Il Blog di Davide Morelli

Pensieri di un pontederese (Sozzifanti mon amour)

"Il giorno della civetta" di Sciascia...

mag 112025

“Il giorno della civetta” venne pubblicato nel 1961 e divenne un bestseller, in un'epoca in cui non era ancora avvenuto lo scadimento generale odierno (basta confrontare la classifica dei libri più venduti di alcuni decenni fa con quella di oggi). Venne fatto anche un film da Damiani. La critica vide in questo romanzo breve un “giallo problematico”, innanzitutto perché lo svolgimento, l'iter narrativo non era quello canonico. Il giallo più problematico, almeno in Italia, come rileva Walter Pedullà, è Quer pasticciaccio di Gadda, che è incompiuto e di cui non si sa mai il colpevole. In Gadda vince lo gnommero; la realtà è incomprensibile e inafferrabile, insomma inattingibile. In questo romanzo di Sciascia invece la questione di fondo non è la verità in sé e per sé, ma quella di scrivere la verità per testimoniare, denunciare socialmente, far prendere coscienza. Lo scrittore con quest'opera aprì definitivamente gli occhi all'Italia intera e non solo sulla mafia. Però sorge un altro problema ulteriore, ovvero come dire e scrivere la verità se non c'è giustizia. Nei libri di Sciascia i colpevoli li sappiamo, ma non vengono puniti. La questione di fondo riguarda quindi il rapporto tra verità terrena, fattuale e giustizia terrena. La grande novità dello scrittore di Racalmuto è quello di aver rappresentato la mafia così com'era. Nel romanzo dominano l'omertà (si vedano le pagine iniziali quando dopo l'omicidio tutti scompaiono dall'autobus) e la collusione politica con la mafia (l'onorevole corrotto). Il capitano Bellodi, il protagonista, è un eroe che lotta in trincea contro la mafia, ma è tutto inutile. Più in generale la mafia costringe al silenzio i testimoni, elimina le prove, trova alibi di ferro, delegittima i giusti, corrompe tutto e tutti e l'eroismo quotidiano di chi cerca verità e giustizia viene riconosciuto solo quando un giudice, un sindacalista, un giornalista viene ucciso (si pensi ad esempio a Falcone e Borsellino). Certamente il protagonista, il capitano dei carabinieri Bellodi, non viene ucciso e resta lì in trincea a rompersi il capo con il problema insolubile della mafia, tra chi lo ostacola e chi è diffidente nei suoi confronti, sia perché è uno sbirro, sia perché è un “continentale”. Sciascia non poteva fare i nomi. Allora ecco un altro rapporto problematico: quello tra verità e finzione. Lo scrittore prende come spunto l'omicidio del sindacalista Accursio Miraglia, ma impasta realtà e immaginario, non si limita alla sola cronaca o al solo documentarismo. Se per scrivere romanzi ha bisogno del fondamento etico e politico di Gramsci e Gobetti, dal punto di vista narrativo e gnoseologico ha bisogno di rifarsi a Borges (si veda le Cronachette), a Pirandello (si veda la raccolta di saggi “Pirandello e la Sicilia"). In Sciascia la Sicilia è un enigma, ma la sua terra diventa un microcosmo, che rappresenta il mondo intero. In fondo “Il giorno della civetta” non è solo un romanzo su un delitto di mafia, ma un romanzo che indaga sull'anatomia e sull'essenza del Potere tout court. La mafia storicamente nasce con il latifondismo. Alcuni marxisti vedono in essa solo un epifenomeno del capitalismo. Ma la mafia è stata solo una forma arcaica di potere, basata sulla violenza fisica, che però oggi è diventata imprenditoriale: la criminalità organizzata ha messo i suoi tentacoli ovunque oggi. Sciascia tratta il potere onnipervasivo in Sicilia della mafia in quegli anni, ma finisce per trattare tutto il potere. Il Potere non commette forse abusi come la mafia? Il potere non occulta forse le prove delle sue malefatte? Il potere non cerca di emarginare chi cerca verità e giustizia? Sciascia parte quindi dal particolare, dal contingente mafioso per approdare all'universale. In questo senso questo romanzo non rappresenta solo come eravamo, ma è attuale ancora oggi. Come scrive la professoressa Barbara Biscotti la mafia non è solo un metodo criminale ma un concetto prototipico, comprendente un'ampia gamma di comportamenti e Sciascia rappresenta proprio questo. Certamente qualcosa Sciascia non descrive: descrive il rapporto tra cittadini comuni e mafiosi, tra mafia e giustizia, tra mafia e politica, ma non descrive il rapporto dei mafiosi con il denaro, la loro smania di roba verghiana, il fascino perverso che esercitano i cosiddetti uomini di onore sul popolo, la mafia come modo sbrigativo di riparare i cosiddetti torti. Sciascia qui rappresenta il potere mafioso e quello politico, molto meno quello economico, ma era già moltissimo all'epoca. Per quanto riguarda l'economia ci penserà anni dopo Pino Arlacchi a fare i conti alla mafia. Ma parlare e scrivere di mafia è difficilissimo. Si pensi solo al fatto che la bildung mafiosa sarà rappresentata solo con la sceneggiatura del film, dedicato al martire Peppino Impastato, “I cento passi”. Alcuni hanno visto nei romanzi di Sciascia il fatalismo perché giustizia non viene fatta. In realtà lo scrittore fa il punto della situazione: esprime e rappresenta la condizione storica, politica, processuale di quegli anni e il conseguente sentimento di rassegnazione quasi totale dei siciliani nei confronti del fenomeno mafioso. Sciascia non era assolutamente fatalista e lo dimostra questo suo romanzo, che mette in scena tutte le dinamiche psicosociali della mafia e le possibili giustificazioni culturali e politiche (i comunisti che sono in errore, la suddivisione dei mafiosi in uomini veri, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaraquà, il prefetto Mori che aveva metodi fascisti). In realtà il fatalismo del popolo rappresentato da Sciascia era storicamente giustificato: le innumerevoli dominazioni straniere, i Borboni, la strage di Portella della Ginestra, il prefetto Mori che venne destinato ad altro incarico quando volle iniziare a indagare sul rapporto tra mafia e banche, gli intellettuali e i politici che sostenevano che la mafia non esistesse, i magistrati che si imbattevano costantemente in un muro di gomma. Il fatalismo dei siciliani all'epoca era una reazione logica e umana al gattopardismo, all'immobilismo, storicamente, culturalmente, politicamente esistenti e fondanti. Inoltre i politici erano collusi con la mafia, miopi oppure onesti e capaci, ma parlavano il politichese delle “convergenze parallele”. Sciascia con “L'affaire Moro” descriverà l'ipocrisia, la falsità di uno Stato che non deve trattare con i terroristi rossi per non compromettersi moralmente, per non cedere al ricatto, quando invece intratteneva rapporti con la peggiore massoneria, con la criminalità organizzata, con gli stragisti: la realtà era che il compromesso storico non lo volevano ai piani alti, non lo volevano i poteri forti e le superpotenze (tra l'altro allo scrittore verrà erroneamente attribuita l'espressione “né con lo Stato, né con le Br”). La verità fino a questo romanzo era a doppio fondo: Sciascia descrive la verità di comodo, di facciata, e quella vera. Questo romanzo è quindi un capolavoro non solo letterario ma per quel che riguarda l'azione di disvelamento. Questo è un grande libro che grazie alla sua linearità fa chiarezza, illumina. Solo tramite questi libri si possono risvegliare coscienze assopite e addomesticate. Inoltre Sciascia non scrive una concione e condensa tutta la realtà criminale in un romanzo breve. Lo scrittore in poco più di 100 pagine riesce a fare un grande lavoro di analisi e sintesi sulla mafia. Sciascia ha i grandi meriti di aver capito che la linea della palma stava salendo irreversibilmente e che la mafia un tempo era un animale notturno che agiva nell'oscurità, in segreto, mentre già a quell'epoca il suo potere era aumentato notevolmente e poteva comparire indisturbata, come la civetta che compare di giorno (da qui l'esergo shakespeariano). 

 

Su Kerouac poeta o sulla disperata ricerca di Dio...

mag 112025

 

 

 

DIO
Seduto sui nostri significati
Egomaniaco Dio,
Solitaria macchia d'olio luccico di pioggia
È solito irritarci per di più
Nel Reale.

 


SULLE LACRIME
Lacrime è la mia fronte che si rompe,
Il lunato agitato
sedersi
In bui cimiteri di treni
Quando per vedere il volto di mia madre
Che richiamava dalla sua visione
Piansi alla comprensione
Della trappola mortalità
E del sangue personale della terra
Che mi aspettavano
Padre padre
Perché mi hai abbandonato?
Mortalità & repulsione
Scorrazzano per questa città
Infelicità è il mio secondo nome
Voglio essere salvato,
Affondato-non può essere
Non vuole essere
Mai fu fatta per essere
Così da vomitare!

DA VECCHIO
Quando comincerò a invecchiare
E forse sentirò il braccio sinistro
intorpidirsi
E il cervello resistita speranza,
Siederò addormentato
L'energia soffocata esaurita
nel mio occhio
E l'amore fuggito da me
Quando la peggior notizia
Mi fu portata
Ed esultai di essere solo
Di ormai essere morto
Ho avuto la visione del
santo
Misconosciuto & troppo stanco
per spiegare il perché
E di dolci intenzioni
un altro giorno-
Persino Stanley Gould
andrà in cielo.

LO SO

Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.

 

 

Kerouac è considerato il padre della Beat generation. Il suo libro On the road fu il manifesto per un'intera generazione. L'importante era andare. Non importa dove. La vera meta era il viaggio. Nel suo più celebre libro il viaggio diventava metafora della vita. Ma il troppo arricchimento esperenziale, la troppa estroversione sociale, le troppe carambole di incontri possono causare senso di vuoto oppure saturazione interiore, come scrisse Kavafis. Come scrisse Sant’Agostino la verità abita nell'interiorità. Ecco allora in Kerouac l’introspezione, il ripiegamento interiore. Kafka scriveva che bisognava privilegiare il mondo all'io. Ma Kerouac dopo tanto vitalismo disperato compie una rivoluzione copernicana e ricerca l'Assoluto in sé. Il viaggio diventa quello interiore perché alla fine ogni viaggio è interiore: i luoghi, gli spazi, gli altri in un certo qual modo sono specchi che rimandano la nostra immagine. Così Kerouac cerca di eliminare per quanto possibile ogni rispecchiamento, ogni gioco di specchi, ogni corrispondenza. Le sue poesie le definiva “meditazioni sensoriali”. Nella sua poesia coesistono felicemente alcol, droga, jazz e Buddha. Ci sono le contraddizioni interiori: i pieni e i vuoti della mente, le luci e le ombre dell'animo. Kerouac in una poesia scrive: “Si è alzato e messo in ghingheri / ed è uscito & ha scopato / Poi è morto e l’han sepolto / in una bara nella tomba”. Lo scrittore è stato uomo di mondo, ha viaggiato molto, amato molte donne, fatto molti lavori. Ma poi deve cercare oltre e altrove. La vita è davvero tutta lì? È solo quotidianità alienata? La pura carnalità fine a sé stessa non gli basta. Così smaschera la società occidentale moderna, ovvero il sesso inteso come sintomo del materialismo pervasivo. Kerouac svela l’inganno: progressivamente siamo passati dal cogito ergo sum al coito ergo sum (il soggetto cartesiano è stato spodestato, è rimasta solo la carne e il piacere derivato da essa). In Kerouac c'è il tentativo, anzi la scommessa di una ricerca spirituale autentica, genuina. Lo scrittore cerca di spogliarsi di tutto, di ogni orpello. Abbandona tutta la tradizione letteraria. Cerca di ridurre il proprio ego. Ma ciò non è la riduzione dell’io lirico ma la riduzione dell’io più autentico. Lo scrittore americano con la poesia cerca sé stesso ma anche Dio. Come nella mistica cristiana, a partire dai padri del deserto fino ai giorni nostri, l’autore cerca di annichilire l’io per trovare Dio. Spesso invece è proprio l’eccesso di ego che ostacola la ricerca di Dio. Kerouac vuole liberarsi da ogni desiderio. Come scrisse in un aforisma Morandotti io è l’abbreviazione di Dio. In una poesia scrive: “Pensare è come non pensare. Perciò non devo pensare mai più…”. Perché? Perché naturalmente anche il pensiero può nascondere Dio, può distogliere dalla vera ricerca di Dio. In alcuni artisti la spiritualità è una posa inautentica. Invece in altri, anche se trasgressori della morale comune, la ricerca spirituale è più vera. Non a caso il teologo gesuita Antonio Spadaro ha studiato per anni la dimensione spirituale nelle opere di Tondelli. Kerouac amava i “pazzi di vita”, i disadattati, gli emarginati, anche perché lui era un pazzo di vita. In fondo chi è pazzo di vita si ferma sul lato oscuro della strada, mentre tutti corrono per arrivare per ottenere benessere e successo. In fondo proprio i pazzi di vita possono essere portatori di un altro mondo, possono scorgere meglio di tutti noi l'abisso in cui stiamo per precipitare e talvolta possono intuire anche Dio. Kerouac ha talvolta un rapporto un poco ambivalente e conflittuale con Dio perché molto spesso lo cerca e lo attende invano. Se l'astrofisico Hawking sosteneva che se l'universo “si dà la pena di esistere” forse è perché esiste Dio, Kerouac sembra chiedersi perché se Dio esiste allora non si manifesta oggettivamente a noi. Forse tutta la sua autodistruzione origina proprio da questo rovello metafisico.
Nei componimenti di Kerouac si perdono le coordinate spazio-temporali. Non esiste confine tra io e mondo. Nelle sue liriche ci sono il flusso di coscienza e il fluire inarrestabile del mondo. È per afferrare tutto ciò che Kerouac si serve del ritmo. La sua inoltre non è una posizione solipsistica: il mondo non è frutto della sua coscienza. La sua è invece una posizione realista: lui sa che la realtà può essere conosciuta solo tramite la sua coscienza, ma il mondo naturalmente esisterebbe anche senza di lui.
In attesa che la fisica trovi una teoria unificata e riesca a mettere insieme teoria della relatività e meccanica quantistica gli unici modi di intuire Dio sono la preghiera e la meditazione. Per meditazione non bisogna intendere solo quella nella posizione del loto ma in senso più lato. Kerouac meditava anche osservando per ore dalla sua finestra barboni e prostitute. Inoltre anche la poesia, come quella di Kerouac può essere intesa sia come meditazione che come preghiera in senso lato, naturalmente non la classica e misera preghiera interessata. Alcune sue poesie sono illuminazioni interiori. Sembra che abbia raggiunto il Nirvana. Il meglio di sé in poesia Kerouac lo dà con i chorus di Mexico City Blues.
Poco importa se la sregolatezza dei sensi in Kerouac ha portato a uno stato alterato di coscienza o a uno stato espanso, l'importante è che sia stata un arricchimento esperenziale e interiore, quindi conoscitivo. Kerouac poi pagò in prima persona, ovvero con la cirrosi epatica, la sua sregolatezza. D'altronde bisogna tenere anche presente il contesto e l'epoca in cui è vissuto: allora c'erano psicologi e chimici che pensavano con certezza di trovare Dio nella morfina, nell'Lsd.
Leggendo le poesie di Kerouac viene da chiedersi: il vuoto dei buddhisti è il Nulla? E ancora: il Nulla è la percezione di Dio?
Ricapitolando, Kerouac è ancora oggi una coscienza infelice del nostro tempo perché ha saputo esprimere come pochi il dolore esistenziale scevro dalla depressione psicologica, la crisi del soggetto e l'eclissi della ragione di noi occidentali. Ma allora cosa resta? Kerouac esprime non solo disagio interiore, dubbi esistenziali, ansie metafisiche, ma ci ricorda anche che Joyce e i poeti ciechi hanno avuto amore e che Dio è amore, come scrive nei suoi versi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Su "La coscienza di Zeno" o sull'eterogenesi dei fini...

mag 112025

 

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Molti hanno trattato il tema dell'inettitudine de “La coscienza di Zeno” (il padre stesso considera Zeno un inetto). Ma l'inettitudine di Zeno non è la pigrizia di Belacqua, perché lui non è che non fa, ma fa ciò che non vuole. Si veda il caso del fumo: non riesce mai a smettere, pur essendo andato in una clinica, perché le u.s, le ultime sigarette, hanno un piacere sublime. Molti hanno trattato del tema del conflitto edipico (il padre che non lo ama e non lo stima, tanto da lasciare a un altro l'amministrazione della società di famiglia e tanto da tentare probabilmente di schiaffeggiarlo come suo ultimo gesto al capezzale) ed è vero che il complesso edipico non viene risolto. Ma bisogna porre l'accento sul fatto che Zeno fa centro in un bersaglio non mirato. In Zeno abbiamo una forte contrapposizione tra volontà e fatto, tra desiderio inappagato e aspettative sociali, tra piacere e dovere, tra sogno e realtà, tra intenzione personale e imposizione sociale. Svevo ci insegna che nella vita vale l'eterogenesi dei fini di Wundt: c'è una discrepanza spesso tra intenzione e risultato. C'è uno squilibrio tra input e output nelle nostre vite. Nella vita si cerca qualcuno e qualcosa e spesso troviamo altro. Forse la ricerca è vana. Claudio Magris scriverà che è inutile cercare Dio perché non si trova, ma si viene trovati. Il problema è che il desiderio in gran parte è mimetico come scriveva Girard, ovvero si desidera spesso ciò che desiderano gli altri. Ma resta un residuo di soggettività e discrezionalità anche nel desiderio ed è quello che chiamiamo aspirazione individuale. Maslow mette all'inizio della sua piramide i bisogni primari o fisiologici. Il problema dell'umanità è che i bisogni primari non vengono garantiti a tutti i cittadini di questo mondo. Ma Svevo-Zeno è borghese dalla testa ai piedi e tratta dell'ultimo bisogno di Maslow, ovvero quello dell'autorealizzazione. Si può essere autorealizzati a scrivere il romanzo della vita senza guadagnare piuttosto che a essere ricchi uomini d'affari, se i bisogni primari vengono garantiti, e si può essere ricchi uomini d'affari non autorealizzati e profondamente infelici. Se si può essere rispettati e stimati una volta raggiunti certi traguardi, riconosciuti a livello socioeconomico, è anche vero che si può essere autorealizzati solo se si fa ciò che si ama e se si ama ciò che si fa. Zeno fa centro ma nel bersaglio sbagliato, quello che la società con le sue regole lo ha costretto a mirare: vorrebbe sposare Ada ma gli tocca sposarsi con Augusta, vorrebbe innamorarsi dell'amante ma non riesce a innamorarsene, vorrebbe odiare il cognato ma è obbligato a volergli bene, non vorrebbe aiutare economicamente il cognato ma lo aiuta, vorrebbe andare al funerale dello stesso cognato suicida ma va a un altro funerale, vorrebbe guarire ma non riesce a guarire. La società capitalista già di quegli anni era basata sulla realizzazione socioeconomica. Il problema di Zeno è che la vita non gli va come vorrebbe e che non riesce a conciliarsi con il suo desiderio. Dovrebbe amare chi lo ama, cioè la moglie, accontentarsi di quello che ha e di quello che ha fatto, ma non vi riesce. Dovrebbe cambiare vita, ma è pur sempre un borghese: ancora una volta è prigioniero della sua borghesia, delle sue regole, delle sue imposizioni. Profondamente il problema di Zeno non è però solamente la borghesia con le sue restrizioni sociali e le punizioni a chi trasgredisce le regole, ma l’essere borghese dentro, fin nel midollo. Però Zeno poi si accorge che non è lui a essere malato, ma la borghesia a cui appartiene, la società stessa. Così capisce che poco importa il suo senso di fallimento personale quando altri falliscono socialmente, perché è il sistema a essere sbagliato e con esso le sue regole, i suoi parametri, i suoi giudizi. La coscienza di Zeno è la coscienza infelice della borghesia, della sua epoca, dello spirito dei tempi. La coscienza di Zeno capisce che la borghesia è malata e che la psicoanalisi non è la cura. Pur muovendosi tra inganni e autoinganni, tra dramma e ironia, poi alla fine Zeno ci vede giusto: la sua borghesia finirà e con essa probabilmente il romanzo, la psicoanalisi non sarà più in auge, il suo impero austro-ungarico finirà. Cosa resta alla fine? Le volute di fumo di un'ultima sigaretta, che non sarà mai l'ultima o forse “un'esplosione al centro della Terra”.

Sul conflitto delle interpretazioni di un testo letterario

gen 192025

 

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Le cosiddette scienze esatte possono spiegare e rintracciare le cause di un fenomeno tramite la logica e gli esperimenti. Ma resta il problema se le scienze umane debbano solo interpretare o anche spiegare. Il dibattito è ancora aperto e ci sono due punti di vista a riguardo: l'approccio positivista, sperimentale, basato sul fatto e quello antipositivista. Ma la letteratura non può dare una spiegazione matematica e fattuale: si deve basare solo sull'interpretazione.
A seconda del posizionamento, della visione del mondo, del retroterra culturale, della personalità di base ogni individuo interpreta un testo. Tutti questi elementi interagiscono tra di loro nell'interpretazione di un testo. Gadamer parla di precomprensione: le cose sopracitate sono tutti i fattori dei nostri “pregiudizi” quando leggiamo un testo. Ma un testo è composto da una parte conscia e da una parte inconscia. Anche il lettore recepisce il testo sia consciamente che inconsciamente. Il circolo ermeneutico è dato dall'interazione tra inconscio e conscio dell'autore e tra inconscio e conscio del lettore. Ma a livello fenomenologico il circolo ermeneutico è dato da come l'autore esprime il suo vissuto e da come il lettore con il suo vissuto interpreta l'espressione del vissuto dell'autore: ci sono quindi da un lato l'empatia dell'autore che deve saper scrivere cose in cui i lettori si riconoscono e dall'altro l'empatia del lettore. Leggere e scrivere migliora quindi la comprensione empatica o almeno la fa esercitare in quei frangenti. Un testo è composto dal significante e dal significato. Però il significato risente della soggettività perché esistono la polisemia e la connotazione. Da un punto di vista ontologico per Heidegger il linguaggio è manifestazione, rivelazione dell'essere. Il filosofo scrive che il linguaggio è “la casa dell'essere”. Ma Aristotele scriveva che l'essere si dice in molti modi e aggiungo io che si recepisce in molti modi. Non solo ma Zanzotto scrive: “Hölderlin: siamo segni senza significato”. E qui la faccenda si complica! Secondo gli strutturalisti però il linguaggio è anche manifestazione, talvolta sintomo dell'inconscio. Il problema è che un sintomo può diventare simbolo che può essere vissuto dall'interpretante come un nuovo sintomo. La letteratura, la filosofia, la creatività artistica non devono subire censure. Però questo problema resta. Ci sono libri che rovinano individui e popoli. Nel “Mein Kampf” di Hitler c'era la follia di Hitler, che ha slatentizzato la follia di molti altri individui. Forse questo è un caso unico? E allora ricordatevi quanti suicidi ha provocato “Il giovane Werther” di Goethe! Un autore dovrebbe sentirsi responsabile dei propri scritti e a questo proposito l'autocensura dovrebbe essere molto più auspicabile della censura, anche se è molto difficile sapere come sarà recepito e quali effetti avrà un libro. A proposito di interpretazione di un testo letterario c'è un parametro oggettivo (il canone) e un quid soggettivo. Ogni critica letteraria è un impasto di queste due cose. Per quanto riguarda l'interpretazione letterale, stilistica e allegorica di un'opera esiste in un certo qual modo l'oggettività. Ad esempio la parafrasi di un testo contemporaneo è quella, salvo un piccolo margine di ambiguità. Ma per l'interpretazione morale e quella anagogica (o spirituale) di un'opera la questione è molto più arbitraria e perciò più complessa, anche di un'opera di cui si conosce personalmente l'autore. In letteratura ogni interpretazione è comunque possibile. In un certo senso dal punto di vista del suo senso profondo ogni opera è aperta a qualsiasi interpretazione. Dobbiamo lasciare questa apertura. Il senso di un'opera non è mai definitivo: esiste sempre qualcosa di indeterminato e perciò di ambiguo, contraddittorio, non risolto, come vuole il decostruzionismo. Teoricamente uno vale uno e da qui scaturisce l'assolutismo del relativismo, il nichilismo interpretativo. È quello che accadeva anni fa in certi commenti di literary blog. C'è chi dice a riguardo che un tempo il canone lo stabilivano i letterati, gli accademici, mentre oggi il canone lo fa il pubblico comune, che diventa fan di Gio Evans o di Andrew Faber. Insomma un tempo Pasolini nasceva come poeta grazie al consenso critico di Gianfranco Contini, Daniele Del Giudice diventava scrittore grazie a Calvino e oggi Gio Evans viene considerato poeta perché ha migliaia di follower sui social e perché Elisa Isoardi a una trasmissione televisiva nazionalpopolare molto seguita ha citato i suoi versi quando si è lasciata con Matteo Salvini. Insomma mala tempora currunt! La verità non esiste in letteratura. Per cercare di avvicinarsi all'obiettività si usano due criteri: l'autorevolezza, basata sulla competenza, e la maggioranza nella comunità letteraria. Il poeta e professore Valerio Magrelli in un'intervista rilasciata al sito letterario “Le parole e le cose” il 24 dicembre 2012 dichiarava: “Ma arrivo al punto: il mio problema verso i blog è l’equivoco che alimentano nell’interpellare il lettore. A mio avviso, il lettore – voglio essere molto drastico – non deve avere voce in capitolo, come si diceva un tempo nelle abbazie. Durante il capitolo, l’assemblea, il lettore non ha il diritto parlare perché parlano gli specialisti, i competenti. Come si creano queste competenze? Attraverso un sistema di selezione che un tempo funzionava: laurea, biennio, dottorato, ricercatorato, etc. Quando questo non funziona, ci sono comunque altre forme di formazione: conosco varie persone di valore che non sono nell’accademia. Ecco, io proporrei il sistema delle ore di lettura, come i piloti d’aereo. Quando si può pilotare un jumbo? Quando, per ricorrere a un’iperbole, si sono fatte 8000 ore di volo. Quando puoi scrivere il tuo parere su un libro? Quando hai letto 8000 libri di teoria, di narrativa, di poesia; altrimenti non puoi parlare. Io non voglio sapere i pareri dei lettori, non mi interessano: deve essere vietato al lettore di parlare…”. Per quanto riguarda l'autorevolezza è chiaro che il giudizio critico di Andrea Cortellessa riguardo a un poeta contemporaneo è più importante del mio. Il parere del miglior critico letterario vale quindi di più di quello del lettore comune. Però sorge un problema: anche i critici letterari più colti e acuti possono “sbagliare”. Inoltre un lettore comune può dare un'interpretazione molto originale di un libro e può dimostrare un senso critico e un senso estetico fuori dal comune. A mio avviso anche il senso critico è una forma di intelligenza e ci sono differenze individuali a riguardo. E quindi si dovrebbe valutare le argomentazioni e le controargomentazioni dei vari giudizi critici della comunità letteraria riguardo a un autore o a un libro. A questo punto è importante la maggioranza dei pareri della comunità. Se ad esempio il Tommaseo interpreta in un modo dei versi di Dante e gli altri dantisti si trovano d'accordo nel dare un'interpretazione completamente diversa, è chiaro che Tommaseo è in errore e la maggioranza ha ragione. Ma ne siamo così sicuri? Chi può dire veramente chi ha ragione? Non solo ma chi fa parte della comunità letteraria? Gli accademici, i critici letterari, gli autori di grandi case editrici? Oppure anche gli appassionati? Chi è in in e chi è out? Da una parte c'è l'oligarchia degli addetti ai lavori, mentre dall'altra c'è la democraticità dei lettori comuni. Inoltre anche la cosiddetta formazione letteraria è fatta soprattutto di conoscenze di secondo grado: durante un corso di laurea in lettere non fanno leggere tutto Montaigne, ma fanno studiare nozioni e interpretazioni riguardo allo scrittore e filosofo francese. Cos'è in fondo la formazione umanistica se non una sommatoria, quando va bene un corpo organico di interpretazioni? Che differenza c'è allora tra un letterato e un lettore comune? Che talvolta il lettore comune dà ignorantemente il suo parere, basato esclusivamente sulla sua soggettività e il suo gusto personale, e il letterato ha una visione molto più ampia, ma il suo giudizio può rivelarsi un'interpretazione conformistica delle precedenti interpretazioni di studiosi e critici. Certamente è assodato che se i critici fanno il canone, le opere letterarie considerate pregevoli hanno qualità e complessità elevata. Se il canone lo fanno i social, la qualità, la complessità, la bellezza di un'opera si riducono notevolmente. In questi ultimi decenni si è registrato uno scadimento generale dei libri più venduti. Un tempo c'erano i bestseller di Calvino, Bassani, Cassola, etc etc. E oggi? Moccia, Fabio Volo, Bisotti, etc etc…però Arbasino ricordava a tutti che un bestseller non è il migliore dei libri perché è tra i più venduti, come il McDonald's non è il migliore dei ristoranti al mondo. A ogni modo il bello della letteratura è che ognuno in un testo ci vede cosa vuole e che lo stesso testo riletto più volte a distanza di tempo acquisisce un nuovo significato perché la ricezione di un testo è anche dovuta a uno stato d'animo, a quel momento, a quello stato mentale. Il genio o il talento artistico hanno a ogni modo una grande valenza sociale. Il talento deve essere riconosciuto. Tante soggettività dei critici creano un’unanimità di giudizio e quindi la cosiddetta fortuna o sfortuna critica di un autore. Tante soggettività compongono in letteratura l'oggettività. Ma anche i giudizi critici successivi si basano su quelli precedenti e li condizionano fortemente. La maggioranza e l'autorevolezza possono essere viziate da idiosincrasie, faziosità ideologica, simpatia, etc etc. Basta citare a riguardo il caso Silone.

Sul neorealismo...

dic 212024

 

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D'Annunzio con il suo superomismo, la sua vita inimitabile aveva causato danni. La cultura italiana non aveva bisogno di Capponcina, Vittoriale, lusso sfrenato, Fiume. I futuristi avevano aderito al fascismo e avevano proposto la guerra come sola igiene del mondo, seppur pagando di persona, con la vita o con i rimorsi. I crepuscolari erano di fatto borghesi o piccoloborghesi, non erano andati oltre le buone cose di pessimo gusto, seppur avendo coscienza del loro tempo, come notarono i critici. La poesia dell'ermetismo non era alla portata di tutti con le sue analogie complesse. Le filosofie irrazionaliste, il romanticismo, il classicismo, il decadentismo, l'idealismo di Croce e Gentile e soprattutto il fascismo con i suoi orrori non potevano che trovare come unica alternativa il neorealismo: era una scelta obbligata, fatte queste premesse, tenuta presente la situazione storica e il contesto culturale. Fu così che cinema, pittura, letteratura diventarono neorealisti, rivalutando Gramsci, riprendendo il realismo di Tolstoj, Balzac, Zola. La letteratura del ventennio si era distaccata troppo dalla realtà e il neorealismo con la sua denuncia sociale non poteva che essere la legittima reazione. L'intenzione, già di per sé nobile e meritevole, era quella di fare un’epopea del popolo, soprattutto degli sfruttati, dei poveri. Non più quindi gli Andrea Sperelli, ma entrarono in scena le persone umili in carne e ossa, come nel Metello di Pratolini. Il neorealismo per tesi e per prassi fu l'antidoto efficace del romanzo borghese. Certamente nonostante le nobili intenzioni, come osservava Carlo Muscetta, il neorealismo non ebbe un grande laboratorio critico, mancò il dibattito teorico. C'è chi criticò il neorealismo per il suo populismo. Chi come Walter Pedullà notò la dimensione mitica e memoriale di alcuni autori (il mito delle Langhe in Pavese, il mito dell'infanzia magica in Alvaro, il carattere a tratti privato di Conversazione di Vittorini ad esempio). Ma tutto ciò è umano: un'aura mitica che circonda le cose è presente in ogni essere umano, che mitizza ora una cosa, ora un'altra. Non c'è letteratura in fondo senza capacità simbolica, senza simboli e miti. Altra critica che si potrebbe fare al neorealismo è quella di non essere stato veramente realista perché la mimesi del parlato non corrispondeva effettivamente al reale o perché per censura, autocensura, buon gusto certi particolari reali del popolo venivano omessi: detto in parole povere le mondine piemontesi lottavano anche con le bisce nelle risaie e questo in Riso amaro non c'era. Ma il neorealismo innegabilmente restituì alla letteratura sia “il fastidio di essere vivi” (espressione di Alvaro) che il materialismo marxista, ovvero all'atto pratico la descrizione e lo studio della classe sociale più povera. Poi anche il neorealismo fece il suo tempo, dopo aver caratterizzato un'epoca. Calvino nel suo saggio “Il mare dell'oggettivitá” scrisse che dalla letteratura dell'oggettività bisognava passare alla letteratura della coscienza. Ma la coscienza con il suo flusso cosa poteva rappresentare? La crisi delle scienze descritta da Husserl, la crisi dell'umanesimo, la morte di Dio di Nietzsche, la morte dell'uomo per lo strutturalismo, l'oblio dell'essere di Heidegger, l'essere identificato con il Nulla come Sartre, insomma il tramonto dell'Occidente. Aldo Busi in un suo romanzo scriveva che nella narrativa ci voleva meno New Age e più neorealismo. Insomma bisognerebbe ritornare ad esempio a Lorenzo Viani, con la sua vena folle, con le sue metanoie, vere o presunte, con il suo neorealismo a tinte espressioniste, con la sua cultura autodidatta ed enciclopedica, con la sua “gentugliora” e i suoi “vàgeri”, con la sua dissacrazione della Parigi da cartolina. Le cose sono due, mutuamente esclusive: prendere la strada della letteratura come menzogna del grande Manganelli e quindi alla dissimulazione di Accetto (“si simula quel che non è, si dissimula quel che è”) e perciò aderire all'immaginazione oppure aderire quanto più possibile alla realtà, sperando che essa contenga, includa, ingloba maggior contenuto di verità, anche se ogni analisi del reale è data dall'osservazione ma anche dell'interpretazione, che può essere relativa e molto soggettiva. 

 

È online, scaricabile gratuitamente, il romanzo breve "Una verità qualunque" di Davide Morelli

nov 242024

 

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Questo romanzo breve di sole 326 pagine di Davide Morelli è stato meditato a lungo, ma è stato scritto solo in un mese e mezzo. Quest’opera è un impasto di realtà e fantasia (alcune cose sono inventate di sana pianta). Il protagonista è un disoccupato cinquantaduenne, che vive nella sua comfort zone. Ma come dichiarava Paolo Crepet la comfort zone può rovinare molte vite. Davide, il protagonista, un anarchico anticomunista e antifascista ma apartitico, per vari motivi non può partire, emigrare, lasciare sua sorella, che non vuole trasferirsi in alcun modo. È un’opera su chi resta, nonostante tutto. Davide, il protagonista, è un inetto del 2024, suo malgrado. Continua a vivere a Pontedera, nonostante la mancanza di vita sociale, nonostante quella che lui definisce la banda del keu, nonostante alcuni lo odino perché le azioni della banca, di cui suo padre è stato consigliere, si siano svalutate, e nonostante le voci di paese. Il protagonista vive di ricordi (la vita universitaria padovana, il servizio civile a Este, le scorribande nella bassa padana). È un romanzo breve dove sono condensate la noia del vivere in provincia, l’alienazione, la solitudine, la mancanza di amore e di lavoro. È un romanzo breve sulla vita, sulla maturità, sulla morte. Ci sono salti di tempo. Dei 44 capitoli alcuni sono stati scritti usando l’imperfetto e il passato remoto, 1 capitolo è stato scritto usando il passato prossimo, pochi altri capitoli sono stati scritti al presente perché passato, e presente si mischiano continuamente nella vita. Il futuro non c’è perché il protagonista è no future. Vengono riportate anche alcune pagine del diario del protagonista e la narrazione così è in prima persona in quei capitoli. Anche se ci sono cose inventate, il protagonista è di fatto l’alter ego dell’autore. Quest’opera è stata scritta, partendo dal fatto che l’io è una pura convenzione grammaticale, come scriveva Nietzsche. Il romanzo breve è ambientato nel 2024, ma è come se fosse un’epoca ormai lontana. Tutto questo perché la narrazione per quanto lineare dal punto di vista stilistico comprende lo gnommero gaddiano, la matassa che non si sbroglia di Montale, il fatto che tutto sia inutile, come scriveva Guido Morselli nel suo diario. Il narratore stesso talvolta si contraddice (Pontedera è amata e allo stesso tempo odiata, il protagonista viene talvolta descritto come uomo risolto e talvolta assolutamente no) perché la realtà è sempre sfaccettata e contraddittoria. Alcune cose vengono ripetute e talvolta cambiate perché per Davide Morelli oggi tutto è riscrittura. L’autore senza tanti fronzoli e infiorettature ha cercato di creare un piccolo congegno narrativo, che esprimesse tutte le sue contraddizioni e le contraddizioni del suo tempo, tutto il suo disagio esistenziale e la sua condizione. Scriveva Simenon che la verità umana (non quella divina) fosse qualunque, mischiata in mezzo a tante altre. Forse c’è un poco di verità anche nella vita qualunque, in parte reale e in parte immaginata, di un uomo qualunque in una cittadina qualunque. Sullo sfondo Pontedera, il quartiere Sozzifanti e alcuni suoi luoghi. È scaricabile gratuitamente.

N.B: quest’opera è stata scritta con un tablet economico, è costituita da poco più di 67000 parole, per cui c’è qualche refuso, ma l’autore non vuole ritoccarla più, ha deciso di licenziarla definitivamente.

Così scrive Karla Lorena Castillo Rodriguez, esperta legale e studiosa: “Il romanzo “Una verità qualunque” di Davide Morelli è un’opera scorrevole e coinvolgente che, con grande semplicità, racconta la storia di un ragazzo di provincia, profondamente riflessivo e intelligente. Il protagonista è caratterizzato da tratti che, se da un lato lo rendono speciale, dall’altro non sono sempre apprezzati dai grandi gruppi sociali, trovando accoglienza in un cerchio ristretto di relazioni. Proprio attraverso una certa solitudine è portato a conoscere sé stesso e accettare la propria autenticità. Il testo non si limita a raccontare la vita del protagonista, ma è arricchito con riflessioni filosofiche, psicologiche e sociologiche che offrono spunti interessanti per il lettore. La vita, nel suo fluire, è rappresentata come un viaggio che inevitabilmente conduce alla sua naturale conclusione: la morte.”

 

 

 

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Annotazione su un racconto di Maupassant...

nov 242024

 

 

 

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Nella letteratura italiana contemporanea ci sono i narratori, come Pavese, e i descrittori come Calvino. Ma Pavese non ha influito molto sugli scrittori contemporanei. Lo si cita a sproposito spesso per il suo gesto estremo, per qualche pagina del suo diario. I narratori veri non hanno lasciato eredi.

Mi sembra invece che abbiano influito molto Calvino e quella che lui stesso chiamava l'ossessione descrittiva. Mi sembra che in questo senso molti siano epigoni di Calvino. Un altro scrittore che ha influenzato molto gli scrittori (sto parlando di quelli bravi) di oggi è Gadda, con la sua prosa barocca. Anche Umberto Eco ha influenzato molto gli scrittori di oggi. Ma gli italiani sono un popolo di descrittori. Chi vuole scrivere un romanzo deve cercare di dimostrare le sue abilità verbali, descrivendo minuziosamente e noiosamente ambienti, luoghi, personaggi. Ma siamo sicuri che questa ricerca della descrizione della molteplicità fenomenica sia giusta? Se scrivere è ricercare quello che Mario Luzi definiva lo zenit della significazione, perché cercare di rappresentare solo ed esclusivamente cose e paesaggi e non esclusivamente l'accadere, il cuore umano, la vita, la morte? Rimbaud in “Una stagione all'inferno” scriveva: “Scrivevo silenzi, notti, annotavo l'inesprimibile. Fissavo vertigini". Ci siamo formati con “I promessi sposi”, ma il romanzo di Manzoni sarebbe poca cosa se fosse solo la descrizione di quel ramo del lago di Como delle prime pagine. Manzoni è genio immenso perché tratta da par suo la redenzione etica e religiosa di Renzo nella notte sull'Adda, la conversione dell'Innominato, il fatto stesso che l'idillio totale non esista come nelle ultime pagine. Manzoni affronta i temi esistenziali e metafisici, indaga nell'animo umano. Mi sembra invece che molti scrittori si siano fermati a quel ramo del lago di Como. Oggi hanno più senso certe descrizioni molto particolareggiate? Bastano una foto o un video con il telefonino per rappresentare cose e fattezze umane. Il significante degli scrittori è ben poca cosa rispetto alle nuove tecnologie. Di più: oggi se uno vuole scrivere un romanzo ambientato a Milano, può documentarsi facilmente su luoghi e ambienti e poi descriverli. Forse hanno senso solo romanzi ambientati in quartieri, che non si possono trovare su Wikipedia (io ad esempio sto alla Sozzifanti di Pontedera e non si trova niente nel web della zona in cui vivo). Oggi le descrizioni molto spesso non sono questione di bravura, talento, ma solo di documentazione e di diverse stesure. Cari scrittori, inseguite invece il fluire inarrestabile della vita. Siate più narratori, magari con uno stile più lineare e meno letterario. Calvino, Gadda, Eco non erano mai noiosi perché erano dei geni, ma diversi libri di scrittori contemporanei lo sono. Imparate piuttosto a narrare in modo scorrevole come Pavese, Bukowski, Carver, Maupassant, Capote, Tondelli, Cassola. In questi giorni leggevo un racconto breve di Maupassant, intitolato “La solitudine”. Ebbene in poche e semplici pagine quanta verità! Due amici discorrevano dell'impenetrabilità del pensiero altrui, del fatto che non sappiamo mai veramente cosa pensino gli altri, che vivere con gli altri è un immenso atto di fiducia reciproca (gli altri devono sperare che noi diciamo loro la verità e viceversa): la società intera è basata sulla fiducia e su un patto di verità. E Maupassant però citava il suo maestro Flaubert, che scriveva: “Nessuno capisce nessuno”. Poi un personaggio in questo breve racconto diceva che la vita intera è una disperata ricerca di rompere la solitudine. Quante verità in queste pagine scritte in modo lineare, ma che si caratterizzavano per una profondità d'animo e di pensiero davvero notevoli, rarissime. Non credo proprio che quel racconto di Maupassant si potesse scrivere oggi documentandosi su Google oppure chiedendo all'intelligenza artificiale perché c'era racchiuso un possibile significato dell'esistenza.

Sui giovani che vogliono cambiare il mondo...

set 202024

 

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Guardavo in questi giorni su Youtube vecchi filmati sui giovani sessantottini e sui giovani contestatori del'77. Ascoltavo i commenti dei giornalisti Rai. Ascoltavo le interviste. Ascoltavo le loro critiche alla società dei consumi, al capitalismo, alla politica di allora. Ma cos'è rimasto a distanza di decenni di quei sogni, di quella voglia di cambiare il mondo? Ben poco, forse niente. Mi chiedevo che fine avessero fatto quei giovani e quale fosse stato il loro destino. Oh certo quei filmati d'epoca sono Storia ormai…nient'altro che un semplice “come eravamo”. Ma i loro contenuti? Le loro utopie? Sono rimaste lettera morta. Nient'altro che questo. Mi ricordo ancora nel 1993 quando anche io contestavo il sistema, protestavo contro l'aumento delle tasse universitarie. Ricordo la facoltà occupata. Ricordo le amicizie, gli amori tra quelle aule, in quelle piazze. E ora? Cos'è rimasto a distanza di trent'anni? Ognuno ha preso la sua strada. Ci siamo tutti persi di vista. E quei sogni? Quella voglia di cambiare? Sono rimasti solo ricordi sbiaditi e forse qualche foto d'archivio dei quotidiani di allora. La verità è che sono un uomo attempato e solo. Che impatto pratico e tangibile hanno avuto quei giovani nella società di oggi? Oggi contano i numeri, le immagini, i soldi, i fatti. Oggi nella televisione generalista ci sono talk show feroci e falsi, varietà futili, trasmissioni basate sul gossip e sulla cronaca nera. Questi signori ci dicono oggi cos'è il bene e cos'è il male, ci indicano la via, ci dicono cosa e come pensare. E su Internet la musica non cambia, il canovaccio è lo stesso: ci sono opinion leader e influencer che assolvono la stessa identica funzione di guida. Questi sono i miti odierni. Questi sono i modelli. Non pensate quindi con la vostra testa: rischiereste incomprensioni, difficoltà, solitudine. Seguite il gregge. Non c'è posto per coloro che vogliono combattere contro le ingiustizie! Aveva ragione Debord: viviamo nella società dello spettacolo. Oggi ciò che non viene spettacolarizzato non esiste. Per esistere un gruppo di persone più che essere rappresentativo deve essere rappresentato mediaticamente. Se qualcuno lotta contro il sistema, i mass media non lo rappresentano o lo rappresentano solo in chiave negativa. Non se ne esce da questo vicolo cieco. Guardate ad esempio i giovani di Ultima Generazione. Parlano di loro solo quando commettono azioni vandaliche. Quello è l'unico modo che hanno per far parlare di loro. Non c'è soluzione. La civiltà dell'inibetimento massmediatico è al suo vertice, parafrasando Quasimodo. Tutto ciò che è contro il sistema non viene rappresentato e perciò è invisibile oppure viene ridicolizzato, storpiato, ne viene fatta una parodia. E quei giovani contestatori di quei filmati d'epoca? Saranno vecchi o morti. Saranno finiti disadattati o imborghesiti. Ormai ci sono sulla scena i loro figli e nipoti, che neanche ascolteranno le loro storie. Su via non è tempo di belle idee e di anime belle! I giovani diventano maturi, si integrano nella società, fanno figli, lavorano. Le generazioni si disperdono così in mille e più rivoli. Altri giovani si mettono in testa di cambiare il mondo e rarissimamente lo cambiano. È storia vecchia quanto il mondo, quanto gli uomini! 

 

È online e leggibile gratuitamente il mio ebook "SU FONDAMENTA INSTABILI"

ago 092024

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È online e leggibile gratuitamente il mio ebook di versi liberi,  aforismi,  racconti brevissimi,  riflessioni sulla vita, sulla poesia,  sul mondo. Molto probabilmente scrivo meglio recensioni, articoli e saggi brevi. Però ci tengo molto a questo ebook,  in cui ci sono cose e problematiche che mi toccano da vicino. Se volete potete leggerlo senza alcun bisogno di iscrizione qui:

 

IL MIO EBOOK GRATUITO "SU FONDAMENTA INSTABILI"

Su "Sottobosco letterario" di Domenico Nodari, ricordando Vittorio Sereni

lug 252024

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Leggevo in questi giorni “Sottobosco letterario” di Nodari, un libro del lontano 1978. È una raccolta di lettere di aspiranti scrittori e poeti alle case editrici. Allora il fenomeno dell’editoria a pagamento esisteva, ma non era così diffuso ed esteso come oggi. Quindi molti di questi aspiranti artisti erano colmi di frustrazione, di rabbia, che si tramutava spesso in megalomania. Probabilmente la megalomania in gran parte derivava anche da un narcisismo smodato, fondato su un’ignoranza di fondo. C’è da dire che oggi il livello di scolarizzazione si è alzato e probabilmente ora ci sono più aspiranti, ma anche il livello di letterarietà si è elevato. Forse oggi c’è più decenza e nessuno oggi forse propone storie universali della stupidità e trattati sulla masturbazione (ma ci sono anche, ad onore del vero, saggi ben scritti sul rapporto tra masturbazione e anarchismo individuale). Questo libro fu oggetto di critiche per l’operazione non proprio corretta: alcuni sostenevano che venivano messe alla berlina le aspirazioni, talvolta legittime, di persone in buona fede. Molte di queste lettere fanno ridere perché rivelano il lato folle di molti aspiranti dell’epoca tra smanie di grandezza, ricatti, lusinghe, arrufianamenti, etc etc. Più che letteratura è uno spaccato sociologico e psicologico su chi voleva fare letteratura in Italia negli anni ‘70: circoscriviamo e delimitiamo bene il campo di indagine. Però non sappiamo veramente il valore letterario di queste opere, quindi ci manca un tassello importante per giudicare o meno se erano scriventi da strapazzo o meno. In quegli anni l’unico modo per essere riconosciuti era la pubblicazione di un libro. Non c’era Internet. O si pubblicava o si rimaneva dei carneadi a vita. I destinatari appartenevano a ogni fascia di età, a ogni classe sociale. C’erano autori colti e naif. Adesso libri come questo non se ne pubblicano più. Adesso chi vuole pubblicare scrive mail con allegati curriculum e opera inedita. Un tempo costava molta fatica e denaro inviare un manoscritto a trenta case editrici. Oggi la stessa identica cosa si fa in tre quarti d’ora. Alda Merini diceva che il sottobosco letterario è terribile. Sicuramente aveva le sue ragioni per affermarlo. Ma oggi dove inizia e dove finisce il sottobosco? E perché si scrivono ad esempio ancora poesie e romanzi? Flaubert stesso ne “Le memorie di un pazzo” si chiedeva cosa lo tratteneva a scrivere nella sua stanza invece di godersi il mondo, la vita. Brecht scriveva che lo tratteneva alla scrivania l’orrore per l’imbianchino (perché Hitler da giovane era stato un aspirante pittore). In fondo sia i grandi geni che gli aspiranti sacrificano una buona parte della loro vita e di sé stessi per l’arte, vera o presunta. Ne vale davvero la pena? Peirce spiegava così quel che definiva abduzione (che non va confusa con un particolare tipo di sillogismo): 1) si scopre un fenomeno speciale A, insolito 2) si pensa che l’ipotesi B possa spiegare quel fenomeno 3) si ritiene a rigor di logica che l’ipotesi B sia vera. Ebbene, facendo un’abduzione, l’unico modo per spiegare che si scrive ancora è ritenere la scrittura in gran parte terapeutica, pur vivendo in un’epoca povera per l’arte. Non solo ma esistono scuole di psicoterapia come la psicosintesi che si fondano sulla scrittura. È vero: la scrittura può comunque portare insoddisfazione e disagio e come ogni scelta di vita ci sono pro e contro. Vittorio Sereni ne “Gli strumenti umani” scriveva:

 

“I versi”

Se ne scrivono ancora.

Si pensa ad essi mentendo

ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri

l’ultima sera dell’anno.

Se ne scrivono solo in negativo

dentro un nero di anni

come pagando un fastidioso debito

che era vecchio di anni.

No, non era più felice l’esercizio.

Ridono alcuni: tu scrivevi per l’arte.

Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro.

Si fanno versi per scrollare un peso

e passare al seguente. Ma c’è sempre

qualche peso di troppo, non c’è mai

alcun verso che basti

se domani tu stesso te ne scordi.

Pasolini ci avrebbe odiato tutti!

giu 092024

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Voi leggete, studiate, citate, amate Pasolini, ma non considerate un piccolo particolare fondamentale alla comprensione delle opere del poeta friulano. Pasolini ci avrebbe odiato tutti. L’aveva previsto che la televisione ci avrebbe reso tutti piccoloborghesi. Quindi se Pasolini fosse vivo, ci odierebbe in quanto piccoloborghesi, in quanto non comunisti o in quanto non autenticamente comunisti, visto che lui aveva fatto del comunismo una religione, la religione del suo tempo. E voi donne non pensate di salvarvi. Pasolini vi avrebbe visto come delle predatrici temibilissime dei suoi ragazzi di vita! Pasolini stesso odiava Pasolini in quanto di estrazione piccoloborghese. Pasolini mi avrebbe odiato, come un’insegnante d’italiano, che una volta ebbe a dire di me, guardandomi con disprezzo: “quel piccolo borghese arricchito” (per la cronaca ora non sono neanche più arricchito e ho appena i soldi per tirare a campare!)

 

 

Quando leggete Bukowski e amate i suoi racconti, i suoi versi ricordatevi che anche lui vi avrebbe odiato e ci avrebbe odiato. Ci avrebbe odiato e avrebbe odiato le nostre vite tranquille, le nostre comfort zone. Ci avrebbe odiato perché la stragrande maggioranza delle persone che si dedicano alla poesia, alla letteratura hanno lo stomaco pieno, il riscaldamento, il ventilatore o il condizionatore. Tutte cose che Bukowski ebbe solo alla fine della vita. Bisognerebbe chiedersi: cosa ne avrebbero detto e scritto Pasolini e Bukowski di me medesimo? E ancora: io cosa posso dire o scrivere di nuovo su di loro, che non è ancora stato detto o scritto? Ma la realtà è che Pasolini e Bukowski ci avrebbero odiato. E che dire del grande poeta meno noto Luigi Di Ruscio? Personalmente, se lo avessi incontrato, forse mi avrebbe picchiato. E che avrebbe fatto il grande scrittore Mastronardi? Probabilmente mi avrebbe preso a male parole e mi avrebbe dato del terrone, come fece con un ferroviere e per questo venne condannato penalmente. E Carlo Levi? Per lui saremmo stati dei Luigini, che hanno avuto la possibilità di andare all’università. E Don Milani? Per lui saremmo stati dei potenziali corruttori intellettuali dei suoi ragazzi di Barbiana! E il cantautore e poeta Piero Ciampi? Ci avrebbe preso a pugni ubriaco in qualche viuzza poco illuminata di Livorno. E Montale? Probabilmente mi avrebbe considerato un “baccalare di nulla” e mi avrebbe detto di “stracciare i fogli”, come scriveva nella poesia “La caduta dei valori”. E Umberto Eco, di cui abbiamo letto romanzi e saggi? Ci avrebbe davvero apprezzato, lui grande genio? Sono molto pessimista a riguardo. Ad esempio del grande scrittore Tondelli, Eco ebbe a scrivere: “Quel 29 che non sarà mai 30” (riferendosi al voto che gli aveva dato all’esame al Dams di Bologna). Chissà quindi cosa avrebbe detto e scritto di noi?!? Tutti questi grandi sarebbero stati contro di noi, ma noi non possiamo permetterci di essere contro di loro. Per la cronaca io non posso neanche permettermi di essere contro quell’insegnante d’italiano, ormai anziana, che, a onor del vero mi ha insegnato qualcosa. La realtà è che dobbiamo amare questi grandi intellettuali, nonostante le loro idiosincrasie, il loro odio nei confronti di ciò che noi stessi rappresentiamo. Tutti loro ci avrebbero odiato perché noi abbiamo una vita incredibilmente più comoda, più facile della loro e infinitamente meno talento di loro. Noi non dobbiamo però fare come Salieri che odiava il genio di Mozart. Oscar Wilde scriveva che il successo causa invidia o ammirazione. La stessa identica cosa vale per il genio quando siamo capaci di riconoscerlo. Non ci resta che mettere da parte l’invidia e lasciare il posto all’ammirazione. Di artisti grandi e veri ne nascono davvero pochi nell’arco di ogni generazione. A volte ne nasce uno ogni secolo. La stima non deve essere per forza reciproca. Le persone decenti stimano anche chi non le stima o chi probabilmente non le avrebbe mai stimate. Bisogna anche saper accettare di essere delle comparse. Se siamo onesti intellettualmente e nel cuore, dovremmo lasciare da parte l’ideologia. l’antipatia, l’invidia e riconoscere l’originalità, la grandezza di questi grandi autori. E se proprio non ci riuscite, ritrovatevi in questi versi di Pasolini:

 

“Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere”

Per un possibile senso delle cose...

apr 222024

 

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Ho dei momenti non dico di obnubilamento totale, ma di lieve rassegnazione, di sconforto leggero, pervaso dal nichilismo. Cammino per le strade, guardo la gente e penso. Mi dico che ognuno porta a giro sé stesso, che ognuno gira a vuoto, che ognuno parla a vuoto ma mai del suo vuoto, che ognuno è preda della noia, che ognuno non è alla fine sicuro di niente, anche se si convince di avere certezze. Come si dice in Toscana, l'unica certezza è la morte, se  si escludono le verità della scienza e le ovvietà. Ma a livello esistenziale e metafisico non c'è nulla di certo… parlo di certezze assolute. E le persone fanno gruppo per passare il tempo, ammazzare la noia e talvolta si amano, talvolta si detestano. Annotava Pavese nel suo diario che le persone si incontrano, fanno l'amore, si amano e che anche lui avrebbe voluto fare come loro. Forse l'unica via di uscita, l'unica ancora di salvezza è proprio l'amore, anche una parvenza o l'illusione dell'amore. Leggevo qualche giorno fa che degli studenti avevano chiesto a un grande antropologo qual era il primo segno di civiltà della specie umana. Tutti pensavano all'opponibilità del pollice, alla stele, alla ruota, alla scoperta del fuoco, allo sviluppo della corteccia frontale, al culto dei morti, alla fabbricazione dei primi utensili. No. Lui rispose che il primo segno di civiltà era un femore rotto e poi guarito. Quindi essere curati e curarsi delle persone: questa è l'essenza della civiltà umana. E però io non amo, né sono amato da una donna. La mia vita sociale è prossima allo zero. E io sono out, fuori dal giro. Sono solo, ma mi perdo qualcosa o qualcuna veramente? Sarà questo il senso di sfinimento di cui parla Franco Arminio? Eppure lui ha successo, case, moglie, figli, fan. Oppure è solo una posa la sua? Mi dico che qui e ora l'importante è fare soldi, apparire, scopare: il soggetto cartesiano è stato spodestato e ora dal cogito ergo sum siamo passati al coito ergo sum. E io, sia ben inteso, non faccio soldi, non appaio, non scopo. Non ho nemmeno un ruolo definito. Vogliamo tutti possedere, consideriamo tutto e tutti come merce, guardiamo alla praticità e all'utilità di ogni cosa, di ogni persona e finiamo per essere impossessati dal vuoto, dalla noia, dal non senso. Come ben nota Andrea Inglese su Nazione Indiana per Freud pulsione di morte e coazione a ripetere sono strettamente connessi. Tutti fanno, sono sempre in azione, senza capire che questa società è intrisa dal cupio dissolvi. C'era il mio professore di storia della filosofia, Accame, che scriveva in un suo libro, già negli anni ‘90, che tutti avevano sempre da fare, che anche chi non aveva niente da fare sembrava indaffarato. Non è forse questo il modo migliore per riempire il vuoto esistenziale e non pensare? Mi chiedo io: ma dove correte? Per arrivare dove? Dove correte, se vi aspetta la morte? Eppure l'etologo e scrittore Giorgio Celli, che aveva fatto anche parte del gruppo '63, ci aveva già avvertito: "Il cervello ha tradito la specie umana". L'ingegno e la scienza sono al servizio di governi che fanno guerre sanguinarie. Al progresso scientifico non è seguito lo sviluppo storico ed etico. Gli scienziati hanno recentemente stabilito che non siamo nell'Antropocene, ma siamo ancora nell'Olocene. Ma, al di là di ciò, in questa prossima, possibile apocalisse non c'è forse la mano dell'uomo, non ha forse una causa antropica questo disastro? Lo so. Questo è un ottimo sito letterario e io dovrei trattare seriamente di letteratura e poesia. Ho sempre cercato di farlo. Però questa volta voglio essere sincero e parlare di me, anche se talvolta parlando d'altro si finisce per parlare di sé stessi e viceversa, in una incomprensibile eterogenesi dei fini. A volte mi chiedo: i libri che leggo mi servono davvero per vivere meglio? I libri che ho letto e che leggo mi riguardano veramente oppure sono solo un accumulo di nozioni, utili soltanto a fare i cruciverba della Settimana enigmistica, che poi non compro neanche più? Leopardi scriveva che la poesia vera accresce la vitalità. Ma davvero le poesie lette e quelle che ho scritto hanno accresciuto la mia vitalità?  Sartre scriveva che ogni uomo è sempre circondato da sé stesso. È questo il problema? Oppure ognuno vive con i suoi sofismi, i suoi piccoli rancori quotidiani, “scordando che tutti avremo due metri di terreno”, come cantava tempo fa Guccini? Mi dico che la miglior cosa è vivere in superficie, abolire la profondità, lo spirito, il pensiero. Ma questo basta? L'importante è avere una scopamica. Questo è l'obbligo sociale per un uomo rispettabile, per un maschio che si rispetti. A volte mi chiedo cosa sono disposto a fare per rompere la mia solitudine e non trovo una risposta. Mi chiedo che senso ha leggere e scrivere. Mi chiedo che senso abbia tutto questo e se sono io che non so dare un senso. Ma forse sono solo i problemi pseudoesistenziali di un cinquantenne che ha tempo da perdere. Intendiamoci: non sono questi i drammi. La cosa migliore però è non pensare. Alcuni mi potrebbero rispondere: “ma cosa vuoi? La vita è questa. È sempre fatta dalle solite cose. Quando si arriva a una certa età si mette famiglia oppure si sopporta la solitudine”. Oppure mi potrebbero dire: “pensa a chi muore sul lavoro e alle tragedie dei familiari “. E avrebbero ragione. Ogni giorno ha il suo segreto e naturalmente mi sfugge. Ma forse il senso delle cose è più vicino e tangibile di quel che penso. 

 

Comunità poetica e dinamiche psicologiche in parole povere...

mar 262024

 

 

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Conoscendo almeno virtualmente la comunità poetica da anni, mi viene naturale talvolta analizzare le dinamiche psicologiche di essa, spesso soggiacenti. La prima cosa che mi salta subito all'occhio non è il cosiddetto amichettismo (termine coniato dallo scrittore Fulvio Abbate), ma la ricerca spasmodica ossessiva di consenso critico e legittimazione culturale. L'amichettismo, se esiste, è strumentale, è finalizzato a ottenere la gloria. Che vengano ottenuti o meno dei risultati, i poeti (veri, aspiranti, sedicenti) ricercano un maestro e/o dei sodalizi artistici. Intendiamoci bene: c'è chi si atteggia a maestro senza esserlo e c'è chi si finge sodale senza esserlo! Tutto ciò ha sempre dei secondi fini, sono frequentazioni “interessate”: un do ut des, perché nessuno fa niente per niente. Poi per dirla alla Montale “ognuno riconosce i suoi”: questo l'hanno già detto e scritto tanti a riguardo. C'è chi parla di cricche, chi addirittura di clan, di gruppi di potere. A volte penso che per comprendere adeguatamente i poeti e la comunità poetica sia necessario ricorrere ai principi basilari della psicologia dinamica, sociale e addirittura clinica, perché c'è una quota parte ineludibile di psicopatologia. A questo proposito apro una parentesi sulla scrittura del trauma sempre più diffusa. Va bene l'arteterapia, ma i traumi si superano sotto la guida di esperti della psiche e con gli psicofarmaci. Alcuni si affidano unicamente alla scrittura e talvolta fanno naufragio. Poi se tutto è trauma, niente è trauma e sappiamo dalla psicologia quali sono veramente i traumi. Inoltre sappiamo che l'incidenza nella popolazione del disturbo post-traumatico da stress è del 7,5%. Che moltissime persone, facenti parte di questa piccola percentuale, scrivano poesia oppure è anche una moda, addirittura una posa quella del trauma, pur essendoci grandi poeti e grandi poetesse, che ne hanno fatto il loro tema principale? Insomma tutta la poesia è dolore e trauma? Non ci si può esentare da ciò? Chiusa parentesi. A ogni modo chi ha vero potere editoriale è amato/invidiato/odiato senza mezze misure. Ma poi è vero potere quello poetico? O è solo un contentino, un palliativo, una valvola di sfogo, una piccola concessione che il vero potere dà ad alcuni individui? C’è chi è dentro e chi è fuori. Chi è dentro guarda con aria di superiorità e con paternalismo chi è fuori. Chi è out a volta sfoga la rabbia in velenosi post su blog, siti, riviste online. C’è chi aspira, più o meno legittimamente, e non trovando riconoscimento diventa frustrato/depresso e talvolta ciò si tramuta in smania di grandezza, in un ingigantimento smisurato dell'ego, dovuto a una ferita narcisistica non rimarginabile. Ma non esiste comunque una linea di demarcazione netta, un limite invalicabile tra chi è in e chi è out: sono dei vasi comunicanti, ci sono delle cooptazioni, delle inclusioni, tenendo ben presente le dinamiche di gruppo (dell'ingroup e dell'outgroup in questi casi). Diciamo che il potere poetico e il contropotere si studiano vicendevolmente. Io, essendo ormai un misero recensore, sto tra l'incudine e il martello, possibile vittima dei due fuochi. Ma tra gruppi poetici di solito nessuno pesta i piedi a nessuno, le critiche alle altre scuole di pensiero sono sempre circostanziate ma vaghe, generiche: di solito nessuno fa nomi e cognomi, gli attacchi ad personam vengono evitati per quieto vivere. Scusate la citazione scontata, abusata, ma “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”, come scriveva Lorca. Solo che talvolta certe logiche di potere fanno passare la voglia di amare la poesia e i poeti. Ad esempio ogni volta che viene fatta un'antologia di poesia pregevole alcuni esclusi fanno delle critiche al vetriolo. Ma come sottolinea il poeta Andrea Temporelli le logiche di potere sono le stesse identiche per tutti: gli esclusi si comporterebbero allo stesso modo, se avessero potere. I contestatori non sognano altro di essere riconosciuti. Non chiedono altro! E intanto stringono alleanze per arrivare al cosiddetto potere, aspettando che muoiano tutti i grandi vecchi. Se un difetto, un limite intrinseco si può trovare ai grandi critici e ai grandi poeti, è quello di passare spesso dalla selettività giusta e sacrosanta all'essere snob ed esclusivi fuori di maniera. E questo snobismo viene ricambiato dagli appassionati di poesia, dagli aspiranti poeti, che non comprano i loro libri, non vanno alle loro presentazioni e conferenze, etc etc. Insomma snobbami che ti risnobbo! Finisce così che i grandi poeti hanno poco seguito e predicano quasi nel deserto, mentre i poeti non riconosciuti cercano consenso nella loro bolla social. Tutto questo è asfittico, claustrofobico e ognuno se le dice e se le canta da solo. Per pura consolazione allora c'è chi ripete “meglio pochi ma buoni” oppure “la poesia non può che essere di nicchia”. In un gioco di snobismi reciproci, di piccoli favori, di attese vane, di idiosincrasie, di dispetti e ripicche, di invidie vivacchia la poesia italiana, in attesa della catastrofe o di una rinascita.

Carpe diem? Passeggiando per Pisa...

feb 242024

 

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Carpe diem? Tutti dicono di cogliere l'attimo. Vige il carpe diem, insomma, in questa società. Ma quale attimo va colto? Va scelto con cura o ponderatezza l'attimo oppure bisogna cogliere qualsiasi attimo? E bisognerebbe stare tutta la vita a cogliere l'attimo oppure ogni tanto si può riposarci, mettersi in disparte ad osservare gli altri che colgono gli attimi? Ognuno colga il suo attimo perché ognuno ha le sue opportunità, ma cogliere l'attimo da antico e saggio consiglio di vita è diventato oggi un fattore imprescindibile di ogni esistenza. Che poi l'attimo è fuggente e bisognerebbe prendere l'eternità di quell'attimo! Le neuroscienze ad esempio ci insegnano che non viviamo mai pienamente il presente, che al massimo viviamo in un passato molto prossimo. Essere meditativi non paga. Bisogna essere attivi e vitali, a costo di perdersi in un vortice di vitalismo disperato, che sfugge a ogni logica. Gli artisti o aspiranti tali però devono anche cogliere il ricordo, l'immagine, il pensiero, il senso dell'attimo vissuto. L'arte consiste nell'eternare, nell'immortalare gli istanti vissuti, che poi è un modo di cogliere e vivere nuovamente l'attimo. Ma vivere pienamente e scrivere dignitosamente sono per alcuni due cose inconciliabili. Vivere e scrivere sembrano agli antipodi. Carpe diem? C'è chi dice che prima bisogna vivere, quindi scrivere. Secondo questa scuola di pensiero bisognerebbe scrivere ciò che si vive. Ma ci sono molti artisti schivi e riservati che fuggono dalla vita quotidiana (perché la quotidianità è alienata, è inautentica, è non vita), si rifugiano in un angolo tutto loro, si mettono al riparo dalle offese e dagli orrori del mondo per concentrarsi meglio, per meditare a lungo proprio sull'esistenza. Questi artisti scrivono per provare l'epifania, ovvero l'illuminazione interiore. Scrivono per vivere e per loro l'essenza della vita è la scrittura: scrivere quindi è la fonte sorgiva della gioia. Carpe diem? Eliot scriveva che si impara sia per esperienza pratica che per conoscenza teorica. Gli artisti corrono il rischio di eternare più la vita immaginata che quella reale, ma poi qual è la vera vita? Perché l'attimo immaginato non va bene? Perché non va bene cogliere anche quello? E poi perché cercare un confine tra sogno e realtà? Sono comunque istanti immortalati, selezionati dagli artisti, dal caso o da Dio? Questo non lo sapremo mai. Cammino sui lungarni e poi sotto i loggiati di Pisa. Prendo dei vicoli, assorto nei pensieri. Vago senza meta. Pioviggina e non ho l'ombrello. Poi viene fuori il sole. Cosa significa ora cogliere l'attimo per me in questo momento? Cercare di approcciare una passante o una barista, nel 99,9% dei casi prendendomi un due di picche? Bermi una birra a un bar? Telefonare a un amico? Continuare a cercare una bancarella di libri usati? Continuare a camminare fino a Piazza dei miracoli? Continuare a vagare e poi ritornare alla stazione senza assentarmi da me stesso? Cogliere l'attimo vuole solo significare divertirsi come fanno tutti? Comunque molti artisti si ritirano nella loro stanza oppure guardano per ore dalla finestra o si mettono a osservare la vita circostante a un tavolino di un bar in attesa non di cogliere l'attimo ma che l'attimo li colga. Montale aveva delle muse e delle agnizioni. Certe donne erano viste come “divinità terrestri” che lo ispiravano; solo loro erano capaci di cogliere l'attimo ma anche di farlo sognare, pensare, meditare, scrivere: “Ti guardiamo noi della razza di chi rimane a terra”. Carpe diem? Pensiamo all’atteggiamento mentale di chi fa meditazione o si mette a riflettere sul letto nel silenzio e nella penombra. Si dice che queste persone rimangono in ascolto del mondo e di sé stessi. Carpe diem? È un atteggiamento apparentemente passivo. È l'ozio in attesa di diventare fertile, produttivo. È l'attesa dell'ispirazione o che quantomeno affiori un'idea. Per gli antichi l'ozio anche etimologicamente veniva prima del negotium, ovvero del lavoro. Oggi l'ozio è condannato da tutti, è considerato totalmente improduttivo. L'unico tempo libero non condannabile è quello dei pensionati, come premio di una vita di lavoro. Il disoccupato è visto principalmente come uno che non ha voglia di lavorare o che è incapace di lavorare. I frutti dell'ozio postmoderno possono essere anche pregevoli artisticamente o culturalmente, ma sono visti come semplice espressione di dilettantismo e di hobby, se non diventano business. Eppure i grandi creativi hanno avuto lunghi periodi di ozio infecondo spesso prima di creare o scoprire cose memorabili. La psicologia del pensiero ci insegna che in ogni fase creativa è necessario un periodo d'incubazione, preceduto dalla preparazione e seguito dall'intuizione felice. Spesso per riuscire ad avere un'idea originale, uno spunto interessante bisogna stare per giorni a non fare apparentemente niente, mentre in realtà i pensieri vengono rimuginati, si rielaborano inconsciamente i contenuti, si approccia un problema a 360 gradi, magari anche infruttuosamente. Sono pensieri sottotraccia che si affollano, fino a quando uno emerge, fa chiarezza, ristruttura cognitivamente il compito da risolvere. Per l'ozio ci vuole un silenzio preparatorio e una stanza tutta per sé. Pascal non aveva torto quando scriveva che molti mali dell'umanità derivano dall'incapacità degli uomini di starsene chiusi da soli nella loro stanza. Per stare bene con gli altri e per non creare danni agli altri bisogna stare prima di tutto bene con sé stessi. Carpe diem? E poi l'attimo non si può cogliere anche da soli con sé stessi? Perché bisogna per forza cogliere l'attimo con gli altri, magari perdendosi nella frenesia e nella superficialità della vita sociale? Perché bisogna per forza essere socievoli e mondani per cogliere l'attimo? Perché poi cogliere l'attimo deve essere un obbligo sociale e perché le occasioni bisogna cogliere sempre insieme agli altri? Carpe diem? Bisogna amare occasionalmente, divertirsi in modo sfrenato e va bene anche sballarsi, fino ad autodistruggersi. Ho chiesto una volta molti anni fa a un amico dopo una storia d'amore finita male con una donna: preferisci che lei ti abbia lasciato, scomparendo per sempre, dopo averla amata anche carnalmente, oppure preferivi che lei fosse una tua amica per tutta la vita senza mai andarci a letto? La risposta è stata che era meglio la prima cosa, perché per come siamo fatti noi uomini occidentali e per come è fatta la società bisogna agire, amare, concludere, finalizzare, avere un'altra conquista nel carnet degli amori. In definitiva l'importante è aver vissuto, anche se a larghi tratti in certe persone gli automatismi psicologici e il volere altrui sembrano fare da padrone. Invece bisognerebbe fare, pensare, volere ciò che più ci aggrada. A volte sembra che la vita vada da sé autonomamente, indipendentemente dalla nostra volontà. Carpe diem? Sembra che in questa continua ricerca della felicità più effimera e banale possibile dell'uomo occidentale la cosa peggiore è non aver vissuto pienamente, non aver colto la palla al balzo, aver sprecato tempo, avere dei rimpianti. Secondo la nostra mentalità comune è meglio sbagliare molto e vivere nel disordine, nel caos invece di isolarsi a riflettere, a diventare esseri più spirituali. L'estroflessione sociale è un dovere. Ho la vaga impressione che vivere troppo intensamente a lungo possa portare a un senso di vuoto, di smarrimento, di esaurimento, di noia. Una vita troppo mondana può arricchire ma anche logorare e abbruttire. La leggerezza può tramutarsi in pesantezza insostenibile. Poi ci si guarda indietro, si fa un bilancio esistenziale e la coscienza rimorde, perché sono troppi gli errori commessi, troppe le cose e le persone importanti lasciate e perdute per sempre, irrimediabilmente. Carpe diem? E poi a tutta questa retorica del carpe diem è sottesa implicitamente la concezione che il tempo è denaro e che non bisogna mai perdere tempo, ovvero il fatto che bisogna consumare tutto e tutti, anche la propria vita, anche sé stessi, fino all'ultima fibra. Carpe diem?

Oggi si pubblica troppo a discapito della qualità...

feb 072024

 

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Nella foto Eros Alesi (1951-1971)

Tomasi di Lampedusa scrisse un solo romanzo, “Il gattopardo”. Salinger oltre a “Il giovane Holden” pubblicò solo tre libri in vita e altri racconti su riviste. Pessoa pubblicò in vita solo su riviste letterarie. Campana ebbe la gloria postuma solo per “I canti orfici”. Svevo scrisse solo tre romanzi e poche pagine di un quarto, intitolato “Il vecchione”, rimasto incompiuto per l'incidente automobilistico mortale. Del poeta romano Eros Alesi, scomparso a soli 19 anni, resta un solo libro, “Che puff. Il profumo del mondo. Sballata”, edito da Stampa alternativa. Del poeta Giuseppe Piccoli, nonostante in vita avesse pubblicato dieci sillogi in piccole case editrici, resta oggi solo il volume “Fratello poeta”, edito da Lietocolle. Insomma si può scrivere poco, pubblicare ancora meno e passare alla storia. Oggi però le case editrici forzano la mano. Uno scrittore deve battere il ferro finché è caldo. Quindi deve essere molto prolifico. Spesso deve pubblicare un libro all'anno. Poco importa se le opere sono più commerciali che letterarie. Poco importa se tutto questo va a discapito della qualità. Poco importa se i libri di uno scrittore si assomigliano tutti troppo e risultano poco originali. In teoria una creatività veramente rispettabile presupporrebbe tempi lunghi per l'incubazione, per la stesura, per l'editing. In teoria ci vorrebbe talento, impegno, fatica ma anche pazienza, calma. In teoria non dovrebbero essere fatte pressioni indebite agli scrittori. Uno scrittore in teoria dovrebbe prendere tempo, correggere, aggiungere, tagliare, rivedere, pensarci sopra. In pratica ci sono le esigenze editoriali. In pratica anche gli scrittori devono guadagnarsi il pane e tengono famiglia. Inoltre un romanzo scritto nel 2024 potrebbe non interessare nessuno e risultare datato pubblicato dieci anni dopo. Aspettare tempi più propizi non avrebbe senso, perché tempi più propizi non ci saranno! Quindi non avrebbero più senso oggi il riserbo, la discrezione, la gelosia degli scritti inediti che rimanevano nei cassetti dei letterati del secolo scorso. Custodire gelosamente le proprie opere, sperando che i posteri possano apprezzare e capire è mera illusione, è una mistura di follia e albagia. Oggi l'imperativo è pubblicare, anche sul web, ma pubblicare. Un'altra osservazione: nessuno sa oggi chi e cosa resterà tra mezzo secolo, quali saranno gli autori memorabili. Pessoa per alcuni al suo tempo era solo un alcolizzato, Campana per molti era un pazzo, Morselli e Tomasi di Lampedusa per molti erano solo dei dilettanti che vivevano di rendita, molti crepuscolari per gli uomini della loro epoca erano solo dei tisici. E oggi? Oggi è molto difficile dire chi resterà. Degli indicatori che forniscono una certa predittività ci sono, come la pubblicazione con grandi case editrici, la vittoria di premi importanti, il consenso critico dei più autorevoli italianisti. Ma ciò che conta per molti è affermarsi in vita, avere successo, prestigio, riconoscimento, soldi vita natural durante, perché tanto la gloria postuma è una grande incognita, probabilmente non salva l'anima, ammesso e non concesso che esistano l'anima e l'aldilà. Un proverbio dei pigmei recita: “se non qui e ora, che cosa importa dove e quando?”

La triplice ingiustizia del mercato e dell'editoria nei confronti degli autori, veri o presunti...

gen 232024

 

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Supponiamo che abbiano ragione i critici letterari e i veri intenditori di poesia e narrativa. Supponiamo che il loro parere sia più competente, autorevole, sensato rispetto al pubblico. Supponiamo che esistano ancora dei canoni e dei criteri interpretativi per valutare talento, originalità, qualità di un libro. Ebbene per le persone competenti o supposte tali ogni giorno si consuma una triplice ingiustizia nei confronti degli autori da parte dell'editoria e del mercato. Questa triplice ingiustizia viene appena accennata, spesso sottaciuta dagli addetti ai lavori, che si rassegnano ormai a questo stato di cose. Invece ciò va detto e tutti ne devono prendere coscienza. Premetto che le grandi case editrici vogliono sempre più far cassa e quindi pubblicano libri che possono vendere. Premetto che per le grandi case editrici sono più importanti il marketing, il social marketing, il posizionamento, il positioning branding (quanto un libro o un autore possano occupare la mente del lettore) della qualità. Luciano De Crescenzo quando approdò alla grande editoria pensò di primo acchito che ora sarebbe stato libero totalmente di esprimere la propria creatività e di essere apprezzato per questo, ma si ritrovò qualche giorno dopo a essere costretto a fare riunioni con esperti di marketing, che snocciolavano dati, statistiche, sondaggi. Premetto che le grandi case editrici hanno una politica editoriale diversa rispetto al passato, ovvero non reinvestono una parte consistente dei loro profitti nella pubblicazione di autori di nicchia per tutelare la qualità della loro editoria. Persino le grandi case editrici accettano passivamente le dinamiche del mercato e spesso sono restie a cercare di imporre un libro di qualità sul mercato. Premetto che molte piccole case editrici spesso pubblicano ogni cosa, facendo l'editing opportuno, per fare cassa. D'altronde l'editoria è industria culturale. Quindi perché stupirsi? Le case editrici, piccole, medie o grandi devono pur sopravvivere e cercare di fare utili. Chi cerca di far presente queste dinamiche editoriali spesso viene fatto rientrare dal sistema nella categoria degli odiatori o dei rosiconi. 

Abbiamo perciò una triplice ingiustizia, come scrivevo prima:

1) ci sono influencer e vip che pubblicano con grandi case editrici solo perché hanno follower e non si meriterebbero assolutamente di venir pubblicati. Spesso i loro libri hanno bisogno di un grandissimo lavoro di editing oppure i loro libri sono scritti addirittura da ghost writer.

2 ) ci sono autori di piccole case editrici che non hanno talento e vengono pubblicati solo perché hanno sborsato dei soldi.

3) ci sono autori di piccole case editrici che hanno talento, ma sono costretti a pubblicare a pagamento, perché non sono ritenuti “collocabili” dalle grandi case editrici per la logica di mercato che ho detto. 

L’editoria quindi, sempre più succube del mercato, commette ogni giorno delle ingiustizie sulla pelle degli autori, illudendoli, ostracizzandoli, addirittura emarginizzandoli. 

 

Credits: foto dell'amico Emanuele Morelli

 

Due parole sugli aforismi e il loro punto debole...

gen 032024

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Alcuni sostengono che scrivere aforismi sia semplice, addirittura facile. In realtà è un'arte. Si potrebbe discutere se sia un'arte minore o meno. Se i proverbi sono saggezza popolare, gli aforismi racchiudono la cultura e la saggezza degli autori. Ci sono autori che devono esclusivamente la loro fama agli aforismi, come ad esempio Morandotti. Ma il punto debole degli aforismi non è che chiunque può crearli, ma che esprimono spesso una certa soggettività e che la verità è un poligono con tanti lati quanti sono gli uomini, come scriveva Gioberti. Forse l'inganno degli aforismi è che promettono leggi generali, insomma oggettività e tutto ciò viene deluso, disatteso talvolta. 

Indro Montanelli creava degli aforismi. Poi nelle conversazioni li citava e li attribuiva a grandi scrittori. Nessuno contestava o aveva da ridire. Ma si potrebbe fare anche il contrario: prendere degli aforismi di pensatori famosi e poi dire che sono nostri. Non tutti si accorgerebbero della truffa. Questo significa che l'aforisma è una massima, una sentenza, un pensiero, una battuta: insomma un'opinione spesso e dipende perciò non dalla logica ma dall'autorevolezza di chi ha creato la frase. L'aforisma non è un sillogismo. Con buona pace di Karl Kraus che vedeva in esso "una mezza verità" oppure "una verità e mezzo". Era solo una battuta. Una provocazione. Sempre a tal proposito si deve ricordare che si possono trovare aforismi che affermano una cosa e altri l'esatto contrario. Celebre è l'aforisma di Longanesi a tal proposito: "Eppure, è sempre vero anche il contrario". Ad esempio Pittigrilli nel "Dizionario antiballistico" invertiva gli aforismi. Umberto Eco a riguardo ha definito questo genere di aforismi cancrizzabili, cioè reversibili. Altre volte l'aforisma si rivela una generalizzazione indebita, per cui oltre ad una piccola verità contiene una piccola bugia. L'oggettività lasciamola a quelle che un tempo venivano chiamate scienze esatte. Alcuni potrebbero definire l'aforisma un'osservazione acuta. Ma anche in questo caso potremmo ricordare Popper, secondo cui prima di ogni osservazione ci sono sempre delle aspettative inconsce (e soggettive). Non parliamo poi delle frasi motivazionali, che spesso sono delle ipersemplificazioni di quella branca della psicologia spicciola, che è chiamata crescita personale. Nessuno è depositario di verità: neanche di mezze verità. E la verità umana è sempre provvisoria. Ecco il punto debole degli aforismi, che è anche quello di tutta la cultura umanistica. 

 

Nuove opportunità lavorative nel web per umanisti...

gen 032024

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Se un tempo il web era fonte di guadagni esclusivamente per ingegneri, laureati in informatica, smanettoni autodidatti capaci, oggi anche gli umanisti o comunque chi ha una formazione scolastica umanistica possono iniziare a guadagnare qualcosa, ad arrotondare, talvolta fino a farne una professione. Certo i ricavi sono ancora molto minori rispetto agli informatici. Sembra però che il web stia andando verso una nuova fase, dove conterà anche la scrittura e la padronanza del linguaggio. Non a caso sono aumentate notevolmente le iscrizioni alla facoltà di informatica umanistica: informatica e umanesimo, due cose antitetiche qualche decennio fa, che oggi possono unirsi. Per prima cosa un "umanista" può fare l'articolista. Può scrivere articoli su commissione, iscrivendosi a siti, chiamati marketplace, come Melascrivi. È il cosiddetto "paid to write". Inoltre un articolista può collaborare con testate giornalistiche online, facendosi pagare per ogni articolo oppure in base alle visualizzazioni ottenute dall'articolo. Esiste il mestiere di copywriter, che non comprende solo la scrittura di articoli, ma si occupa anche di pubblicità ed è più complesso. Esiste la figura del content creator, ovvero del creatore di contenuti, non solo scritti ma anche su Instagram e audiovisivi. Esiste il web content editor, che corregge gli errori ortografici, di sintassi, di punteggiatura nei siti e apporta migliorie ai testi. Rispetto all'editor classico, che lavora in una casa editrice, questo mestiere richiede meno meticolosità, meno fatica. Esiste il web content writer, che scrive completamente contenuti per siti e blog, occupandosi anche del posizionamento sui motori di ricerca, della cosiddetta Seo optimization. Un'altra occasione per guadagnare è quella di fare i book influencer, recensendo i libri. Ci sono i book blogger, i booktuber, gli Instagram book influencer. Ci sono anche i recensori su Tik Tok, più precisamente su BookTok. Costoro possono diventare collaboratori di case editrici.
Ci sono due piccole grandi insidie per tutti questi lavori:


- non copiare perché per i siti Wordpress ad esempio c'è la possibilità del Check duplicate content, che permette di controllare se un testo è inedito oppure se è già presente nel web e perché esistono software antiplagio, anche gratuiti, di cui sono ormai provvisti quasi tutti gli insegnanti di scuola superiore e i docenti universitari. 


- pagare sempre le tasse. Spesso uno può essere pagato tramite paypal, postepay o bonifico bancario. Ma bisogna dichiarare questi soldi. La Guardia di Finanza può accertare facilmente e oggettivamente l'evasione. Anche gli youtuber, in questo caso i booktuber devono pagare le tasse. Anche qui l'evasione è facile da accertare oggettivamente. È meglio in questi casi aprire una partita Iva.  È comunque molto meglio lavorare per un periodo gratis, costruendosi una buona reputazione online, accumulando esperienze e referenze nel curriculum, che essere evasori.

 

 

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