dell’epoca moderna. D’altronde Debedenedetti per comprendere una realtà così frammentaria e irrazionale come quella del Novecento non poteva certo servirsi dell’idealismo crociano né delle filosofie irrazionali. Il grande critico ebbe il merito di capire che anche l’irrazionalità di quella realtà aveva una sua logica. La letteratura del’900 ha come protagonista l’inetto. Ma il romanzo non esiste più. I critici letterari lo chiameranno antiromanzo: un’opera d’arte così innovativa da trascendere sia la logica del mercato editoriale che quella del classico. Gli studiosi scriveranno che i romanzieri vanno a caccia di epifanie delle epifanie, di “infra della psiche”. Scopriranno che le intermittenze del cuore di Proust si fermano molto più in superficie delle rivelazioni microscopiche di Joyce, Musil, Svevo e Pirandello. Mai gli scrittori hanno scandagliato così a fondo nell’animo umano. Mai come ne l’900 hanno scavato così in profondità. Giacomo Debenedetti illuminerà tutti con il suo saggio sul personaggio-uomo, in cui riuscirà a conciliare Freud e principio di indeterminazione, inconscio e microfisica.
L’io nelle pagine memorabili della letteratura del’900 non si ripiega su se stesso, ma addirittura si frantuma. Le categorie d’analisi e la logica ordinaria scompaiono, si eclissano. E’ il congedo del “penso, dunque sono”. Scompare il soggetto, ma non la soggettività. Quel che resta comunque è il vuoto al centro e mille schegge di interiorità nelle immediate vicinanze, che tramite sensazioni e percezioni distorte e pensieri di pensieri sconnessi rivelano non più il volto dell’uomo, ma un uomo contemporaneo ormai senza più volto. La tesi di Ortega y Gasset, esposta nel suo saggio “La disumanizzazione dell’arte” trova più di una conferma. La nuova letteratura è impopolare, la grande massa è distante dalle opere letterarie, non le ama perché queste fanno una radiografia dell’uomo moderno. Molti romanzi moderni si presentano spesso al primo colpo d’occhio e alla prima lettura superficiale come una semplice finzione, come la pura e semplice rappresentazione di un gioco. In realtà svelano il malessere dell’uomo contemporaneo. Quel che poteva sembrare inverosimile e grottesco in ultima analisi non è altro che la nuda e cruda verità umana. E il lettore si trova disarmato di fronte ad una descrizione così puntigliosa ed esatta delle sue conversazioni e di ciò che pensa tra sé e sé, in definitiva di se stesso.

 

P.s: secondo il principio di indeterminazione non si può sapere contemporaneamente la velocità di un elettrone e la sua posizione. Secondo questo principio inoltre ogni volta che osserviamo qualcosa in modo infinitesimale  modifichiamo la "scena". 

 

Considerazioni sull'autofiction...

giu 112022

undefinedNell’enciclopedia Treccani alla voce “autofiction” si trova scritto: “Il termine autofiction, coniato nel 1977 dallo scrittore francese Serge Doubrovsky in riferimento al suo romanzo Fils, indica il genere letterario in cui l’autore stesso è il protagonista delle vicende di finzione narrate. Nato con un’esplicita ispirazione psicoanalitica, come indagine sull’inconscio, e utilizzando gli stilemi del nouveau roman, in anni più recenti, con l’arrivo del post moderno, il tema più diffuso nei lavori di a. sembra essere piuttosto il rapporto problematico tra verità e menzogna, tra identità e differenza, in una società dominata dalle immagini tecniche e dai simulacri (in Italia, si veda, per es., il romanzo di Walter Siti, Troppi paradisi, 2006)”.

Leggevo di recente un articolo del grande poeta e scrittore Roberto Pazzi, in cui si lamentava del fatto che oggi vada per la maggiore l’autofiction (Saviano, Giuseppe Genna, Walter Siti, Teresa Ciabatti, etc) e sia troppo diffuso il “microautobiografismo”. Secondo questa scuola di pensiero troppi autori sono egoriferiti, sono troppo coinvolti emotivamente, non riescono a mettere a distanza le loro cose della vita, non riescono a utilizzare un sufficiente distacco (forse semplifico, ma in realtà certe ragioni vengono sottintese e mai esplicitate da molti). A tale riguardo scrivevo in tempi non sospetti, ovvero 30 anni fa, che la vita è un’immagine che si può mettere a fuoco solo quando si è distanti. Ma secondo un’altra scuola di pensiero “Madame Bovary c’est moi”, così come è sempre valido il detto veneto “pittore parla dei quadri”, ovvero noi stessi siamo la materia che conosciamo (alcuni come il poeta Vittorio Orlando affermano che l’unico progresso è quello interiore). Secondo questa seconda scuola di pensiero perché dovremmo inventare eventi o personaggi quando possiamo prendere a piene mani dalle nostre vite? In fondo mi chiedo io chi ha detto che per passare dal particolare all’universale bisogna per forza trasfigurare e creare? Perché non attingere totalmente o quasi dalle nostre vite? Perché non trattare di noi invece di creare mondi fittizi? Aggiungo anche che le neuroscienze hanno dimostrato, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, che la mente umana attiva undici aree cerebrali ogni volta che immagina, ma è anche vero che immaginare non è creare ex novo o creare ex nihilo. L’immaginazione umana manipola e combina vecchie immagini. Che poi le immagini mentali ci suggestionino e influenzino direttamente la nostra vita è vero, ma è altrettanto vero che anche l’artista con più immaginazione inizia sempre dal materiale preesistente della sua vita. L’autofiction è perfettamente in linea con tutto ciò. E allora perché deve essere visto male parlare di sé? Perché uno scrittore deve parlare d’altro per poi finire immancabilmente di parlare di sé stesso? Perché fingere totalmente? Perché parlare d’altro!? Perché fare un gioco di sponda? Perché traslare? Perché non affrontare subito e in tutta onestà ciò che ci sta più a cuore o forse ciò che ci riguarda di più, ovvero noi stessi? Chi ha detto poi che dei fatti biografici non possano creare empatia e rispecchiamento? In fondo è sempre difficile stabilire quanto io c’è nel mondo che percepiamo e quanto mondo c’è nel nostro io. Per l’eterogenesi dei fini talvolta chi cerca il mondo trova l’io (le sue proiezioni, i suoi fantasmi psichici) e viceversa chi cerca l’io trova il mondo. Difficile è anche cercare una linea di demarcazione tra io e mondo perché l’interazione è continua, il flusso è ininterrotto. Forse l’autofiction è il punto d’incontro ottimale tra realtà e finzione. Certo parlare di sé significa avere più remore, significa autocensurarsi, avere più inibizioni, andare incontro a disapprovazione sociale, ma è altrettanto vero che scrivere significa mettersi a nudo. Poi ci potrebbero essere delle grane legali a parlare troppo della propria vita. Se uno scrive di fantasia ogni riferimento è puramente casuale. Se il libro è autobiografico ogni riferimento può essere causale e possono perciò fioccare le querele. Forse anche in questo caso l’autofiction è la strada migliore. Però ci sono anche delle controindicazioni: oggi i libri subiscono un editing molto forte in nome del politicamente corretto; questo forse vuol dire che in fondo è più ammissibile per il pubblico una storia inventata con alcune venature maschiliste per esempio che un romanzo autobiografico, dato che nel primo caso uno si può sempre difendere dicendo che punto di vista dell’autore e quello della voce narrante non necessariamente coincidono. Se un lettore moralista vuol pensare male a ogni modo lo farà anche di fronte a una storia erotica inventata di sana pianta, sostenendo che certe cose per scriverle così bene bisogna averle provate. Certamente oggi il gossip letterario è scarso: sono lontani i tempi in cui nei salotti letterari si vociferava che Saba fosse omosessuale per via dell’iniziazione omosessuale del protagonista del suo unico romanzo “Ernesto”. Certo c’è anche chi ce l’ha con l’autofiction perché troppo confessionale, troppo intima. Sarebbe prima di tutto una questione di pudore, di discrezione per taluni, fino a sentenziare che i fatti propri di questo o quell’autore non interessano a nessuno. Ma allo stesso tempo non tutta la fantascienza, non tutto il fantasy o non tutto il realismo magico interessano ai più! Un altro motivo per cui si può criticare l’autofiction è la parte saggistica in ogni suo romanzo oppure quella metaletteraria. Anticamente la prosa doveva essere barocca, a costo, nei casi peggiori, di dimostrare la propria bravura con un periodare involuto. Nel Novecento il miglior prosatore appartenente a questa scuola è stato Giorgio Manganelli, che si caratterizzò sempre per genialità, sperimentalismo, grazia, cultura, immaginazione. Dal punto di vista narrativo “Centuria” e dal punto di vista saggistico “Letteratura come menzogna” ne sono le prove incontestabili. Un tempo c’era inoltre una distinzione netta tra narratori puri (come Pavese, Cassola, Tondelli) e descrittori (primo tra tutti Calvino e i suoi epigoni). Per decenni avuto la meglio i descrittori puri. Oggi invece per pubblicare in una grande casa editrice un romanzo di solito deve avere un taglio descrittivo e a tratti deve essere anche un romanzo saggio. Oppure se un romanziere vuole soddisfare la critica militante può scrivere un romanzo anche senza trama, ma caratterizzato da straniamento (tanto per fare due esempi come nel caso del cavallo narratore in “Cholstomér” di Tolstoj o come in “Sentinella” di Brown, in cui il narratore a sorpresa è un alieno) e pluristilismo. Il flusso di coscienza invece non sembra avere più successo, almeno non ricalcando gli stessi stilemi di Joyce, Faulkner, Woolf, né ricalcando il flusso di coscienza totalmente alterato di Burroughs. C’è anche chi dice comunque che con l’autofiction non hanno inventato niente perché essa esisteva da secoli. C’è infine chi non critica totalmente il genere, ma pensa che l’autofiction dovrebbe essere scritta meglio. Insomma come al solito in molti si azzuffano e i libri non si vendono. In tutta onestà non tutti i dettami della critica devono per forza corrispondere al vero, così come non sempre il successo di un genere decretato dal pubblico deve per forza essere garanzia certificata di chissà quale qualità (Arbasino ricordava che ragionando in questo modo i migliori ristoranti del mondo sarebbero i McDonald’s). Che poi sia che un autore si rivolga all’interno o all’esterno ci sarà pur sempre una concavità o una convessità, una introflessione o una estroflessione: insomma la lente sarà sempre deformante, ci saranno perciò sempre delle deformazioni nell’opera. Che cosa c’è davvero di oggettivo nell’arte e nel mondo interiore? Quando uno studente chiese al grande matematico Caccioppoli quale fosse la legge più vera in assoluto, ebbene lui rispose: “Al cuore non si comanda”. Un altro grande matematico, Galois, fu la dimostrazione che “al cuore non si comanda”: fece un duello per difendere la donna che amava e sempre per amore, questa volta della sua disciplina, rivide e corresse tutti i suoi appunti la notte prima del duello in cui morì. In definitiva mi sembra che queste due scuole di pensiero (pro autofiction o contro) ripropongano in piccola parte l’antica disputa realismo/idealismo. Ritengo che la scelta artistica di trattare di sé o di altri può maturare in base all’introversione/estroversione dell’autore e quindi dalla sua personalità di base. C’è sempre un orientamento verso l’io o il mondo, una predilezione accentuata. Nessuno riesce a stare a metà strada tra queste due polarità. Forse non è una caratteristica umana riuscire a trovare l’equilibrio e anche l’armonia tra le due cose. Ci sono autori che hanno un atteggiamento quasi schizoide sulla polarità da scegliere. Kafka scrisse: “Non esiste altro mondo fuorché il mondo spirituale. Quello che noi chiamiamo mondo sensibile è il Male del mondo spirituale”. Sempre Kafka in “Quaderni in ottavo” scriveva: “Quanto misera è la conoscenza che ho di me stesso, paragonata – poniamo – a quella che ho della mia stanza. Perché? Non esiste un’osservazione del mondo interiore, come ne esiste una del mondo esterno. La psicologia descrittiva è in complesso un antropomorfismo, un modo di intaccare i limiti. Il mondo interiore si può solo vivere, non descrivere. – La psicologia è la descrizione del rispecchiarsi del mondo terreno sulla superficie celeste, o meglio: la descrizione di un rispecchiamento, come ce lo immaginiamo noi, creature impregnate di terra, perché in realtà non c’è alcun rispecchiamento, siamo solo noi che vediamo terra dovunque ci volgiamo”. È difficile trovare l’equilibrio interiore, ma altrettanto è difficile trovare quello artistico. È difficile scegliere dove volgersi, se verso lo scavo di sé o verso l’estensione nel mondo. Ma quale sarebbe l’opposto dell’autofiction? Per esempio la polifonia, descritta da M.Bachtin. Quest’ultimo prendeva come modelli i romanzi dialogici di Dostoevskij. Un romanzo secondo questa scuola sarebbe ben congegnato quando vi sarebbe una molteplicità di punti di vista. Ma viene da pensare anche che una buona autofiction può essere polifonica. Per accontentare pubblico e critica una buona autofiction dovrebbe contenere polifonia (ovvero alterità) e straniamento (ovvero rovesciamento dei punti di vista). A ogni modo non bisogna scegliere in base alle mode del momento, ma in base a ciò che sentiamo noi stessi dentro. Ben sapendo che qualsiasi cosa scegliamo ci sarà qualcuno che ce lo rinfaccerà. Comunque sia, come ha detto Walter Siti: ““Lo stile non si preoccupa del like”. Ma le cose andrebbero bene in Italia se prevalesse realmente l’autofiction di Siti e Genna. In realtà sono egemoni le micronarrazioni degli/delle influencer e anche le autofiction continue dei reality show e dei talk show. In tutta onestà a onor del vero l’autofiction letteraria, croce o delizia, è destinata purtroppo a un pubblico di nicchia. La vera narrazione oggi avviene purtroppo al di fuori della letteratura: il surrogato ha da tempo preso posto ormai dell’originale, il supplente ha sostituito a tempo pieno il titolare. Il pubblico letterario stesso ormai è come una donna che si è innamorata dell’amante e ha lasciato definitivamente il marito. Così vanno le cose.

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