A ruota libera su ossessioni, scuola, storia, scienza, attualità
giu 272022
Una tematica può essere trattata, sviscerata nei modi più disparati. Infinite possono essere le chiavi interpretative, infinite le chiavi di lettura. Ci sono molti autori che trattano la depressione, sono depressivi, sono deprimenti. Ma la questione non è tanto come affrontare una tematica. A volte mi chiedo perché certi autori scelgano quell'argomento. Mi chiedo quanto ci sia di razionale e di irrazionale, di conscio e dell'inconscio. Comunque la natura della tematica e lo stile con cui viene trattata dipendono dalla visione del mondo, dalla personalità, dalla cultura, dall'esperienza, etc etc. Si ritorna al discorso delle ossessioni. Ogni autore ha le sue. Ogni autore ha le sue fissazioni. Difficile discostarsi da esse. Anche quando si sceglie un argomento del tutto nuovo apparentemente originale ecco che ritornano schemi, costanti, stilemi, manie, tare psicologiche. A vedere bene sembra che le varianti di ogni autore siano infinitesimali. Se leggiamo "Gli indifferenti" constatiamo quanto ci sia del Moravia successivo in quel libro, quanto anticipi ciò che verrà dopo in quel romanzo. La prima opera di un autore è allora l'anteprima di quel che verrà dopodomani? Come dicono molti ogni scrittore è destinato a ripetere il primo libro?
In Meditazione milanese Gadda dedica un metro capitolo ai fini e scrive che «gli n tendono agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero, gli n+1 non esisterebbero già". L’uomo forse tende ad n+2, ad n+3, ad n+infinito. Questo significa che gli uomini vogliono progredire infinitamente la loro conoscenza. L’uomo vuole incrementare il sapere continuamente. Ma siamo sicuri che scrivere significhi progredire all'infinito, evolversi ad libitum? Oppure si rimane sempre lì?
Dante aveva le sue ossessioni (Beatrice e la metrica), era ossessionato, è ossessionante per i lettori, aveva un tratto di personalità ossessivo (si veda per esempio come era un maniaco delle forme chiuse e come seguisse rigorosamente certe regole). Ecco spiegato perché non sono un dantista o un dantologo. In un certo qual modo non studiare Dante è un modo per preservare quel poco che resta della mia salute mentale. Non voglio idealizzare le mie ossessioni, vere o presunte, come fece lui con Beatrice. Mi ricordo di Paolo e Francesca, di Ciacco, del sodomita Brunetto Latini, del suicida Pier della Vigna, del conte Ugolino che mangiò i figli, del fatto che Dante mise Maometto all'inferno, di Virgilio, di Beatrice appunto, di Cacciaguida, del pigro Belacqua, dell'invettiva di Dante con Sordello, di Maria Pia de' Tolomei, di Piccarda Donati. Insomma mi ricordo qualcosa, anche se poco. Ho delle vaghe reminiscenze. Sento molti altri autori più vicini a me per l'epoca, le tematiche, la cosiddetta affinità intellettuale. Di solito nei confronti di Dante ci sono due atteggiamenti contrapposti: 1) chi sa Dante a mente e lo ritiene fondamentale per la formazione culturale. 2) chi pensa che la Divina Commedia non dovrebbe essere insegnata nelle scuole.
Per avvicinare Dante ai giovani di oggi ci sono le pubblicazioni della Divina Commedia in prosa, che non sono uno scempio né un'assurdità. Si possono acquistare con poche decine di euro. Lo so che alcuni insegnanti hanno la loro impostazione. Devono insegnare agli studenti che quella terzina incatenata Niccolò Tommaseo la interpretava in un modo, mentre invece Francesco de Sanctis in un altro. Se invece per esempio compri il Decameron in prosa moderna (si pensi alla curiosità dei corsi e ricorsi storici e di quanto con la pandemia il Boccaccio sia diventato di nuovo attuale), "tradotto" da Aldo Busi (ed è un grande merito), hai solo quell'interpretazione. Però forse hai un poco le idee più chiare. È vero comunque che la lettura di queste opere, attuali o meno, devono aiutare a leggere la complessità attuale. Affrontare oggi il mondo significa sfidare la complessità. La scuola poi è questione più di prestazione che di competenza. Ma aver studiato qualche canto della Divina Commedia può aiutare a interpretare la realtà. La cultura poi, non dimentichiamolo, non è solo conoscenza esplicita da richiamare alla mente ed esporre in una conferenza, ma è anche conoscenza implicita. Ciò significa che anche delle nozioni ormai dimenticate possono essere considerate come basi della nostra formazione culturale. Anche libri letti e poi dimenticati hanno plasmato e plasmano i circuiti del nostro hardware intellettuale, delle nostre sovrastrutture intellettuali. Noi siamo anche i libri che abbiamo letto. Anche quelli possono salvarci. Quindi anche se è un poco noioso e a volte non se ne vede l'utilità pratica fa anche bene a uno studente sapere le differenze interpretative de "I promessi sposi" tra Angelo Marchese e Luigi Russo, tra chi riteneva che Manzoni credesse in un deus absconditus e chi in un deus ex macchina. Va anche bene imparare ciò che ha scritto la critica sulla redenzione etico-religiosa di Renzo nella notte sull'Adda oppure leggere attentamente l'ultimo capitolo de "I promessi sposi" e imparare che per Manzoni la realtà non è mai idilliaca, che l'idillio non esiste mai. In fondo, anche se preferisco altri autori stranieri, sapere qualcosa di Dante e Manzoni significa sapere qualcosa dell'Italia, degli italiani, di ciò che eravamo: capire come siamo diventati ciò che siamo oggi e capire qualcosa in più di noi. Se non ho fatto mai del male a una mosca (e la tentazione di fare del male agli altri talvolta ce l'avrei veramente, talvolta mi immagino di fare del male a chi non posso soffrire, ma poi desisto), se freno i miei impulsi aggressivi (anche bestiali) forse è anche per i libri letti, per le mie riflessioni su di essi. Ma i libri letti, un poco studiati e dimenticati fanno parte del nostro bagaglio, del nostro retroterra culturale. Ci riparano anche dal male che ci fa il mondo e la vita. Sono quelle pagine dimenticate ormai che forse ci permettono di metabolizzare il male. Forse qualcosa resta delle nozioni apprese a scuola, anche se solo inconsciamente e resta al di sotto della nostra soglia quotidiana di consapevolezza. In fondo i libri basta averli capiti, metabolizzati. Cosa importa se certe nozioni cadono nell'oblio? Certo bisognerebbe ripassare. Ma riprendere certi libri di scuola, ormai polverosi e incartapecoriti, mi immalinconisce, mi intristisce profondamente. Rimarrò con alcune dimenticanze e alcune lacune. Non dimentichiamocelo mai: ognuno ha le sue lacune, ognuno è analfabeta in qualche ramo dello scibile. A volte, certi termini di Dante e Manzoni saranno arcaici, desueti. A tratti la loro concezione del mondo ci sembrerà distante anni luce. In fondo anche se ci siamo dimenticati di quelle pagine, di quelle nozioni in un certo qual modo ci hanno formato come uomini e donne. Però trovo una forzatura bella e buona il fatto che fino a pochi anni fa per superare un concorso nello Stato dovevi sapere certe nozioni di letteratura italiana, un poco stantie, mentre invece gli esaminatori magari soprassiedevano su alcune nozioni basilari e imprescindibili riguardanti la professione di quell'impiegato. Così come trovo assurdo l'esame di maturità, come è concepito oggi. Il poeta Maurizio Cucchi qualche anno fa si stupì del fatto che all'esame oggi chiedono le stesse cose che chiedevano a lui decenni fa. La maturità è datata, retrograda. Ma gli insegnanti sono esenti da colpe se i programmi ministeriali delle materie non cambiano. Come rendere attuale la scuola? Come modernizzarla? È proprio alla scuola che si deve chiedere il compito di interpretare la realtà attuale? È la scuola che deve avere la missione di decifrare il mondo attuale? Cosa può dire la scuola sull'uomo contemporaneo e sul mondo attuale? Cosa far studiare ai ragazzi della storia a loro più vicina? Come distinguere tra cronaca e storia? Esiste forse un modo oggettivo? Assolutamente no.
Spesso è necessario almeno un secolo perché certi fatti storici vengano valutati con serenità di giudizio e imparzialità. Per valutare con obiettività e con equanimità i fatti spesso bisogna esserne distanti. Dico semplicemente che per esempio oggi gli storici non sarebbero sufficientemente equipaggiati di obiettività nel valutare il conflitto tra Israele e Palestina. Inoltre il susseguirsi degli eventi è incalzante, inarrestabile. Il mondo moderno è caratterizzato da un dinamismo impressionante. Di punto in bianco ecco presentarsi - quando nessuno se lo aspetta - una svolta epocale, per cui al momento è difficile fare disamine o trovare modelli esplicativi adeguati. Si pensi all'undici settembre. Fino ad allora quanti occidentali sapevano le distinzioni tra sunniti, sciiti? Ci eravamo a mala pena "abituati" alle istigazioni al suicidio per uccidere gli infedeli da parte di Khomeini e degli Ayatollah, ma non pensavamo certo che Bin Laden colpisse al cuore l'America. Tutto a un tratto ecco presentarsi una contrapposizione inaspettata tra la solita America gendarme del mondo e gli uomini-kamikaze della Jihad. Per il momento questa è attualità, è cronaca. Quanto tempo ci vorrà per metabolizzare questi fatti e farli divenire storia? Non è un caso quindi che ultimamente la ricerca storica sia in crisi. C'è addirittura chi propone la "microstoria", ovvero restringere il campo d'indagine a dei fatti e delle situazioni particolari e più facilmente documentabili.
E' chiaro che la storia non può essere mai totalmente obiettiva, ma lo storico può avvicinarsi asintoticamente all'obiettività. In questa sede non voglio nemmeno parlare dei libri sulla resistenza di Pansa. Alcuni rimuovono le testimonianze dei vinti e nascondono gli orrori generati dalla loro parte. Ma la verità viene sempre fuori. Nonostante i negazionisti, che sono i peggiori storici. Niente di nuovo sotto il sole: sono sempre esistiti. Attualmente esistono i negazionisti dell'Olocausto, così come i negazionisti delle foibe. Tempo addietro in Turchia esistevano anche i negazionisti del genocidio armeno da parte dell'impero ottomano, che oggi è stato riconosciuto sia dall'Onu che dal Parlamento europeo. In tutto questo bailamme mi sembra assurda la domanda che si pone Spengler ne "Il tramonto dell'Occidente", ovvero se la storia ha una sua logica. Non credo affatto che la storia abbia una sua logica, semmai infinite contraddizioni, orrori e atrocità. Si pensi che addirittura i nazisti hanno confezionato i paralumi con la pelle degli ebrei e i rivoluzionari francesi hanno conciato l'epidermide dei reazionari.
E quale deve essere il rapporto tra scuola e sapere scientifico? Cosa può insegnare oggi la scuola se molti studenti andranno domani a fare un lavoro che oggi ancora non esiste? Jung riguardo al rapporto tra i progressi della scienza e l'umanità aveva scritto: "i voli spaziali sono soltanto una fuga da sé stessi, perchè è più facile andare su Marte o sulla Luna che penetrare nel proprio io". In attesa di nuovi stadi evolutivi e di nuove fasi antropologiche l’uomo contemporaneo, la cui psiche non è più una struttura equilibrata e bilanciata, può dimenticare sé stesso nella prassi o nel nuovo misticismo del corpo, ma mai giungere alla sintesi degli opposti, mai approdare alla totalità, considerando lo iato tra natura e arte, tra natura e cultura, tra natura e civiltà. L’uomo contemporaneo non ha più la vitalità sufficiente per vivere il dionisiaco, né la saggezza per giungere all’apollineo. La società di massa e i media non aiutano. Le sensazioni, le informazioni, le notizie sono eccessive e invece di fagocitarle finiamo noi stessi per essere fagocitati da queste. Anche le quisquilie più irrilevanti, se si tratta di fatti che riguardano i vip, diventano cronaca. Poi interi massacri di popoli lontani vengono taciuti. D’altronde sono i paradossi della modernità. Decenni fa un radiodramma di Orson Welles fu scambiato per un notiziario e creò il panico perché molti americani cedettero che l’America fosse stata invasa dagli extraterrestri. Oggi nessuna notizia crea più scompiglio. In un attimo la novità si perde nel dimenticatoio. Sorel aveva profetizzato che la modernità sarebbe stata caratterizzata sostanzialmente dalla velocità e dalla violenza. Era stato lungimirante. Oggi infatti le notizie vengono presentate e scompaiono rapidamente e nella maggioranza dei casi trattano di cronaca nera. Tutto finisce per essere sciatto, ovvio, banale, risaputo. Un tempo certi libri vengono messi all’indice. Oggi niente fa più scandalo. I romanzi sono troppo lunghi per essere letti. Anche il minimalista e postmoderno Carver, maestro ineguagliabile della short story non è conosciuto al grande pubblico. Allo stesso tempo nessun saggista prova più un’indignazione per essere un vero pamphlettista. Il mondo è proteiforme. Nazioni, identità, appartenenze, culture stanno scomparendo. Il tessuto sociale si sta disgregando. Stanno scomparendo le comunità e la comunicazione fatica. L’individuo è atomizzato. La massa è anonima. Il potere è così neutro da apparire impalpabile. Su tutto prevale l’immagine, la cupidigia, il culto del denaro ed un’etica del lavoro, che se analizzata risulta riprovevole moralmente. La trilogia di Mastronardi (“Il maestro di Vigevano”, “Il calzolaio di Vigevano”, “il meridionale di Vigevano”) è eloquente a riguardo, illustra chiaramente la grettezza e l’arrivismo della borghesia votata esclusivamente al profitto. Questa è la civiltà dell’immagine e le masse sono idolatre, solo pochi solitari rabbiosi trovano la forza per essere iconoclasti. L’uomo contemporaneo non sa come utilizzare la libertà. Una libertà inaudita rispetto ai secoli precedenti, ma in fin dei conti una libertà apparente. Dostoevskij aveva già affrontato questa problematica. Paradossalmente potremmo anche concludere che se l’uomo utilizza la libertà come il protagonista di “Delitto e castigo” allora ben venga un Grande Inquisitore, che lo affranca da ogni tipo di libertà, perché ritiene l’uomo un essere immaturo e irresponsabile. La cultura occidentale si sta dissolvendo. L’America ha voluto colonizzare anche il nostro immaginario, volendo far credere nei loro film che gli americani hanno una villetta a schiera con tanto di barbecue e di canestro, i figli al college (che tra l’altro ha dei costi elevati perché non conoscono il significato dell’espressione “diritto allo studio”) , una moglie che va con le amiche a giocare al bridge e un ragazzo che ti porta il giornale ogni mattina. L’affluent society insomma, dimenticandosi di presentare al mondo i senzatetto senza uno straccio di assistenza sanitaria. Il declino è inarrestabile. Lo scrivo a costo di passare per catastrofista. Però noto che queste tematiche non sono contemplate dalle fraseologie dell’ortodossia culturale, che piuttosto cerca di giustificare l’esistente.