mag 092023

Oggi è il 9 maggio. 45 anni fa venne ritrovato il corpo dello statista Aldo Moro. Vorrei fare una breve riflessione...
In un Paese come il nostro in cui c'è stato un connubio tra materialismo spicciolo e un idealismo deteriore il terrorismo è stato vinto dai partiti, dalle istituzioni, dai sindacati, dal popolo, ma soprattutto dalla fine della guerra fredda (ammettiamolo pure). Qualcuno violento e fuori dalla storia è pur rimasto nella foresta a combattere una guerra già persa, ma nessuno oggi può far leva sul disagio sociale e trasformarlo in barbarie. Il terrorismo nero è stato subito vinto perché non c'è stata da anni alcuna possibilità da parte di nessuno di sfruttare lo spontaneismo armato (nato per esempio dai fatti di via Acca Larentia). Quella contrapposizione di forze (gli opposti estremismi) non esiste più. Quello che è accaduto un anno fa al circolo Arci di Reggio Emilia con cretini incappucciati che cantavano inneggiando alle Br però dimostra che c'è più indulgenza per il terrorismo rosso. C'è da decenni un pregiudizio negativo nei confronti delle vittime delle br ("se la sono cercata", "erano colpevoli", "erano imperialisti", "erano servi dello Stato") e un pregiudizio positivo nei confronti dei brigatisti rossi ("hanno le loro ragioni", "sono intellettuali", etc etc). Gli intellettuali dell'epoca non hanno aiutato il popolo, coniando perfino lo slogan "né con lo Stato, né con le Br" (frase erroneamente attribuita a Sciascia che non l'ha mai detta né scritta), ma non c'è da stupirsi perché erano gli stessi che ce l'avevano a morte con Luigi Calabresi e lo lasciarono solo al suo destino. Le Brigate Rosse sono finite quando hanno ammazzato un operaio sindacalista (Guido Rossa) e un antennista fratello di un pentito delle Br (Roberto Peci). Non potevano più avere un consenso popolare (poco tempo prima se le Brigate Rosse avessero potuto presentarsi come partito avrebbero preso 200000 voti secondo i sondaggisti dell'epoca). Bisognerebbe considerare che Aldo Moro era innocente come la povera Maria Fresu (una vittima della strage di Bologna), anche se il suo lavoro comportava più responsabilità e quindi più rischi. Sicuramente il terrorismo nero colpiva nel mucchio la povera gente in modo efferato, faceva delle carneficine, ma non bisogna mai giustificare o addirittura quasi assolvere i brigatisti rossi, la cui versione di comodo è che la loro violenza organizzata nasceva solo ed esclusivamente come reazioni alle stragi, mentre colpiva a freddo e a tradimento onesti lavoratori e padri di famiglia. Bisognerebbe considerare che i veri colpevoli dell'estremismo rosso non sono i giovanotti autoesaltati e ubriacati ideologicamente che uccidevano, ma i cattivi maestri che li hanno indottrinati e armati: ancora non è stata fatta piena luce su questo e i cattivi maestri non hanno pagato del tutto, sicuramente hanno pagato troppo poco; sono stati proprio quei professorini freddi e spietati come Senzani che hanno armato giovani che stravedevano per loro. Così questi terroristi hanno distrutto vite altrui e le loro. Ma ora possiamo dirlo serenamente che, salvo improbabili colpi di coda, tutto è finito, ma ciò deve servire da lezione. Non deve finire nel dimenticatoio. Infine riporto a memoria una dichiarazione del terrorista nero Giuseppe Fioravanti, che in un'intervista dichiarava che quelli della sua generazione si erano scannati tanto per poi fare anni di galera e ritrovarsi certa gente al governo. Era l'amara constatazione del proprio fallimento umano e politico, nonché di una parte della sua generazione. Basta avere una visione un minimo (ma un minimo) approfondita per sapere che le Brigate Rosse erano infiltrate per quanto riguarda la base ed erano infiltrate ai vertici, pur non trattandosi solo di "sedicenti Brigate Rosse", mentre il terrorismo nero era diretto dalla P2 e dai servizi segreti deviati (o a essere più precisi dalle deviazioni dei servizi segreti, perché non tutta l'intelligence era coinvolta ma solo una parte, seppur consistente): c'era la guerra fredda, l'Italia era sotto la Nato e allo stesso tempo nel nostro Paese c'era il più grande partito comunista occidentale; diciamocela tutta: se Aldo Moro non fosse stato ammazzato dalle Br, c'erano i terroristi neri che volevano probabilmente fargli un attentato, perché in questa contrapposizione brutale di forze politiche molti non volevano il compromesso tra Dc e comunisti e invece i dorotei lo volevano, alcuni perché pensavano, a torto o a ragione, che il marxismo fosse una dottrina ideologica e scientifica superiore e che con i suoi rappresentanti bisognasse allearsi, anche perché in quel particolare periodo storico esprimevano meglio le istanze sociali del popolo. A ogni modo ognuno deve mettersi contro i figli di buona donna (con tutto il rispetto per le loro madri; è solo un modo di dire) del suo tempo. Terroristi rossi e neri ormai sono di un altro tempo. Così si spera.
mag 012023
(Nella foto il poeta Leonardo Sinisgalli)
Nel 1959 lo scrittore e scienziato Snow pubblica "Le due culture", in cui tratta delle incomprensioni, delle divergenze, addirittura dell'incomunicabilità tra umanisti e scienziati. Scriveva che gli umanisti sapevano pochissimo di scienza, che gli scienziati sapevano pochissimo di arte e che quando si ritrovavano non avevano argomenti di conversazione. Insomma non parlavano più la stessa lingua. Le cose a mio avviso sono peggiorate in questi ultimi anni. Oggi c'è ormai una sola cultura, quella tecnologica-scientifica. Io affermerei che non esiste più la cultura umanistica in un mondo in cui tutto è cultura, in cui qualsiasi cazzata viene riconosciuta come elemento culturale. Oggi a onor del vero non è cultura ciò che un tempo era cultura, ma viene ritenuto cultura tutto ciò che è e porta business. Sono finiti i tempi in cui per diventare ragionieri o periti bisognava sapere abbastanza Pascoli e Montale. È finita l'epoca del latinorum! Purtroppo e per fortuna allo stesso tempo! Oggi basta qualche nozione umanistica raffazzonata, approssimativa ed en passant anche nei licei per andare avanti. Oggi c'è più tecnologia e i giovani sono più informatizzati, ma qualcosa abbiamo perso per strada, per esempio le giovani leve hanno perso senso critico e competenze linguistiche (prendendo con beneficio di inventario la tanto citata ricerca di Tullio De Mauro sul numero di parole conosciute dai ginnasiali). Sono finiti anche i medici di un tempo, che avevano una buona formazione umanistica, non solo perché magari avevano fatto il Classico ma perché leggevano molti romanzi, molti libri di poesie, molti saggi e andavano a vedere le mostre, etc etc. Oggi i professionisti e le persone di cultura versate in un campo specifico non sono curiose e onnivore come un tempo, perché pensano, a torto o a ragione, di togliere parte del loro tempo allo studio e all'aggiornamento della loro disciplina. Oggi la vita scorre frenetica, non c'è più tempo e poi in fondo decenni fa, nel secolo scorso, per una persona di buona cultura era un imperativo informarsi e rimanere aggiornata su tutto. Oggi nessuno lo esige più. Oggi ci sono anche laureati in discipline umanistiche disoccupati, precari o sottoccupati, mentre ci sono tecnici che non hanno studiato affatto e che guadagnano molto bene, addirittura sono così richiesti che non si trovano mai, spesso si dimostrano tronfi e maleducati (al limite della nostra capacità di sopportazione spesso). Qualcuno dirà che è la legge della domanda e dell'offerta. C'è inoltre nella mentalità comune l'affermarsi della supremazia degli ingegneri sugli umanisti. È la solita tiritera: ingegneria è necessaria, diventare ingegneri è più difficile. Sono gli stessi che considerano gli umanisti dei cretini per aver scelto quel corso di studi e li rispettano raramente, ovvero solo se si affermano culturalmente, anzi spesso solo economicamente. È vero che le facoltà umanistiche sono più facili di quelle scientifiche (a Pisa ad esempio il preside di ingegneria Villaggio aveva lasciato un cartello sulla sua porta dove era scritto "ingegneria deve essere difficile" e in quella facoltà i professori agli studenti impreparati tiravano il libretto universitario fuori dalla finestra). È vero che ci sono nelle facoltà umanistiche alcuni (non tutti) professori sessantottini, che dispensano buoni voti a molti. Ma è disonesto intellettualmente oltre che falso far passare il messaggio che tutti o quasi riuscirebbero, se si iscrivessero, a laurearsi in una disciplina umanistica, perché anche in queste facoltà esistono a onor del vero i ritiri. Che poi le nostre facoltà umanistiche sono più facili anche perché tutte le nostre scuole elementari, medie, superiori sono più umanistiche che scientifiche e Leopardi viene già fatto alle elementari, mentre le derivate e gli integrali vengono fatti in modo decente solo nell'ultimo anno del liceo scientifico! Che poi un conto è laurearsi in lettere e un conto è diventare letterati perché per fare la prima cosa bisogna studiare un centinaio o poco più di libri di testo, mentre per fare i letterati bisogna leggerne qualche migliaio! Che poi a ben vedere ci sono ingegneri e matematici tedeschi, inglesi, americani, cinesi, giapponesi, indiani che sono più preparati dei nostri italiani, mentre gli umanisti italiani sono rispettati e stimati in ogni parte del mondo, pur avendo lo svantaggio di scrivere in italiano, così poco diffuso nel mondo! Insomma bisognerebbe stare a vedere e considerare saggiamente in cosa consista veramente l'eccellenza. A onor del vero a ogni modo secondo la mentalità comune vale il detto "conta l'articolo quinto, ovvero chi ha i soldi ha vinto". Importante è fare soldi e non pensarci più, come cantava Angela Baraldi negli anni '90. Inoltre qualcuno dirà che ci sono troppi laureati in Italia (quando i dati dimostrano l'esatto contrario) o che comunque ci sono troppi laureati nelle discipline umanistiche, mentre invece le facoltà universitarie non formano tecnici. Obiezione fondamentale a questo tipo di discorso: l'Italia non eccelle nel mondo per gli ingegneri, i matematici o gli scienziati (ci sono nazioni che ci surclassano, come ho precisato prima), ma per la grande presenza di artisti, poeti, scrittori, per le bellezze naturali e artistiche, che non sappiamo valorizzare ancora. Ci sono nazioni con molte meno bellezze e molti meno capolavori che ci passano di gran lunga avanti nel turismo e soprattutto nel turismo culturale. Vengono chiamate città d'arte Firenze e Venezia, mentre molte più città italiane dovrebbero essere considerate città d'arte. Se borghi e città italiani venissero fatti veramente conoscere agli stranieri quanti alberghi, bed and breakfast, guide turistiche, bar, ristoranti, etc etc ci sarebbero in più rispetto a oggi? L'Italia potrebbe vivere quasi di rendita grazie al turismo culturale internazionale, senza inquinare e senza bisogno di industrializzarsi di più. Invece ogni governo spreca molte risorse economiche in spese militari e investe poco nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio artistico, del paesaggio, dell'ambiente. Invece vogliamo seguire l'onda. Vogliamo essere conformisti, seguire a tutti i costi gli altri Paesi più ricchi, senza renderci conto che non stiamo sfruttando adeguatamente le nostre risorse e specificità. Ma le controversie, le rivalità, gli antagonismi con il conseguente senso di superiorità, vero o presunto, non sono solo tra umanisti e persone con formazione scientifica. Che dire dei medici di condotta che non considerano i dentisti, dei medici che prendono in giro i veterinari, dei pedagoghi e dei sociologi che ce l'hanno con gli psicologi, degli psichiatri che non considerano minimamente gli psicologi, dei poeti che considerano incomprensibili e stupidi certi artisti concettuali, dei poeti che snobbano i cantautori, di certi pittori che considerano poco o niente i poeti contemporanei, dei normalisti della classe di scienze che si considerano superiori a quelli della classe di lettere e filosofia? Il rispetto reciproco spesso manca. Essendo assente il rispetto, spesso viene covato reciprocamente nell'animo di molti l'odio. Oggi la cultura è divisa più che mai e sempre più divisiva.
E dire che un tempo c'era il sapere unitario; c'erano nel Medioevo persone con una cultura enciclopedica come Dante. Nell'Umanesimo e nel Rinascimento c'erano artisti e scienziati come Leonardo da Vinci. E come non dimenticare Galileo che era un grande scienziato e secondo Calvino (lo scrive in "Lezioni americane") uno dei più grandi scrittori italiani di tutti i tempi? Nel 1600 in Toscana va ricordato anche Francesco Redi che fu medico e letterato. Bisogna ricordare che sempre nel corso del 1900 si poteva essere scientifici e umanisti allo stesso tempo; ci sono stati Primo Levi, Gadda (si veda su tutti "Meditazione milanese"), Sinisgalli (si veda il "Furor Mathematicus"). Oggi su tutto e su tutti prevale la specializzazione, anche se qualche voce inascoltata e fuori dal coro talvolta parla di interdisciplinarietà. Gli studiosi non vogliono essere tuttologi. Scelgono un ramo. Rinunciano alla globalità per eccellere in un campo. Non c'è niente di peggio al mondo d'oggi che invadere il campo di competenza altrui ed essere tacciato di essere un dilettante o un autodidatta ignorante! Ma oggi è anche molto difficile, quasi impossibile sapere tutto. In qualche ramo dello scibile si finisce sempre per essere analfabeti. Oggi è impossibile essere enciclopedici. Chi dice di sapere tutto è un illuso, un delirante o un impostore. Spesso è già difficile sapere tutto molto genericamente nel proprio ambito. Anzi mi correggo: spesso è già difficile avere un'infarinatura generale nel proprio ambito di competenza. Le persone che conoscevano, che sapevano tutto di tutto sono morte da tempo. Ci sono mille rami dello scibile; vengono pubblicati ogni anno tantissimi libri per ogni ramo del sapere. Neanche i critici letterari italiani riescono a stare dietro a tutte le novità poetiche ogni anno. È già molto difficile se non impossibile rimanere aggiornati nel proprio ambito di competenza. Figuriamoci sapere tutto!
apr 252023
"Malinconie discrete che non sanno star segrete,
le piccole modeste storie mie,
che non si son mai messe addosso il nome di poesie,
amiche mie di sempre, voi sapete!
Ebbrezze conosciute già forse troppe volte:
di giorno bevo l' acqua e faccio il saggio.
Per questo solo a notte ho quattro soldi di messaggio
da urlare in faccia a chi non lo raccoglie."
("Canzone delle situazioni differenti" di Francesco Guccini)
Ha più senso oggi scrivere? Ha più senso scrivere una silloge poetica, se la leggeranno solo pochi e per di più quasi solo aspiranti e sedicenti poeti? Ha più senso oggi scrivere romanzi o racconti quando pochi vogliono leggere storie e allo stesso tempo si registra uno scadimento generale, perché chiunque ha una storia da raccontare, magari quella della sua vita, e moltissimi si sentono in diritto, quasi in dovere di scriverla, visti e considerati l'aumento della scolarizzazione, la diffusione esponenziale di programmi di videoscrittura e l'università di massa? Probabilmente nella storia dell'umanità di libri ne sono già scritti troppi; i grandi capolavori sono già stati tutti scritti; nessuno uguaglierà o supererà Omero, Dante o Shakespeare. Da giovane un mio ex amico mi disse che trovava molto interessanti gli input di un manuale di psicologia sociale che gli avevo regalato, ma mi chiese anche a cosa servisse leggere i romanzi, ad esempio come quelli di Andrea De Carlo. Io rimasi un poco interdetto e poi mi arrampicai sugli specchi, risposi che De Carlo descriveva bene la Milano degli anni '90, la sua vita frenetica, la carambola degli incontri. Allora lui efficacemente controbattè che i personaggi dei romanzi di De Carlo erano tutti liberi professionisti, artisti, intellettuali, insomma borghesi. Io risposi che comunque era anche quello uno spaccato della realtà, che De Carlo non faceva sconti a nessuno, tanto meno alla sua classe sociale di appartenenza. Risposi che anche i personaggi di Moravia, tranne poche eccezioni come la ciociara, erano altoborghesi, eppure nei suoi libri c'era molta verità, anche se solo della verità dell'umano e della Roma da lui vista e vissuta. Aggiunsi che De Carlo era un bravo scrittore, a volte commerciale, ma comunque spesso criticato per invidia, per partito preso, perché ad alcuni non andava giù che avesse avuto successo. Continuai dicendo che leggendo letteratura o comunque narrativa si migliora il nostro italiano e si arricchisce il nostro vocabolario; gli spiegai cosa volesse dire Tondelli quando scriveva che la letteratura contemporanea serve per "ritestualizzare il mondo". Gli dissi che a volte ci sono scrittori che dicono cose nuove oppure che dicono le stesse cose in modo nuovo, che hanno una sorta di sguardo obliquo sul mondo. Ma lui mi riportò subito alla realtà concreta e non soddisfatto rispose che faceva l'operaio, che per lui certi romanzi erano una perdita di tempo. Insomma con poche parole voleva dirmi che non aggiungevano niente al suo mondo interiore, alle sue conoscenze pratiche, alla decifrazione e alla lettura del mondo circostante. E me lo diceva in modo molto franco e onesto, se vogliamo crudo. Si noti bene: quello di Andrea De Carlo era solo un esempio perché non sono un detrattore né un ammiratore dello scrittore milanese (l'ho rammentato perché molti lo conoscono). Estendendo il discorso, anche le scienze umane quale apporto danno in fondo alle nostre conoscenze, se dimostrano spesso delle ovvietà oppure se scoprono delle cose controintuitive, che a molti risultano opinabili? Non a torto alcuni scettici, disfattisti e nichilisti potrebbero ritenere che la conoscenza che deriva da ogni branca dell'umanesimo sia maieutica e quasi tautologica. Però io a tal riguardo obietto questo: che una cosa sia facile da capire non significa che sia facile da scoprire, che una realtà che hanno sotto gli occhi tutti solo pochi sono in grado di rappresentarla, descriverla e in questo mondo ci vuole anche chi descriva una realtà o racconti o si inventi una storia. In definitiva per me essere semplici o dire cose semplici non significa essere facili o dire cose facili. Fatta questa premessa, risultano sempre più fuori dal mondo e deliranti quei poeti, veri o presunti, aspiranti, sedicenti o effettivi, che pensano che la loro arte sia necessaria, addirittura un dono a un pubblico inesistente, a un popolo bue, che si ostina a non capirli. Può darsi invece che loro non abbiano niente di nuovo da dire sul mondo e al mondo. Può darsi che le loro parole non abbiano più forza eversiva o meglio non abbiano più forza alcuna. Non rallegri a questo proposito il fatto che ci siano molti blog di poesia e che alcuni vengano visitati: molto spesso vengono visitati solo da aspiranti poeti, che a loro volta li visitano solo per proporre i loro versi alle redazioni di quei siti. E poi ad aprire un blog di poesia, che spesso ha vita breve, non servono grandi competenze, grande talento, grandi curriculum, grandi referenze. È ammirevole lo sforzo profuso da molti, ma non andiamo oltre e voliamo basso, rasentando terra, come cantava Bob Dylan. Infine forse non ha alcun senso scrivere, se non si è pagati. Quelli capaci e/o furbi scrivono canzoni, per la televisione o per il cinema. Non ha alcun senso spedire quotidianamente il proprio messaggio nella bottiglia nel mare magnum del web. Gli italiani leggono solo libri di intrattenimento oppure testate giornalistiche online per aggiornarsi gratuitamente. A onor del vero non comprano neanche più quotidiani. E allora c'è poco da autoesaltarsi o da vantarsi per un libro pubblicato a pagamento o comunque presso una piccola casa editrice. Non tutti gli scrittori e non tutti i poeti hanno il coraggio e la capacità di trovare la verità dentro di sé e nel mondo circostante, a volte non la cercano neppure, e pochi lettori hanno la capacità e la voglia di raccoglierla questa verità. Chi vuole scrivere dovrebbe farlo, nonostante tutto, con un minimo di pragmatismo, di umiltà, a capo chino, soprattutto scribacchiando le sue cose nel web, quasi esclusivamente nel web. E non dovrebbe scrivere per vanità, per profitto o per personal branding. Con la letteratura è molto difficile campare. Campare facendo gli scrittori è quasi un'utopia. Non si dovrebbe scrivere per trovare un proprio posto nella società: si finirebbe disillusi, disperati e/o sul lastrico. Consiglio a tutti gli aspiranti o sedicenti scriventi che hanno troppe albagie di leggere o rileggere sempre "Fiorirà l'aspidistra" di Orwell e "Lettere a un giovane poeta" di Rilke. In quest'ultima opera il grande poeta scriveva che per scrivere e per trovare le vere ragioni, le vere motivazioni della nostra scrittura bisogna innanzitutto guardare dentro di noi. Questa è la più grande verità che sia stata scritta per coloro che vogliono fare arte.
apr 122023

Scriveva Bukowski che nessun uomo è forte come le sue idee. Ho appena passato mezzo secolo e conosco un minimo la natura umana per sapere quanto avesse ragione. Da giovani molti hanno grandi ideali, che puntualmente tradiscono con azioni riprovevoli. È così facile cadere e/o ricadere. Non parlo moralisticamente di peccati o vizi (non pensiamo solo al sesso, che è poca cosa, un peccato veniale, se non viene fatto male ad altri), ma di errori in senso lato nella vita e di come è facile ricadere nei soliti errori, insomma essere recidivi. Ho conosciuto persone che da giovani volevano condurre una vita irreprensibile e dopo hanno sconfessato totalmente i loro ideali. Vale sempre per tutti il detto: "Soldi e santità, la metà della metà". Ma conosco anche un poco la comunità poetica e a volte mi chiedo quanto sia difficile per un artista non solo non tradire i suoi valori, ma vivere all'altezza delle sue parole. Spesso anche i poeti, i sedicenti e aspiranti tali si rovinano il fegato in piccolezze (meschinità, grettezza d'animo, invidia, gelosia, frustrazione, complessi di superiorità dietro a cui si celano complessi di inferiorità come insegna Adler, vanagloria, presunzione, smania di grandezza, egocentrismo, etc etc). Insomma sembra una cosa banale, però non sempre c'è correttezza nei rapporti umani (dallo scambio di favori, al compromesso sessuale, alla recensione pretesa come atto dovuto, alle alleanze interessate, all'arruffianamento, alla polemica sterile per ottenere visibilità). Che poi non si sa bene dove inizi e dove finisca la comunità poetica, né si sanno con certezza i criteri con cui si stabilisce che uno ne faccia parte o meno! Si ritorna al solito binomio arte e vita, letteratura e vita. Come faceva dire D'Annunzio ad Andrea Sperelli: «Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte». Più recentemente anche il sociologo Bauman ha scritto che bisogna fare della nostra vita un'opera d'arte e lo scriveva senza alcuna traccia di superomismo. Ma spesso in passato si voleva che l'artista desse il buon esempio con la sua condotta di vita, che fosse di specchiata moralità. Se questa regola fosse valida per tutti allora avrebbero ragione quelli del politically correct e anche quelli della cancel culture a rimuovere opere e artisti discutibili. Ma ci sono molti casi limite. Lo stesso D'Annunzio e molti futuristi non erano forse dei guerrafondai? Caravaggio non era forse un assassino? Althusser non strangolò forse la moglie che voleva lasciarlo? Dovremmo cancellarli, rimuoverli? E la lista potrebbe continuare. Senza andare troppo indietro negli anni e limitandosi al mondo dello spettacolo italiano basta ricordare il presunto scandalo di Mina, che era incinta e non sposata. C'è vita nell'arte e arte nella vita. L'arte a onor del vero si dovrebbe occupare della vita. L'arte dovrebbe imitare la vita, riprodurla, tradurla, trasfigurarla, invece del contrario. Il grande Carlo Bo scrisse che la letteratura dovesse essere come la vita. Ma era giovane e non ne poteva più degli intellettuali succubi del fascismo. All'epoca si doveva prendere le distanze da certi compromessi e si doveva indicare una nuova strada maestra. Alcuni decenni più tardi lo stesso Bo scrisse invece: «Il critico deve tenere conto della vita dello scrittore oppure deve limitare la sua indagine soltanto ed esclusivamente all'opera? La questione è antica: per il maestro di tutti, Sainte Beuve, la conoscenza della vita era più che utile, insuperabile. Per altri, a cominciare da Croce e da Proust, se ne poteva fare a meno, anzi era bene stringere lo studio alla valutazione pura dell'opera». La critica biografica purtroppo sopravvaluta la vita e considera poco le opere di un artista. La critica biografica pone troppo l'accento sulla sessualità di un artista e alimenta la pruderie, se non addirittura cerca lo scandalo. Da Freud in poi questo filone della critica spiega le opere in base alla sessualità di uno scrittore, un poeta, un pittore. Ma è davvero necessario? Un poeta dovrebbe essere considerato soprattutto per la sua arte e invece spesso si finisce per ricordarlo solo per i dettagli scabrosi o anche solo piccanti della sua vita. A mio avviso la morale sessuale, a meno che uno non sia uno stupratore o un pedofilo, dovrebbe passare in secondo piano. Certamente si dovrebbe guardare più all'etica e meno alla moralità sessuale in senso stretto. C'è una scuola di pensiero, nata dai poeti maledetti, che basa tutto sulla distinzione tra borghese e artista: all'artista sono concessi certi eccessi, però perde la rispettabilità borghese, a meno che non si penta e ritorni nell'ovile come una pecorella smarrita. Un pregio della comunità poetica è che Pasolini è stato per nostra fortuna uno scandalo vivente e chi veniva dopo ha imparato a non scandalizzarsi mai. Almeno i poeti più avveduti e meno cretini si salvano così dal perbenismo moralistico, tanto presente nella mentalità comune. Vecchioni comunque in una canzone dedicata alla Merini scrive: "Basta un niente per essere felici. Basta vivere come le cose che dici". Ma quanti ci riescono veramente? Quasi nessun poeta, se conosciuto realmente, è all'altezza dei suoi versi, che sono la parte più pura di sé; il critico dovrebbe considerare quanta purezza c'è a suo avviso nella parte più pura di un poeta, ovvero in un'opera. La vita di un artista dovrebbe essere considerata spesso come materiale spurio, grezzo, addirittura in molti casi irrilevante. Invece si è giunti spesso all'eccesso opposto, ovvero a un eccessivo psicologismo, a considerare un'opera come un test proiettivo di personalità. Si ritorna alla celebre frase hegeliana che nessun eroe è tale per il suo cameriere. Oggi più che la vita di un autore interessa il personaggio che riesce a far credere di essere. Oggi uno scrittore deve crearsi un personaggio, diventare riconoscibile, adirittura inconfondibile più con la sua figura che con il suo stile. L'importante a ogni modo è salvare la faccia e le forme, dare un'ottima impressione di sé, fare una bella figura perché anche i poeti, veri o presunti, al mondo d'oggi vivono di apparenza e immagine. E allora avremo il poeta che si vanta delle sue conquiste femminili, dei suoi premi, dei suoi consensi, delle sue pubblicazioni. Avremo poeti che sminuiscono altri poeti per affermare sé stessi, che dicono di essere invidiati da tizio, che dicono che caio è un pazzo o che sempronio è un poveretto. Oppure avremo delle poetesse che scimmiottano le veline perché oggi per essere, per esistere, per essere accettati bisogna fare così e l'apparire diventa non più il mezzo ma il fine. Salvo poi di meschinità in meschinità, di snobismo in snobismo, di presunta selettività in presunta selettività, di pretesa esclusività in pretesa esclusività, di malcelato disprezzo in malcelato disprezzo ritrovarsi a non vendere i propri capolavori e maledire il popolo bue che non sa apprezzare cotanto talento e tanta originalità!
apr 012023

Prima arrivano le immagini e la musica, poi le parole scritte. Così forse in una frase si potrebbe riassumere quello che sta accadendo alla poesia contemporanea italiana. Ma è solo questo? Il celebre Vittorio Sgarbi nella sua prima apparizione al Maurizio Costanzo Show dichiarò che la stragrande maggioranza dei pittori non erano intellettuali. Disse che lui di solito spiegava a loro il significato dei quadri. Era come se la pittura trascendesse gli artisti. Era come se fossero ignari di quello che stavano facendo. Non so se sia vero. Lo prendo per buono, vista e considerata la grandissima competenza in materia di Sgarbi. Erano gli anni Ottanta. Forse oggi le cose sono cambiate, dato che ci sono nell'arte contemporanea molti artisti concettuali e molti registi che fanno installazioni. Ma ancora oggi possono esistere pittori naif, pittori per dirla alla buona tutti inconscio. La stessa cosa non può avvenire nella poesia contemporanea, dove ci deve essere una sintesi tra conscio e inconscio e dove talvolta si cerca di rimuovere l'inconscio. Nell'arte contemporanea l'intellettualità è lasciata in modo preponderante ai critici d'arte. Diciamo che un pittore o uno scultore possono conoscere e metabolizzare tutta l'arte passata, tutta la tradizione in modo inconscio, mentre i poeti devono apprendere e rielaborare soprattutto consciamente. La grande poesia del Novecento, ad iniziare da Eliot e Pound per finire con il gruppo 63, è stata tutta intellettuale. Difficile stabilire i motivi per cui la poesia è più mediata dalla ragione, dalla lucidità, dalla coscienza. Oserei affermare che conti di più la poetica della poesia. Forse è solo questione di Kunstvollen, ma è difficile fare il processo alle intenzioni, alla volontà, dato che esiste sempre l'eterogeneità dei fini anche nell'arte. Ho scritto all'inizio che le immagini arrivano prima, forse perché siamo nella cosiddetta civiltà delle immagini e quindi queste acquistano priorità assoluta, forse invece perché la cosiddetta "emozione retinica" di un quadro o di una scultura arrivano prima, colpiscono di più il fruitore. Forse la fruizione di un quadro o di una scultura è più diretta, più immediata, più accessibile a tutti. Anche se un fruitore ignorante di un quadro non può spiegare esattamente quello che prova a vederlo, comunque quell'opera gli suscita una emozione, gli smuove qualcosa dentro. La poesia contemporanea invece non provoca più shock, non disturba i lettori, né li incanta o li suggestiona più. Questo probabilmente perché il pubblico non è educato al gusto, non riesce a cogliere più la poesia autentica, ma solo i suoi surrogati. Oppure forse questo può accadere anche nell'arte contemporanea, dove un pubblicitario come Oliviero Toscani e un artista come Cattelan spesso sembrano scambiarsi i ruoli? Chissà?!? Ai poeti è chiesto di essere prima, durante e dopo l'atto della creazione degli intellettuali lucidi e sorvegliati. Finisce che non si lasciano più andare alle emozioni e così i più non emozionano gli altri. Sembra quasi che ci sia una regola scritta nella poesia contemporanea per cui non bisogna emozionarsi né emozionare. Come sembra un'altra regola non scritta quella di complicare le cose, scrivere in modo difficile e colmo di paroloni per apparire più intelligenti. Disse Picasso che tutti i bambini sono degli artisti nati, il problema è restarlo da grandi. I grandi pittori si sono saputi riscoprire bambini. Ciò non succede a buona parte dei poeti, troppo impostati, troppo assennati. I poeti nel corso del Novecento, parlo di quelli passati alla storia, sono forse troppo cerebrali. Nella lirica contemporanea la maggioranza degli stessi poeti a loro volta vestono i panni anche dei critici o dei saggisti: pontificano, spiegano, giudicano, ma non emozionano più il pubblico. Li ho definiti troppo cerebrali, come un tempo si definivano quei mariti, oggi etichettati come cuckold, che amavano guardare la moglie fare sesso con amanti occasionali. È come se la poesia avesse perso il senso delle cose, la vera dimensione dell'essere. La situazione in cui si vengono a trovare i poeti oggi è innaturale. Hanno perso il contatto con il pubblico o meglio l'unico pubblico che esiste è quello della comunità poetica, in cui tutti scrivono versi, indipendentemente dal fatto che siano aspiranti, sedicenti o poeti riconosciuti. Un altro problema più basilare è che spesso tra contemporanei e connazionali neanche ci si legge. Molti scrivono e pochi leggono. Ancor meno sono quelli che leggono, hanno gli strumenti per valutare e poi giudicano obiettivamente. Tutto ciò è asfittico, mancano spiragli, l'orizzonte è angusto. La poesia non ha pubblico né mercato. Questo significa che c'è assoluta libertà interiore e di azione (i più però non agiscono in libertà perché hanno paura di rovinarsi la reputazione), ma che allo stesso tempo non essendo mercificabile in questa società consumistica non ha alcun valore o quasi. Eppure oggi molte poetesse italiane e molti poeti italiani varrebbe la pena di leggerli e anche di rileggerli. Sicuramente c'è anche del buono, anche se gli italiani sembrano non accorgersene minimamente.
mar 252023

C'è chi scrive come gli dicono di dover scrivere. Ma c'è anche chi non si discosta dai suoi maestri, c'è chi volontariamente li imita pedantemente, c'è chi diventa talvolta senza volerlo un epigono, un manierista. Ci sono teorie della letteratura e scuole di scrittura che impongono stili e canoni. In fondo bisogna saper rispettare il cosiddetto spirito dei tempi. Per anni ad esempio sono andate per la maggiore la Neoavanguardia, l'autonomia del significante, la letteratura come menzogna. C'è chi scrive come vuole scrivere. È una libertà interiore che dovrebbe rivendicare ogni autore, al di là delle mode. È un modo inequivocabile per essere veramente sé stessi. Significa scrivere come ci piace e quello che ci piace, scegliendo deliberatamente modalità, stile e tematiche. C'è chi si accontenta di scrivere come sa. Alcuni finiscono perciò per essere troppo schematici e ripetitivi. Un poco come un bambino che disegna sempre un albero perché sa fare bene solo quello. Ciò nonostante ci sono sempre margini di miglioramento in ognuno di noi. Non poniamo limiti all'acculturazione, né alla plasticità neuronale. Tutti abbiamo dei limiti e delle possibilità, ma è difficile stabilire quali. Alcuni hanno delle potenzialità inespresse che non riescono a tirar fuori, a concretizzare. I test attitudinali possono dire ben poco sulla creatività umana, che rimane un mistero inenarrabile. C'è chi giunge ad un compromesso tra queste tre istanze (dovere, volere, potere scrivere). Bisogna sempre scegliere cosa scrivere e come scrivere. Ma siamo davvero sicuri di scegliere? E se fossero invece le parole, le idee, le immagini a scegliere noi? Scrivere è sempre un'attesa e al contempo una scoperta, una sorpresa. Non sai mai cosa può uscire fuori. Viene da chiedersi quanto ci sia di cosciente, razionale e quanto invece di inconscio. Anche in un ambito apparentemente razionale e logico come il giornalismo la scelta di scrivere di un argomento piuttosto che un altro, la selezione delle informazioni, la formazione delle opinioni spesso derivano da attività e aspettative inconsce. In fondo aveva ragione Popper quando diceva ai suoi allievi che osservare non è un verbo intransitivo (lui disse: "osservate" e loro gli chiesero "cosa?") e si osserva soprattutto in base all'esperienza pregressa. C'è quindi di mezzo in ogni scrittura che si rispetti l'inconscio collettivo, individuale, cognitivo, istintuale. C'è poi chi sostiene come Lukacs che l'arte debba rispecchiare la realtà. C'è chi sostiene che debba rovesciare la prospettiva ordinaria con lo straniamento. C'è chi ritiene che l'arte debba trasfigurare la realtà e che quindi una componente immaginativa, soggettiva, se vogliamo ludica e carnevalesca, ci debba essere, debba essere messa in conto. C'è chi pensa che l'arte debba creare un altro mondo, seppur fittizio. Scriveva Heidegger che l'arte è la messa in opera della verità e che la vera creazione artistica debba aprire a nuovi mondi. È sempre difficile scegliere tra oggetto e soggetto, tra esterno e interno. Esplorando la realtà ci si imbatte nell'inconoscibilità della cosa in sé, ma scavando dentro ci si accorge dell'inconoscibilità dell'uomo in sé (così potremmo definire l'insondabilità dell'animo umano). Ma poi ancora una volta siamo noi a scegliere io o mondo oppure sono la nostra personalità di base, le nostre caratteristiche intrinseche, le nostre qualità interiori? Ogni volta che si parla di creazione il mistero si infittisce, spunta l'enigma. Da giovane pensavo che ci fossero due tipi di persone che avessero toccato Dio: gli artisti ispirati da Dio, che testimoniavano la sua esistenza con delle creazioni, e le persone che ricevevano le stimmate e quindi una parte della sofferenza divina. Ma siamo sicuri che l'arte metta in comunione con Dio? A seconda dei casi può tuttavia avvicinarci, soprattutto quando proviamo stupore, rimaniamo affascinati e ammaliati dalla bravura di certi artisti. Qualche volta ci chiediamo se quella straordinario talento possa essere solo frutto dell'ingegno, del lavoro, dell'arbitrio umano. Così scrive Borges: "Una volta chiesero a Bernard Shaw se credeva che lo Spirito Santo avesse scritto la Bibbia. E rispose: «Ogni libro che valga la pena di essere riletto è stato scritto dallo Spirito». Ossia, un libro deve spingersi oltre le intenzioni del suo stesso autore. L’intenzione dell’autore è una povera cosa umana, fallibile, ma nel libro deve esserci di più". Però in fondo l'ingegno, la possibilità di potenziarlo ed esercitare sono a loro volta sempre sottomessi al volere di Dio. Quindi anche se l'arte non fosse frutto di ispirazione divina sarebbe se non opera di Dio quantomeno concessione e volontà di Dio. Viene da chiedersi se ci sia Qualcuno che ispira certi artisti. Da dove provengono le parole, i pensieri, le immagini? E se il subconscio fosse divino? Esiste l'ispirazione? Ogni cosa può essere fonte di ispirazione? Può arrivare dovunque, in qualsiasi momento, a chiunque? Esistono delle persone ispirate o quelle ritenute tali in fondo si sono prese la briga o hanno avuto il lusso di restare in ascolto di sé stesse? Naturalmente dietro questi interrogativi legittimi ci può essere sempre qualcuno che abusa della credulità popolare e si arroga il diritto di parlare in nome di Dio. Ecco quindi spuntare i santoni, gli illuminati, i nuovi profeti, gli unti del Signore. Eppure non c'è niente di oggettivo. Nessun santo sa con certezza se ha ricevuto veramente un segno divino o se ciò è una allucinazione. Dio o chi per lui non dà certezze assolute a questo mondo. Tutto deve essere sempre verificato, messo in discussione. Chi non si mette in discussione è perduto. Nessuno psichiatra può oggettivamente trovare un discrimine tra santità e follia. A questo riguardo consiglio di leggere "Benedetta follia. Dai padri del deserto ai mistici di oggi" di Andreoli. Solo la Chiesa dopo uno studio attento delle opere e delle testimonianze fatte in vita può beatificare. Inoltre affermare che la propria ispirazione sia divina molto spesso è un grande atto di presunzione oltre che di ingenuità. E se poi non fosse un tratto distintivo di certi artisti, ma se tutti gli uomini fossero ispirati da Dio e se si trattasse solo di essere disposti ad accogliere? Allo stesso tempo penso a tutti gli artisti che hanno trasgredito i comandamenti, hanno commesso peccati mortali e non dovrebbero essersi salvati. Eppure sono artisti maledetti che hanno avuto gloria postuma. Mi chiedo se non possa esserci anche una arte ispirata dal demonio. Esiste forse un'arte che fa bene e una che fa male? Non dimentichiamoci che un tempo hanno messo i libri all'indice, il nazismo ha bruciato dei libri, nel corso della storia ci sono state troppe censure. Pretendere di stabilire quali opere sono da condannare e quali no è rischioso. Non si può fare come Hitler che considerava arte degenerata quella che si opponeva alla sua dittatura. Mi chiedo se con l'arte si può raggiungere la salvezza ultraterrena, se si possa espiare con essa le colpe e i peccati. Hegel sosteneva che la lettura del giornale il mattino fosse la preghiera laica dell'uomo contemporaneo. Io mi chiedo se anche la creazione e la fruizione artistiche possano essere intese come preghiere laiche. Forse chi è veramente religioso e fedele non chiede lumi all'arte, ma talvolta certi artisti dimostrano tutta la loro religiosità nelle loro opere artistiche. Inoltre mi chiedo anche quanto valga acculturarsi ed esprimersi artisticamente. Mi chiedo non solo se sia necessario per salvarsi l'anima, ma anche se sia necessario al mondo reale e concreto. Cosa può fare l'arte per la giustizia di questo mondo, per combattere la povertà? Forse niente, realisticamente parlando. E allora vale la pena sacrificare la propria vita e sé stessi in nome dell'arte? Quanto un artista è disposto a dare di sé in nome dell'arte? Qualcuno potrebbe ironizzare dicendo: "non libri, non opere d'arte, ma opere di bene".
mar 242023

In fondo che mi manca? Un tetto sotto cui dormire ce l'ho. Così come ho 4 mura che mi riscaldano d'inverno e mi tengono al fresco d'estate. Ho da mangiare e da bere. Ho un bagno in cui cacare. Ho i miei genitori e mia sorella. Ho un cane che mi fa i complimenti. Ho una zona molto tranquilla in cui camminare. Ho un bar in cui prendere i caffè e in cui conosco qualcuno per fare due chiacchiere. Ho una biblioteca comunale in cui prendere dei bei libri usati a 1 euro, mezzo euro o 2 euro. Ho una camerina tutta mia in cui posso leggere, raccogliermi, meditare sulla vita e sul mondo. Ho un posticino in cui mangiare una pizza con il mio migliore amico. In fondo sono fortunato perché altrove si muore di fame o di guerra. E inoltre godo di buona salute. Che me ne importa del sesso, dell'amore? Oh certo…tutto l'amore che ho provato e che non è stato ricambiato!?! Oh certo l'imperativo sociale qui è avere una scopamica! Oh certo ora è primavera e quei due ragazzi davanti a me si scambiano effusioni e io sono solo. No. Non posso considerare solo questo. Certamente ho dei momenti di crisi ogni tanto, ma sono più le cose che ho di quelle che non ho ed è a queste che devo guardare, non mi devo crucciare troppo, fissare troppo su ciò che non ho avuto, su ciò che non ho. Ci sono cose che la letteratura e le scienze umane non sempre ti insegnano. Ci sono cose che a scuola non ti insegnano. Puoi solo impararle dalla vita vera. E infine nessuno è solo a primavera. Siamo tutti partecipi del creato. E poi fuori è primavera e c'è il cielo sgombro, il tepore del sole, la vita, anche per chi non ha un amore.
mar 082023

Se dovessi consigliare una poesia sui migranti, dovrei per forza di cose parlarvi di “Home” della giovane e bravissima autrice somala Warsan Shire. Ma vorrei rimanere in Italia e a dire il vero tra i poeti riconosciuti nostrani non c'è l'imbarazzo della scelta, anzi non c'è possibilità di scelta, visto e considerato che trovo scialba e scontata, insomma di maniera, la lirica rinomata di Erri De Luca. Tra tutti gli aspiranti, sedicenti, effettivi poeti nostrani molti si sono cimentati nell'impresa di scrivere poesie sui migranti, che compiono viaggi della speranza, ammassati in barconi. E a onor del vero nel 99,9% dei casi non hanno saputo andare oltre la retorica, il sentimentalismo, il pietismo, il buonismo imperanti. Insomma luoghi comuni e basta, senza se e senza ma. Pose e modi di atteggiarsi per farsi belli agli occhi del mondo, per rientrare nel novero del politicamente e dell'eticamente corretto. Ammiccamenti al lettore e niente di più. Anzi dovrebbe essere severamente proibito scrivere poesie su temi così scottanti e delicati. Che poi si sa come sono sensibili oppure sciocchi i poeti nostrani, aspiranti e non, che appena c'è un naufragio oppure un terremoto sono subito pronti a verseggiare per la tragedia che ha appena colpito i loro animi nobili! No. Bisognerebbe mettere una legge in cui non si potrebbe speculare su tragedie nazionali o internazionali, scrivendo poesie ad hoc. Inoltre non è assolutamente detto che certe poesie a tema riescano a sensibilizzare le persone. Ma a volte osservo sia tutta una gara di buoni sentimenti. No. Un poeta con un minimo di buon senso e di dirittura morale dovrebbe evitare di scrivere su certi argomenti, su cui sarebbe meglio soprassedere. Sarebbe meglio il silenzio, la pagina bianca, il non detto. A dire il vero di poesie italiane sui migranti e le loro tragedie è pieno il web. Vanno di moda. Il primo premio in qualche concorso letterario è garantito, anche se il linguaggio è desueto, arcaico, stantio. Ma c'è un'eccezione: da tanta mediocrità si salva a mio avviso Sergio Guttilla, Capo Scout Agesci nel gruppo Bolognetta1, che ogni tanto scrive poesie e canzoni, suonicchia chitarra e pianoforte. Così afferma lui. Con la sua freschezza e genuinità riesce in questa sua lirica a trascendere il paludamento di tanta poesia ufficiale e non. Riesce a dirci qualcosa di nuovo in modo semplice e chiaro. Guttilla non è nelle sabbie mobili, non è nelle catacombe come alcuni suoi colleghi poeti più illustri. E noi capiamo che di queste sue parole avevamo bisogno perché sono parole veramente "migratorie", veramente spiazzanti, che ci fanno vedere quel tragico spaccato della realtà in modo nuovo. Dirò di più: questi suoi versi così originali capovolgono la visione ottusa di tanti benpensanti, che pensano di avere la verità in tasca, che dicono che i migranti non dovrebbero partire, che i flussi migratori andrebbero a tutti i costi regolamentati, che la colpa delle tragedie in mare è esclusivamente degli scafisti, etc etc. Qualche maligno potrebbe dire che questa poesia è un pezzo facile, che non è letteraria, che non ha dignità letteraria, che è enfatica, che stuzzica troppo il cuore, etc, etc. No. Sono tutte critiche pretestuose. Questa lirica è bella e veramente ispirata. Non è colpa di nessuno se a volte l'ispirazione va a trovare coloro che non sono reputati dei "poeti laureati" e che si dimostrano a onor del vero molto più poeti dei poeti ufficiali. Non è colpa di nessuno se questi versi sono veramente umani e se l'autore è veramente umano, a differenza di tanti piccoli geni incompresi, che fingono di sprizzare umanità da tutti i pori. Questa lirica è da antologia senza ombra di dubbio. Diffondete anche voi questi versi, citando l'autore, perché sia queste parole che il poeta in questione meritano di essere noti tra tanti impostori delle patrie lettere, tra tanti facitori di versi ormai patentati e celebrati. Sergio Guttilla riesce a emozionare e riesce nello straniamento; coglie nel segno, a differenza di tanti letterati nostrani, professionisti dell'intellettualismo radical chic. Questa lirica ci dimostra una cosa: che per scrivere di qualcosa bisogna aver visto una realtà da vicino in presa diretta. Ma ci dimostra anche che per scrivere di argomenti così sensibili bisogna essere non conformisti ma con un animo puro e uno sguardo lucido sul mondo. Ecco la poesia, che sta diventando meritatamente virale nel web:
Sergio Guttilla
29 giugno 2018
Dedicata a i 100 morti in mare, morti affogati
in attesa di una nave che li salvasse.
"Se fosse tuo figlio
riempiresti il mare di navi
di qualsiasi bandiera.
Vorresti che tutte insieme
a milioni
facessero da ponte
per farlo passare.
Premuroso,
non lo lasceresti mai da solo
faresti ombra
per non far bruciare i suoi occhi,
lo copriresti
per non farlo bagnare
dagli schizzi d’acqua salata.
Se fosse tuo figlio ti getteresti in mare,
uccideresti il pescatore che non presta la barca,
urleresti per chiedere aiuto,
busseresti alle porte dei governi
per rivendicare la vita.
Se fosse tuo figlio oggi saresti a lutto,
odieresti il mondo, odieresti i porti
pieni di navi attraccate.
Odieresti chi le tiene ferme e lontane
Da chi, nel frattempo
sostituisce le urla
Con acqua di mare.
Se fosse tuo figlio li chiameresti
vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso.
Dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti
vorresti spaccargli la faccia,
annegarli tutti nello stesso mare.
Ma stai tranquillo, nella tua tiepida casa
non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Puoi dormire tranquillo
E sopratutto sicuro.
Non è tuo figlio.
È solo un figlio dell’umanità perduta,
dell’umanità sporca, che non fa rumore.
Non è tuo figlio, non è tuo figlio.
Dormi tranquillo, certamente
non è il tuo."
feb 262023

L’egoismo dal punto di vista economico si manifesta con il possesso e l’avidità. Inoltre c’è la voglia di comandare, di dominare: insomma il potere dell’uomo sull’uomo. Ma l’arricchimento da parte di taluni deriva anche dalla paura del futuro. Dal punto di vista sessuale e sentimentale abbiamo anche qui il possesso, ma anche la paura di rimanere soli e l’angoscia di separazione. Ancora oggi per molti uomini ad esempio la donna è considerata di loro esclusiva proprietà, anche se sono i criteri della società a stabilire cosa considerare come perdita del possesso (di solito il tradimento sessuale). Di certo la povertà in ambito economico e la solitudine in ambito affettivo sono delle ingiustizie ai danni di alcuni. Ma se si volesse riparare queste ingiustizie nascerebbero altre ingiustizie. Ciò che io considero ingiustizia per alcuni è un diritto acquisito o una giusta ricompensa dei sacrifici o delle scelte di vita e viceversa. Perfino i comunisti credono nel motto: “a ciascuno a seconda delle sue capacità e dei suoi bisogni”. Ma in questa celebre frase ad esempio ci si scorda dell’impegno. I liberali invece si scordano che la fortuna gioca un ruolo determinante nello stabilire le sorti di una persona. Non c’è accordo unanime perché dove alcuni comunisti vedono la fortuna i liberali vedono il merito e viceversa. Ma come non pensare che nascere in una famiglia ricca e di sani principi non sia una grande fortuna? E se tutto dipendesse dalle capacità, non è forse una gran fortuna nascere con delle grandi capacità? È innegabile tutto ciò. Che fare allora per riparare tutti questi privilegi e ingiustizie? Eliminare la proprietà privata, come voleva Rousseau? Dividere tutto in parti uguali? Ritornare allo stato di natura? Riformare completamente lo stato di diritto, che garantisce, tutela, protegge i privilegiati? Oppure ognuno dovrebbe fare una scelta radicale e abbracciare la povertà come San Francesco? Una cosa è certa non si può vivere senza uno Stato. Io ad esempio vorrei uno Stato minimo, come Nozick. Ma ci vuole uno Stato. Ci vuole un contratto sociale perché la libertà selvaggia porterebbe alla guerra di tutti contro tutti, scatenerebbe la barbarie. Ci vogliono anche gli imperativi categorici kantiani, ma siamo certi che la legge morale non sia un modo di preservare i privilegi e non opporsi alle ingiustizie? Gran parte dei pensatori socialisti e utopisti pensava di poter cambiare la società a partire dall’uomo semplice con bisogni semplici. In fondo se tutti fossimo dei cittadini semplici con dei bisogni semplici nessuno vorrebbe di più e tutti si accontenterebbero. Ma la società capitalista ogni giorno inventa nuovi bisogni e nessuno è mai soddisfatto. Oltre a questo l’uomo per sua natura non si accontenta mai di quello che ha: è una costante antropologica. Oltre al problema di cosa cambiare e cosa fare, esiste un altro problema insanabile: di solito gli innovatori si dividono in coloro che vogliono difendere strenuamente le libertà, i diritti di tutti e coloro che vogliono soddisfare i bisogni primari di tutti. Visto e considerato che al mondo d’oggi non vengono ancora tutelati i diritti di tutti, né soddisfatti i bisogni primari di tutti, ecco allora che già in partenza ci sono divisioni profonde, incomprensioni, divergenze di vedute, analisi e sintesi differenti. Come al solito non ci si mette mai d’accordo e il cambiamento avviene raramente e in modo molto marginale.
feb 102023

SINOSSI DELL’OPERA. Possedere l'altro, primeggiare, schivare le attenzioni di una madre morbosa, meritare il riconoscimento di un padre inarrivabile sono i desideri che animano Bianca, fragile trentenne, ricoverata più volte in psichiatria per i suoi vani tentativi di suicidio. L'incontro con il filosofo Carlo Brama, ambivalente oggetto di desiderio, rende maggiormente precario il suo stare al mondo e apre un viaggio a ritroso nell'infanzia e nell'adolescenza pugliese, frugando tra i segreti di una famiglia borghese piena di scheletri nell'armadio. L'amore non è una fiaba a lieto fine ma una radiografia della psiche, un legame tanto carnale quanto spirituale che, come in un rito, nel suo compiersi conduce al trascendimento della ragione. Tra Carlo e Bianca c'è un gioco crudele che diventa una condanna, una tessitura di destini, sacra e terribile, cui cercano entrambi di sfuggire.
L'autrice cita subito in esergo due concezioni della brama, secondo Alberto Savinio e Jung; la protagonista desidera "come la terra brama il cielo", ma poi citando "Il diario del seduttore" di Kierkegaard scrive che è "la paura il desiderio più grande, la natura dell'anima umana" e nel capitolo 30 i termini desiderio e brama sono intercambiabili: questo non significa assolutamente confusione o inesattezza, ma difficoltà a stabilire differenze ontologiche tra brama e desiderio per chiunque. La protagonista di questo bellissimo romanzo si alterna tra relazioni tormentate, autodistruzione, tentativi di suicidio sotto forma di "abbuffata di farmaci", cure psichiatriche conseguenti e rischio reale di essere "lobotomizzata da farmaci", che stabilizzano l'umore, annullano deliri e psicosi, ma allo stesso tempo appiattiscono la vita psichica. È vero però che nessun psicofarmaco per ora può annullare il desiderio o per dirla alla Palomba la brama. Il romanzo è scritto molto bene ed è comprensibile a tutti. La Giulio Perrone conferma ulteriormente con questo romanzo di pubblicare libri di elevata qualità. Quest'opera è senza ombra di dubbio frutto di grande talento e coraggio. È un'analisi psicologica incessante, arricchita da citazioni letterarie, psicologiche, filosofiche. Le rare volte in cui si descrive atti sessuali non c'è mai volgarità ma modernità. Il sesso poi non è mai estremo. Il sadomasochismo è soprattutto psicologico/esistenziale: come scrive magistralmente la Palomba è una "sfida a fottersi entrambi" da parte dei due amanti. Vengono anche descritte le dinamiche patologiche familiari. Bianca, la protagonista, si sente una pazza depressa e una figlia ingrata, ma interiormente prova un forte disagio, tant'è che si definisce la "somma di pezzi non assemblati". Carlo, il suo amante, non vuole solo il sesso o l'amore, ma soprattutto la mente; però anche la protagonista è considerata da chi la conosce bene una manipolatrice mentale. Bianca desidera incessantemente ma allo stesso modo esiste "in quanto desiderio di qualcuno": la sua è una via senza uscita, non si esce da questo circolo vizioso. L'instabilità psichica viene descritta in modo egregio nel capitolo 18, in cui le stesse sensazioni sembrano liquefarsi. Bianca insegue l'equilibrio, la stabilità, la normalità. Ma la normalità non esiste. Bion sosteneva che tutti gli esseri umani, anche i più normali, hanno dei nuclei psicotici, nonostante cerchino di inibirli. Ognuno ha delle zone di ombra e anche i cosiddetti folli hanno dei periodi di lucidità. I veri creativi integrano lucidità e follia. Inoltre una cosa filosoficamente molto interessante: la scrittrice per tutto il romanzo gioca su un discrimine, una dicotomia mai netta davvero: da una parte vorrebbe scrutare l’abisso e fermarsi sull’orlo del precipizio, dall'altra vorrebbe come dice lei stessa attraversarlo. Questo romanzo ben congegnato porta a molte riflessioni. Una è sul desiderio.
Oggi riceviamo molti più stimoli e molti più input di un tempo. Siamo quindi degli eterni insoddisfatti. Il consumismo e con esso i mass media stimolano il nostro desiderio incessantemente. Vorremmo avere tutto o quasi, vivere tutto o quasi. Aumentano però anche le frustrazioni. Spesso è questione di modelli inarrivabili, di un immaginario erotico mai pago. Basta leggere “Soggettività e denaro. Logica di un inganno” del filosofo Silvano Petrosino per capire meglio, per decifrare il mistero. Petrosino avverte, citando Lacan che il desiderio è spesso un fantasma più che un oggetto/soggetto vero e proprio. Quando il desiderio si concretizza e l’oggetto/soggetto diventa nostro strumento di piacere ecco allora che non riusciamo a goderne pienamente o desideriamo un altro oggetto/soggetto. Come ricorda Petrosino noi per amare ed essere amati cerchiamo di fare in modo che la persona desiderata ci desideri, per amare bisogna rispecchiarsi nell’altra persona e questa si deve rispecchiare in noi. Insomma l’amore è un incontro di desideri. È soprattutto questo che ci dice la Palomba. È difficile trovare in amore il giusto mezzo. Il sesso non sempre è vissuto da tutti in modo egosintonico.
Un'altra considerazione sorge spontanea sulla nostra grande capacità a cadere sempre nei soliti errori, ad autosabotarci. Freud dal punto di vista psichico parlava di coazione a ripetere. Secondo la Treccani la coazione a ripetere è una “tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze”. Per Freud la coazione a ripetere era un grande rovello. Era chiaro che non era governata dal principio di piacere e così Freud aveva teorizzato che fosse causata da Thanatos. Alcuni sono come degli automi che ripetono le solite azioni in un loop infinito. Un tempo si diceva che fosse l’istinto. Oggi questo termine per gli esseri umani risulta inappropriato e si usa invece il termine “pulsione”. Ma non c’è solo questo. Molti, quasi tutti, sono determinati dalle cosiddette dinamiche psicologiche. Da un lato utilizziamo le solite griglie interpretative e siamo rassicurati quando ci troviamo di fronte i soliti script. Quasi tutti si tende a ripetere i soliti schemi di comportamento; siamo soggetti a pensare gli stessi pensieri, a visualizzare le stesse immagini, ad avere gli stessi desideri, a compiere le stesse identiche azioni. Insomma siamo in preda a degli automatismi. È la classica forza dell’abitudine? La casistica delle dinamiche psicologiche è infinita. Ma cosa sono in fondo queste dinamiche psicologiche? La definizione più semplice, quasi tautologica, ma anche più calzante è che sono le spiegazioni psicologiche più plausibili che diamo a dei comportamenti osservati. La scrittrice ha scritto un romanzo impareggiabile sulle dinamiche psicologiche. Oltre alla dipendenza fisica da una sostanza a esempio esiste una dipendenza psicologica. Ci sono inoltre relazioni sentimentali che sono davvero tossiche e che sono determinate da una dipendenza affettiva. Il problema cruciale spesso non è spezzare la catena, ovvero il legame con quella persona, ma annullare o rendere innocua la dinamica psicologica che porta ad instaurare sempre lo stesso tipo di relazione tossica. Ci sono molte persone che si legano da sole sempre alla stessa catena. Non è una questione di logica. A livello razionale si può imparare dagli errori, ma a livello psicologico c’è spesso qualcosa di più forte di noi, che ci porta a ripeterli. Tutto questo lo scrive benissimo la Palomba. Ognuno ha i suoi tarli, le sue debolezze, le sue catene, ma solo pochi riescono ad esserne consapevoli. Spesso tutto ciò è inconscio per chi lo vive. Noi vediamo sempre le catene altrui, ma molto raramente riusciamo a vedere le nostre. Ci sono tante forme di dipendenza. Non a caso per la cura di molti disturbi psicologici si sta diffondendo la schema therapy. In ambito sentimentale la stragrande maggioranza delle persone ha un archetipo definito, dei gusti definiti che portano a scegliere spesso la stessa tipologia di partner. Si usa dire che chi si somiglia si piglia. Ma non c’è una regola certa. A volte si possono scegliere persone complementari, mentre a volte si attraggono le persone totalmente opposte, completamente agli antipodi. Ma questo accade in diversi contesti. Sapere poi perché siamo esseri così abitudinari è difficile a dirlo. Perché i nostri comportamenti sono incasellati sempre in pochi pattern, in poche categorie? Perché fanno parte della nostra identità e della nostra personalità di base che è sempre così stabilita e predeterminata? Siamo davvero degli esseri così prevedibili? È ciò che un lettore si domanda dopo aver letto questo bel libro. In fondo siamo ciò che pensiamo e siamo ciò che facciamo e inoltre facciamo sempre ciò che pensiamo? I nostri desideri agiscono per noi? Siamo agiti dalle nostre subpersonalità? Siamo come automi già programmati con schemi sia innati che appresi? Gli studiosi della mente cercano di dare risposte, ma c’è poco di certo. Tutti concordano nel dire che il cervello umano è “schematico” per adattarsi meglio all’ambiente, per essere coerenti con noi stessi (dato che siamo ricercatori di coerenza e stabilità), per mettere ordine al disordine, per interpretare più efficacemente il mondo. Tutti siamo soggetti a schemi cognitivi, costituiti da modelli e rappresentazioni mentali, da convinzioni radicate nell’animo. Il problema è che alcuni hanno degli schemi “disfunzionali” e finiscono per imbattersi sempre nelle solite situazioni, nei soliti episodi. Bianca, la protagonista del romanzo, è in un certo qual modo disfunzionale in amore. È però anche vero che quando ci imbattiamo in una situazione viene attivata la memoria e in essa vengono cercate delle reazioni e dei comportamenti a situazioni simili che abbiamo già vissuto. È molto difficile cambiare, comportarsi in modo completamente nuovo ed originale. Alcune domande sorgono spontanee. In che modo viene generato un modello di comportamento? Fino a che età si può cambiare schemi di comportamento? Una persona poi può cambiare i suoi schemi di comportamento senza snaturarsi totalmente? Una cosa è certa: molte persone sono molto conservatrici, hanno così paura del nuovo, dell’ignoto, del cambiamento, che preferiscono stare malissimo pur di rimanere tali e quali. Una persona, come si suol dire, è inutile che viaggi per il mondo e cambi mille città diverse se porta con sé nel cuore e nella mente il suo vecchio paese, con le sue esperienze spiacevoli. Volenti o nolenti i nostri schemi di comportamento sono delle generalizzazioni che ci permettono di interagire con gli altri nel modo che a noi sembra più efficace e più veritiero possibile. Il problema principale, croce e delizia al tempo stesso, è che la nostra esperienza è sempre troppo limitata per fare delle inferenze efficaci per il futuro. La scrittrice infine ci fa domandare come potremmo Imparare a non farsi del male, a volersi bene. Sartre a tal proposito sosteneva: "È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei.”
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feb 012023

Tutti sono concordi nel dire che a questo mondo non ci sono più valori. I preti parlano giustamente di secolarizzazione. Pasolini scriveva che negli anni settanta si stavano sempre più affermando i valori del consumismo, improntati sull'edonismo, sul laicismo, sulla tolleranza a discapito dei valori della tradizione cattolica. È difficile stabilire quali sono i valori che prevalgono oggi in questa Italia. Come scrive Giovanni Siri i valori a livello psicologico strutturano l'identità e la personalità di base di una persona. Dalla discrepanza tra valori e comportamento possono scaturire disagio esistenziale, sensi di colpa, tormento. Ma è anche vero che un valore non è una meta raggiungibile una volta per tutte, a cui approdare definitivamente, ma un principio che ci chiede continuamente prove, riprova e conferme. È difficile essere totalmente coerenti ai propri valori. Un valore è un fine a cui tendere quotidianamente. Aristotele sosteneva che più che professare dei valori bisogna metterli in pratica e qui la cosa si fa davvero difficile, quasi impraticabile, molto facile a dirsi e molto difficile a farsi. Per Allport i valori sono delle credenze morali. Alcuni studiosi fanno sottili distinguo tra valori e ideali. I valori per alcuni sono solo teorici, mentre dovrebbero anche per essere tali diventare delle norme di comportamento. Per altri i valori sono delle regole da seguire pedantemente, ma di cui non avvertono al di là della prassi la portata interiore di certe leggi morali. I valori dovrebbero essere vissuti sia interiormente che praticamente, perciò nessuno è una persona veramente risolta nei confronti della propria sfera valoriale, anzi è una partita sempre aperta, che dura tutta la vita e di cui è difficile, quasi impossibile sapere il risultato. Bisognerebbe vivere autenticamente i nostri valori, crederci veramente e seguirli nella quotidianità, ma spesso ci sono ostacoli insormontabili nel praticarli e poi chi ci dice che i valori che crediamo nostri siano veramente nostri? Spesso sono i valori che ci hanno inculcato da piccoli, ma forse questo non importa. Importante è stare bene con sé stessi nel viverli. In psicologia ci si basa sui valori per determinare la devianza o meno di un individuo. La psicologia ci insegna che negli ultimi anni gli uomini occidentali hanno delle "personalità fluttuanti", talvolta piene di piccole incoerenze e contraddizioni. Di solito di usa dire che uno che uno ha valori, è di sani principi. Ciò significa di solito che è un uomo all'antica, che non beve, non si droga, non è gay. Alcuni si dicono uomini di onore e per l'onore sono pronti a farla pagare per un apprezzamento volgare rivolto alla loro ragazza. Al di là di ogni ricerca di psicologia è giusto ritenere che ancora oggi i valori degli italiani almeno in teoria siano basati sulla morale cattolica. Vale ancora oggi ciò che scriveva Croce, ovvero che in Italia non si può non dirsi cristiani. Probabilmente a livello giovanile c'è un fiorire di "personalità fluttuanti", ma inserite, volenti o nolenti, in un contesto socioculturale cattolico. Il nostro Paese, volenti o nolenti, è un baluardo, una roccaforte del cattolicesimo in un mondo in cui prevalgono sempre di più la soggettività dei valori e il relativismo culturale. Ma cosa si intende ad esempio per valori? I più comuni sono Dio, la giustizia, la libertà, la solidarietà, l'amore. Comunque data una morale qualsiasi la gente peggiorerà, deteriorerà, deformerà sempre a sua immagine e somiglianza, a suo piacimento quei codici etici. Sgombriamo il campo da ogni equivoco: non è la morale cristiana che si presta ontologicamente all'odio. Sono piuttosto gli animi delle persone che covano l'odio. Non è la morale sessuale cattolica ad essere omofoba oggi (un tempo lo era), ma è soprattutto una quota parte della popolazione ad essere omofoba per i più disparati motivi psicologici. Nella Bibbia c'è anche scritto che chi è senza peccato scagli la prima pietra, c'è scritto di amare il prossimo tuo come te stesso, c'è scritto di non fare mai agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. I valori per certi versi vengono sempre stravolti dalla popolazione, che giudica e condanna il prossimo. Data un'etica qualsiasi una parte della popolazione trasformerà dei valori impeccabili in disvalori e commetterà delle ingiustizie. Fa parte della realtà delle cose.

A ogni modo esiste una sorta di pansessualismo della morale degli italiani. Viene data dagli italiani grande importanza alla sfera sessuale, che determina l'onorabilità e la reputazione delle persone. Molto spesso è il giudizio impietoso su una sfera così intima come quella sessuale e non la professionalità, l'onestà, la lealtà, la validità che determina la vita sociale delle persone, soprattutto in provincia e l'Italia è fatta più che altro da piccoli paesi. Per alcuni comunque non ha più un senso parlare di valori perché la parola valore è un termine desueto. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori in un mondo in cui gli uomini sono dei mezzi e dei mezzi come il denaro diventano dei fini. Viene da chiedersi che senso ha parlare di valori quando conta un sistema premiante imperniato sull'avere, sull'apparire, sul successo. La maggioranza cerca gratificazioni immediate, il facile consenso nel numero dei like, nel culto della macchina, intesa come status symbol, nel carnet di conquiste femminili esibite agli amici come trofei di caccia. Probabilmente i valori più importanti da promuovere oggi sono il rispetto per l'ambiente, il rispetto per la dignità umana, la capacità di vivere qui ed ora. Rispetto a quest'ultimo principio c'è da ricordare che molti vivono talmente immersi nel virtuale da non saper più godere il reale. Ma come dice la filosofa Ilaria Gaspari in una intervista chi si ferma a fotografare la luna ritorna a casa con una fotografia che non rende la bellezza della luna vista e vissuta realmente. Chi fa delle foto in pizzeria per metterle sui social difficilmente si gode il momento. Ritornando alla moralità degli italiani questa si è sempre distinta tra etica pubblica e moralità privata. Ancora oggi si pensa che un politico dovrebbe essere di specchiata moralità e spesso con questa espressione si sottintende che non abbia mai avuto scandali sessuali, che rispetti la morale sessuale corrente. Molti pensano ancora oggi che senza un'adeguata condotta morale non si possa essere buoni politici. In realtà abbiamo avuto uomini politici corrotti che erano irreprensibili mariti e padri di famiglia, ma forse erano altri tempi. Forse alcuni politici allora scelsero deliberatamente il compromesso come male minore. A onore del vero in Italia oggi la reputazione è fatta da molta ipocrisia e perbenismo, perdendo di visto l'onestà, la lealtà, la correttezza, l'incorruttibilità, l'affetto, il rispetto reciproco, mentre invece ancora oggi ipettegolezzi pruriginosi hanno la meglio.
gen 212023
Non tutto ciò che è terapeutico diventa ufficialmente psicoterapico. Solo nel 1961 Boris Levinson definì il cane come "coterapeuta" ad esempio. Eppure i benefici degli animali domestici erano noti da millenni. Ma solo con la pet therapy sono stati, per così dire, istituzionalizzati a livello psicologico. Allo stesso modo non tutti i disturbi psichici dell'umanità sono classificati nel DSM. Ogni volta il manuale viene aggiornato e spuntano fuori nuove sindromi. D'altronde la natura umana è la stessa, ma l'ambiente, gli artefatti, il modo di ambientarsi a essi sono sempre nuovi. Lo stesso disturbo psichico inoltre può essere diagnosticato in modi diversi a seconda della cultura di appartenenza dello psicologo. A dirla tutta neanche tutto ciò che è psicoterapico ha proprietà terapeutica: talvolta per la scarsa ricettività del paziente, talvolta per la scarsa efficacia del curatore o della cura. Spesso le persone usano gli psicofarmaci perché come dicevano gli analisti un tempo almeno questi inibiscono il sintomo, anche se non eliminano il problema psicologico. Prima di continuare su questa falsariga espliciterò alcune mie convinzioni: tutti avremmo bisogno di uno psicologo, anche gli stessi terapeuti avrebbero tutti bisogno di un supervisore, per una buona salute mentale pubblica. Per quanto riguarda i benefici interiori dell'umanesimo possiamo citare tre pratiche psicologiche abbastanza recenti: la biblioterapia, la psicosintesi di Assagioli, l'arteterapia. Per chi volesse approfondire la biblioterapia consiglio di leggere i due libri dello scrittore Miro Silvera, editi entrambi da Salani. In questo caso il terapeuta consiglia di leggere dei volumi per far acquisire una maggiore autoconsapevolezza ai pazienti. Esiste catarsi e beneficio psichico sia nella fruizione di opere d'arte che nell'esprimersi artisticamente. Male che vada anche il più goffo tentativo di esprimersi artisticamente è un modo per conoscersi meglio, per una migliore esplorazione di sé. La psicosintesi di Assagioli prevede anche lo scrivere un diario interiore perché l'io raggiunga il Sé transpersonale. Scrivere per Assagioli è un modo efficace per conoscere le proprie subpersonalità, per approdare a ogni tipo di inconscio, anche quello individuale superiore, fatto di simboli, e anche quello collettivo, costituito da archetipi. Secondo Assagioli esiste un inconscio inferiore, quello freudiano, un inconscio medio, costituito dalla razionalità, e uno superiore, sede della creatività. Secondo lo schema psichico o diagramma dell'ovoide di Assagioli tutte le istanze psichiche sono comunicanti, esiste un continuo interscambio tra conscio e inconscio: ecco perché le linee che collegano i vari nuclei psichici sono tratteggiate nella figura. Il diagramma dell'ovoide è fondamentale perché l'individuo compia il suo percorso di individuazione. Ma ancor prima del geniale Assagioli, considerato dallo stesso Jung e ideatore di una delle più importanti scuole di psicoterapie italiane, era nota a molti la scrittura come autoterapia. Così come l'arteterapia era già nota agli antichi greci. Le tragedie greche avevano un effetto catartico collettivo. Per quanto riguarda l'arteterapia si sono diffuse molto la musicoterapia e la teatroterapia. Fondamentale per questa scuola è la figura carismatica dello psicoterapeuta, che dovrebbe essere anche un artista a tutti gli effetti. Invece molto spesso non lo è e conosce solo teoricamente senza averle sperimentate di persona le tappe del processo creativo. Ci sono tanti presunti professionisti che in realtà sono improvvisati. Così facendo, i pazienti/discenti sono allo sbaraglio. Però sgombriamo il campo da ogni equivoco: i pazienti non devono avere aspettative troppo elevate e pensare di guarire completamente con queste pratiche psicologiche o di diventare artisti a tutti gli effetti. In definitiva l'arte non ha salvato tutti gli artisti. Molti hanno dovuto convivere malamente lo stesso con la loro nevrosi o psicosi. I suicidi tra gli artisti sono ricorrenti. Lo stesso psicodramma di Moreno può risultare davvero terapeutico e formativo perché è il cosiddetto teatro della spontaneità, è un'occasione di incontro. Con lo psicodramma avevano luogo molte trasformazioni e molte rivoluzioni interiori: questo spaventava i dittatori sudamericani che infatti lo proibirono. Anche i cosiddetti libri di filosofia pratica possono farci evolvere interiormente e aiutarci nel nostro cammino. La consulenza filosofica può aiutare, tant'è che in America è diffusa. Un'ultima cosa: perché queste pratiche psicologiche facciano effetto bisogna che la persona creda veramente in chi la guida, in quello che sta facendo e nei benefici interiori dell'umanesimo. Una volta consigliai a un amico depresso, che era stato lasciato dalla ragazza, tre libri: Lettera alla madre sulla felicità di Alberto Bevilacqua, La conquista della felicità di Bertrand Russell, E liberaci dal male oscuro di Cassano. I primi due libri erano umanistici. Il terzo era sulla depressione ed era scritto da uno psichiatra. Ebbene non li apprezzò. Non stimava me né quegli autori e credeva, avendo una formazione scientifica, che l'umanesimo fosse un'enorme perdita di tempo. Invece anche i libri possono essere antidepressivi. Anche queste scuole psicoterapiche fanno parte della terapia della parola. Anche i libri possono cambiare e migliorare a lungo termine la nostra neurochimica. Per quanto riguarda esprimersi artisticamente allo stesso modo ogni sintomo può diventare un simbolo. Le recenti scuole psicoterapiche suddette comunque non hanno influenzato ancora la letteratura, come fece a suo tempo la psicoanalisi, con Virginia Woolf, Kafka, Joyce, Svevo, Moravia, Gadda. In poesia in fondo gli automatismi psichici dei surrealisti e il paroliberismo dei futuristi scaturiscono dalle libere associazioni freudiane, così come i monologhi interiori e i flussi di coscienza di tanti scrittori derivano dalla scuola psicoanalitica. La psicosintesi, la biblioterapia, l'arteterapia non hanno fatto altro che confermare conoscenze già note agli umanisti, pur non sottovalutando l'apporto significativo di questi maestri di pensiero. Freud invece è stato un grande innovatore e grazie a lui gli artisti hanno iniziato a esplorare l'inconscio in modo mai così approfondito, anzi prima della psicoanalisi molti lo rimuovevano. Perché un'opera sia veramente artistica, secondo il diagramma dell'ovoide di Assagioli, l'io deve approdare al Sé transpersonale, almeno in modo parziale e provvisorio, e anche all'incontro collettivo, anche esso in modo almeno parziale e provvisorio: un'opera artistica quindi si caratterizza prima di tutto per la sua universalità a livello psichico. Dispiace che la letteratura difficilmente sia mitopoietica, ovvero non crei più miti, grazie a cui si potevano fissare degli archetipi nella psiche dei fruitori. I greci avevano il nichilismo, ovvero la concezione secondo cui persone e cose sono nel niente, esistono nel divenire e poi ritornano nel niente, ma avevano anche una letteratura mitopoietica, che trasmetteva dei valori perché in ogni mito c'era un principio etico e ogni favola aveva una sua morale. Questo era l'antidoto efficace al nichilismo. Oggi solo il cinema in parte è mitopoietico, ma più che miti spesso lo show-business crea mode e idoli di celluloide, che dopo qualche mese vengono sostituiti e fagocitati. Oltre ad avere un bombardamento pornografico e un bombardamento di notizie l'uomo contemporaneo è bombardato da miti di ogni genere di brevissima durata.
gen 132023
Il limite può essere inteso come mancanza, difetto oppure come confine. Ai tempi dell'università pensavo ingenuamente che uno dei modi di superare il nichilismo fosse creare una metafisica dei limiti, che io avevo chiamato limitismo, ovvero riconoscimento dei limiti fisici, ontologici, conoscitivi, esistenziali della specie umana. D'accordo ci sono senza ombra di dubbio dei modi più efficaci per sconfiggere il nichilismo, per combattere quello che Junger e Heidegger chiamavano il "Leviatano": una letteratura mitopoietica, ritornare a Parmenide, credere in Dio. La verità è che allo stato attuale delle conoscenze nessuno può stabilire con esattezza questi limiti. L'uomo ha dei limiti? Nessuno lo sa con certezza. C'è un limite nell'aspettativa di vita? Non si può campare più di 120 anni? Oppure può essere sconfitto l'invecchiamento e si può diventare immortali? Nessuno sa cosa sarà la vita umana e cosa sarà l'uomo in futuro. La scienza ha dei limiti? Forse oggi si può stabilire con maggiore accuratezza i limiti metodologici di una disciplina, ma anche questa è una conoscenza provvisoria. Chomsky sostiene che se nessuno ha mai dimostrato in modo semplice l'ultimo teorema di Fermat, come pensava di aver fatto il celebre matematico, vuol dire che forse la mente umana non è fatta per questo ma significa anche che sappiamo risolvere altri problemi. Esiste quindi una sorta di meccanismo di compensazione. Può benissimo darsi -scrive Chomsky- che un extraterrestre con una struttura mentale diversa dimostri subito l'ultimo teorema di Fermat senza alcuna difficoltà. Non esiste una stima oggettiva e certa delle capacità intellettive. Kant originariamente aveva chiamato la Critica della Ragion Pura “Limiti della Sensibilità e dell’Intelletto”. Non per criticare il grande genio di Kant ma nessuno sa stabilire il sostrato noumenico, irraggiungibile per la mente umana. Sappiamo che la nostra mente ha dei limiti empirici nel percepire il nulla e l'infinito, gli "interminati spazi", i "sovrumani silenzi" leopardiani. Sempre per riprendere "L'infinito" di Leopardi noi miseri esseri umani possiamo percepire l'indefinito e mai cogliere pienamente l'infinito. La differenza nel celebre capolavoro sta tutta nel pronome dimostrativo: l'infinito è "di là di quella" (siepe), mentre l'indefinito viene nominato con "questo mare", "quest'uomo colle", "queste piante". Perfino "quest'immensità" deve intendersi come percepita soggettivamente e non come ciò che è illimitato in modo assoluto, come al di là di un confine oggettivo ad esempio. Abbiamo quindi dei limiti certi oppure possiamo sempre superarci? Forse la vita umana è come la dialettica hegeliana e consiste tutta in una serie progressiva di autosuperamenti nel migliore dei casi. Una cosa è certa: nessuno sa definire i limiti propri, mentre è assolutamente certo di identificare quelli altrui. A tutti sembra così facile dire quali sono i limiti mentali altrui. La verità è che nessuno può stabilirlo.

Un tempo gli psicologi ritenevano che le attitudini fossero stabili per tutta la vita. Ma è una concezione datata. Non è assolutamente così. Si può perdere dei punti o acquistarli, intellettivamente parlando. Un tempo pensavano che il Q.I fosse stabile. Un tempo nei "Cinque libri del sapere" trovai un grafico in cui per ogni professione c'era il Q.I necessario per esercitarla. Non è così semplice. È una concezione retrograda. È vero che esistono delle professioni cosiddette intellettuali, ma è difficile stabilire il livello intellettivo: si può solo stabilire approssimativamente il livello culturale. Esistono i falsi positivi e i falsi negativi in ogni test che si rispetti, anche nei test d'intelligenza. Come ne "Il cavaliere inesistente" di Calvino esistono dei Gurdulù che dovrebbero avere tutti i requisiti per essere validi, non essendolo, e degli Agilulfo, che non avrebbero modo di esistere e invece sono validi. L'intelligenza di una persona può migliorare o peggiorare, ammesso e non concesso che si riesca a definire in modo univoco che cosa sia l'intelligenza umana. I neurologi e i neuropsicologi hanno scoperto recentemente molte prove della neuroplasticità umana. Tutto sta nell'applicarsi con costanza e impegno, nel versarsi in una materia. Stabilire dei limiti così come cercare di rintracciare delle potenzialità inespresse talvolta è cosa soggettiva. Se non capisci una cosa oggi puoi sempre capirla domani, se spiegata o approcciata in modo diverso. Alcune cose non è assolutamente necessario saperle. Se non sei un fisico non è importante sapere come funziona l'interferometro. Importante è che tu sappia per un minimo di cultura generale che con esso sia stato dimostrato che l'etere non esisteva, che la relatività galileiana non valeva per la luce e che da quell'esperimento fallimentare Einstein capì che la luce aveva velocità costante, uno dei capisaldi della sua teoria della relatività. A volte basta sapere l'abc. Altre volte però è necessario approfondire. A volte la mancanza di apprendimento sta nel discente che non capisce ma talvolta anche nel docente che non si sa spiegare bene, che salta dei passaggi, che dà alcune nozioni per scontate. Se uno è genitore non deve credere in modo totale agli insegnanti che dicono che suo figlio è un genio oppure uno duro di comprendonio. Valutare le capacità cognitive è una cosa molto difficile e probabilmente i test di intelligenza non è detto che misurino l'intelligenza, come pensava alla fine della vita Cattell. Poi il giudizio degli insegnanti può essere errato e basato su delle distorsioni cognitive. Ci possono essere allievi sottostimati e altri sovrastimati. Però molti insegnanti spesso in perfetta buona fede credono di poter stabilire con certezza assoluta le capacità dei loro allievi. Sempre in perfetta buona fede alcuni insegnanti decidono in modo negativo il futuro dei loro allievi o almeno li condizionano in modo negativo. Alcuni insegnanti pensano di poter valutare l'intelligenza dei loro alunni in base alle competenze acquisite e in base all'esperienza. Tutto ciò può invece portare a formulare giudizi totalmente errati. Un insegnante non può stabilire con esattezza le abilità, l'impegno, la motivazione, il grado di sviluppo fisico e cerebrale di un adolescente ad esempio. Basarsi sull'esperienza può essere fallace. I test di intelligenza prima di essere validati ufficialmente vengono prima sottoposti a decine e a volte a centinaia di migliaia di soggetti. Nonostante questa standardizzazione di massa i test sono ancora criticabili e considerati perfettibili. Immaginiamoci quanto è poco attendibile l'esperienza di un insegnante, basata su un numero limitato di casi! Lo studio delle capacità intellettive è forse ancora agli albori. Il grande psicologo comportamentista Watson sosteneva che tutto dipendeva dall'ambiente e che se gli avessero dato da educare dei bambini li avrebbe fatti diventare quel che lui volesse: scienziati, scrittori, impiegati, operai, eccetera eccetera. Mi fanno ridere alcuni che credono di non avere limiti. Ma mi fanno ridere anche alcuni che fanno la predica a altri, dicendo che devono riconoscere i propri limiti. Se una cosa non ti riesce ora può darsi che ti riesca domani. Nessuno può stabilire con esattezza il motivo per cui non ti riesce: può essere ansia, mancanza di capacità, mancanza di interesse, mancanza di impegno, inesperienza oppure un insieme di tutti questi fattori. Non porsi limiti significa proiettarsi all'infinito, avere una fiducia smisurata delle proprie qualità: questo è troppo, bisogna sapersi fermare, bisogna saper circoscrivere la nostra sfera di competenza, nessuno può diventare onnisciente. Ma è sbagliato anche rinunciare a molto, dire troppi no, non provarci, dire troppe volte "non posso", "non ci riesco", "non ce la farò mai". Esiste un settore della psicologia chiamato "crescita personale" in cui i coach propongono ai clienti/pazienti di superare ogni tipo di limite mentale, da loro stessi definito "blocco mentale". Diffidate di questo tipo di psicologia troppo spicciola e motivazionale: non è tutto così facile, spesso è solo un modo per spillare soldi e fare business. Ritornando alle abilità, se un compito non ci riesce la prima volta che ci viene presentato può diventare più facile le volte dopo perché più familiare. Spesso l'esperienza e l'abitudine giocano un ruolo fondamentale. Tutto sta nel non abbattersi e nel non mollare troppo presto la spugna. A ogni modo nel valutare le capacità proprie e altrui bisogna essere sempre possibilisti.
gen 032023 
Georgios Katsantonis, nato a Patrasso nel 1987, è studioso di teatro e letteratura.Si è laureato in Studi Teatrali presso l’Università degli Studi di Patrasso (Grecia) portando a termine un percorso completamente strutturato sulla drammaturgia europea, antica, moderna e contemporanea. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Letterature e Filologie Moderne con lode presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha conseguito il Master in Letteratura, Scrittura e Critica teatrale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Questo libro ha vinto la XXXVII del premio Pier Paolo Pasolini come tesi di dottorato. Tra le motivazioni si parla di un'opera contrassegnata da un "notevole spessore culturale", in grado di fare accostamenti non comuni, di collegare le opere di Pasolini al pensiero di Deleuze sul masochismo, alle riflessioni sul potere di Foucault e di Spinoza, alla concezione degli animali di Derrida.
L'analisi condotta studia i seguenti temi: 1) il corpo in preda al desiderio sadomasochistico (Orgia ), 2) la zooerastia (Porcile ), 3) il corpo recluso tra scissione e visionarietà (Calderón ).
Ma allo stesso tempo c'è anche un'ulteriore analisi: l’erotizzazione del fascismo (Orgia), la fine della polis (Porcile), la società intesa come un mondo concentrazionario, come il Lager (Calderón). L'autore riesce a scorgere un "fil rouge" nelle opere pasoliniane Orgia, Porcile, Calderón. Il saggio è un'eccellente analisi interdisciplinare e comparata in grado di cogliere nessi originali senza mai forzare troppo la mano. Katsantonis è in grado di fare collegamenti mai rilevati con pertinenza, acutezza, rigore filologico, senso critico assolutamente fuori del comune. Originalissima l'idea di non trattare del potere istituzionale come hanno fatto Weber, Parsons, Machiavelli, Pareto, etc etc. Piuttosto il potere è analizzato anche da un punto di vista antropologico e psicosessuale. È studiato, per dirla alla Foucault, sia il micropotere (le dinamiche psicologiche per esempio) che il macropotere; inoltre l'autore molto intelligentemente fa capire che per Pasolini l'immaginario collettivo è già omologato totalmente. Un'altra caratteristica innovativa del saggio è che altri hanno descritto il masochismo morale freudiano o il masochismo politico (come Bruno Moroncini) in Pasolini, ma Katsantonis come nessun altro riesce a scrivere del sadomaschismo pasoliniano come filosofia, come estetismo, infine come vera ragione di vita. Suo cugino Nico Naldini aveva scritto in “Come non ci si difende dai ricordi”: “Da tempo Pasolini aveva adottato il sadomasochismo anche con rituali feticistici: le corde per farsi legare e così immobilizzato in una sorta di scena sacrificale farsi percuotere fino allo svenimento. Non ne aveva mai fatto mistero, sia nelle ultime poesie, sia in quelle giovanili dove si era raffigurato come Cristo-giovinetta nel martirio della Croce”.
L'opera è densa, ma mai troppo concettosa; è un lavoro accademico, ma trascende lo specialismo; inoltre non è mai oracolare ed è provvisto di chiarezza espositiva. Il libro è suddiviso in tre capitoli. Nel primo viene accostata Orgia di Pasolini con La filosofia del boudoir di Sade. Il boudoir è un luogo situato tra il soggiorno e la camera da letto, per intenderci. Viene analizzato il corpo come vittima e la corporeità come assoggettata al potere; vengono considerate la dicotomia dolore/piacere, il passaggio dal culto religioso al culto feticista, la donna seduttrice in Sade, la questione femminile nelle opere pasoliniane. Viene messo in evidenza che per Sade la vera schiavitù è l'accettazione della morale. Per quanto riguarda la questione femminile per Pasolini le donne erano "vittime e marionette" nelle mani del sistema, ma a livello autoriale probabilmente trascendeva i suoi limiti come uomo, che amava solo la madre e vedeva nelle altre donne delle rivali troppo emancipate, che gli rubavano i ragazzi di vita: forse nell'intimità Pasolini, come ebbe a dire Dacia Maraini, era moralista con tutti tranne che con sé stesso. Il capitalismo viene considerato da Pasolini come nuova religione. Viene citata anche l'ideologia del consumismo, il cosiddetto edonismo neo-laico. Per Pasolini "il sadomaso è soppressione di ogni limite", andare oltre i propri limiti, cercare di non porseli. Questo saggio ha una grande forza dialettica ed è in grado di far riflettere qualsiasi lettore, anche quello meno creativo. Se forse c'è un discrimine tra sadomaso come patologia e trasgressivo gioco di ruolo nell'ambito della normalità è la conoscenza dei propri limiti e non superarli. Per Pasolini invece il sadomasochismo forse era una via per il martirio. Non a caso il titolo della tesi di dottorato era "Drammaturgia del corpo patetico" pasoliniano. Viene da chiedersi se è lecita la libertà di opprimere o di essere schiavi. Il sadomasochismo per Pasolini era l'unica valvola di sfogo, l'unico modo di avere piacere in questa società. Katsantonis ottimamente evidenzia la distinzione tra godimento e piacere, sottolineando il sadomasochismo pasoliniano come impasto di Eros e Thanatos. Per Pasolini soffrire significava uscire da sé per poi ritrovarsi. L'autore dà per scontato naturalmente che sia Pasolini che Sade sono dei nichilisti attivi, cioè vogliono distruggere la morale comune e la borghesia perché poi qualcuno in futuro ricrei una nuova società. Il sadomasochismo pasoliniano, come evidenziato nel saggio, è espressione della volontà di potenza neo-capitalistica. Pasolini vorrebbe andare contro, ma anche lui deve comunque adattarsi alla società. Se per Karl Kraus "le perversioni sono metafore dell'amore" nelle opere di Pasolini il sadomasochismo è al contempo metafora e metonimia del fascismo.
Le pagine di questo bel libro generano molti dubbi e questo è naturalmente un merito del saggista. Forse uno dei limiti intrinseci di Sade e Pasolini è stato quello di aver dato sfogo a tutte le loro fantasie, di aver detto l'indicibile, di aver rappresentato l'impresentabile, ma a forza di eccessi si sono discostati troppo dalla realtà umana, in cui invece i sadomasochisti comuni si pongono delle restrizioni per disgusto, per morale, per dolore. In una delle lettere Sade alla moglie scriveva: «Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino». Un ottimo saggio come questo, bello corposo ed esauriente, porta a fare delle riflessioni e suscita molti interrogativi.
In Pasolini e in Sade il sadomaso è anaffettivo, non è mai in funzione dell'amare e dell'essere amati, del soddisfare o dell'essere soddisfatti. Inoltre in Pasolini e in Sade non viene mai pronunciato alcun "i can't" dagli schiavi, come di fatto in pratica avviene. Viene da chiedersi se si può davvero liberarsi della morale come in Pasolini e in Sade oppure se restano sempre dei residui atavici, magari sotto forma di sensi di colpa. Ma bisogna ricordare anche che il sadomasochismo pasoliniano scaturisce dalle limitazioni delle rappresentazioni del sesso all'epoca. Come scriveva Pasolini in "Le belle bandiere": "Io cerco di creare un linguaggio che metta in crisi l'uomo medio, nei suoi rapporti con il linguaggio dei mass media, per esempio".
Nel secondo capitolo viene studiata Porcile. Vengono messi in relazione il nazifascismo e il nuovo capitalismo. Non è un caso che i vecchi ex nazisti nel dopoguerra in America vennero messi ai vertici dei servizi segreti. Viene descritto il carattere di alterità del protagonista Julian. Spinoza discute con Julian della sua Etica, ma alla fine il filosofo abiura la sua opera perché ha prodotto come umanista il padre del protagonista e come tecnocrate il suo socio. Spinoza ammette che la Ragione è sempre ragione del più forte. L'autore sottolinea che per Pasolini la società capitalistica è un macello per uomini e animali. La domanda che sorge spontanea è quale sia il porcile vero? Quello di Julian o quello della società là fuori? Vengono citati anche Derrida, Deleuzee, Guatari, Artaud e il suo corpo senza organi. Nel terzo capitolo vengono paragonati il Calderón di Pasolini, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Un sogno di Strindberg. Vengono analizzate la prima Rosaria e l'incesto, la Rosaria prostituta, quella sottoproletaria, quella medioborghese, infine quella prigioniera di un lager. La protagonista è succube del Potere: "obbedisce senza essere obbediente" in un ribellismo confuso ed è al contempo un "vaso semivuoto da riempire con il Bene borghese". Compare anche Enrique, studente sessantottino, che chiede asilo a casa dei borghesi. Ancora l'autore rimarca che tra il corpo e il potere c'è di mezzo un immaginario omologato. Viene da chiedere se ci sia un confine netto tra sogno e realtà. Non solo ma viene descritto "il concentrazionamento del mondo". L'autore dimostra tutta la sua cultura citando l'istituzione totale di Goffman, autore conosciuto dai sociologi in Italia più per il suo rituale dell'interazione e per la perdita di faccia. Bisogna ricordare però che anche nel 1960 Bruno Bettellheim nel Prezzo della vita aveva paragonato la società capitalistica a un sistema totalitario e nel 1964 Paul Goodman in La gioventù assurda aveva paragonato la civiltà dei suoi tempi a una corsa dei topi in una stanza chiusa. Ma perché Pasolini vedeva nel neo-capitalismo un inferno terreno? Una coscienza politica non era possibile perché la televisione aveva imposto l'ideologia del consumo. Ciò che preoccupava Pasolini non era il centralismo dello stato né le istituzioni repressive ma il neolaicismo imperante e il nuovo edonismo propinato dai mass media. Aveva già capito che la televisione era un agente di socializzazione, capace di influenzare con i suoi messaggi le idee delle persone e dunque era anche la causa primaria dell'omologazione, grazie a cui il potere produceva una standardizzazione dell'immaginario. I giovani di borgata avevano iniziato a vestirsi, a comportarsi e a pensare come "i figli di papà": non era più possibile distinguere un proletario da un borghese oppure un comunista da un fascista. Questo era frutto della "mutazione antropologica", termine preso a prestito dalla biologia. La mutazione genetica in biologia è determinata prima dalla variazione e quindi dalla fissazione di alcuni caratteri. Nel caso della "mutazione antropologica" la variazione delle mode e degli stili di vita era decisa nei consigli di amministrazione delle reti televisive e poi fissata con i messaggi subliminali della pubblicità. Pasolini sapeva perfettamente che i codici imposti dalla televisione diventavano subito comportamenti collettivi. La sottocultura di massa diventava interclassista. Tutti aspiravano agli stessi status symbol. Non si trattava più di appagare semplicemente dei desideri. Il nuovo uomo di massa doveva soddisfare dei falsi bisogni. I disvalori del consumismo nel giro di pochi anni impoveriranno l'Italia. Già allora stavano scomparendo le tradizioni di un tempo. Già allora non esistevano più le classi sociali. Tutti ormai erano diventati piccolo-borghesi. Infine è creativo davvero l'accostamento in Pasolini, Calderón de la Barca e Strindberg nel ritenere la nascita una colpa. Dopo questo eccellente saggio viene da chiedersi se Pasolini, che considerava il potere come dominatore del corpo e della sessualità sia datato, se forse aveva ragione Marcuse con la sua desublimazione repressiva: il potere che concede libertà sessuale per ridurre le probabilità di critica e rivoluzione. Quindi in definitiva un saggio da leggere assolutamente. Una lettura critica di questo lavoro è doverosa per pasoliniani e profani, insomma per tutti.
dic 272022

Queste riflessioni sono scontate. Sono i piccoli pensieri quotidiani di un umarell, che giorno dopo giorno guarda come procedono i lavori della ristrutturazione dell'ecomostro davanti casa. Questi lavori sono fatti a circa duecento metri da casa mia e non mi disturbano per niente. Non sento i rumori. Non ho problemi con la polvere. Prendo il caffè in cucina e mi metto a riflettere. Guardo fuori dalla finestra. Anche questo è un modo di passare il tempo. Ogni cosa ha il suo tempo e ogni tempo ha le sue cose, secondo l'Ecclesiaste. Non sono più giovane. Esco raramente, il minimo indispensabile. Telefono pochissimo. Una telefonata ogni settimana. Eppure da giovane avevo tante amicizie. Ora resta qualche ricordo sbiadito. Gli amici di un tempo li ho persi per strada. Ognuno ha la sua vita. Non voglio essere malinconico. È una semplice constatazione di fatto. Ci sono gli impegni lavorativi, familiari per molti amici. Il tempo libero a disposizione è poco. Ma forse siamo troppo cambiati e non ci sapremmo più veramente riconoscere. Forse le mie sono nostalgie di uno che ha molto tempo da perdere. Forse come dicono banalmente alcuni il senso della vita è vivere. Forse ogni elucubrazione è qualcosa che ci allontana dalla vita stessa. Forse la vita e Dio scelgono come prediletti persone molto semplici e perciò innocenti. Forse molti ragionamenti sono intellettualismi vuoti; sono ciò che Freud chiamava razionalizzazioni, ovvero dei meccanismi di difesa dell'io. Da giovani comunque si cerca di vincere la morte con l'amore, con il sesso. Dirò di più: la morte molto spesso resta sottotraccia. Non ci si pensa. Da adulti avviene una scissione nella psiche. Da una parte il desiderio biogrammatico di immortalità, che alcuni vogliono soddisfare facendo figli oppure cercando la posteritå.

Dall'altra parte come scrisse Totò nella sua celebre 'A livella "Nuje simmo serie, appartenimmo à morte!". Dall'altra parte la rassegnazione che tutti gli uomini appartengono alla morte, per quanto cerchino di divincolarsi invano dalla sua morsa. L'amore sembra vincere la morte, ma anch'esso è destinato a finire. Scrive in una sua poesia Sanguineti: "ho insegnato ai miei figli che mio padre è stato un uomo straordinario:/ [( potranno/ raccontarlo, così, a qualcuno, volendo, nel tempo): e poi, che tutti/ gli uomini sono straordinari:/ e che di un uomo sopravvivono, non so,/ ma dieci frasi, forse ( mettendo tutto insieme: i tic,/ i detti memorabili, i lapsus):/ e questi sono i casi fortunati". Il grande poeta genovese ci ricorda che per quanto ci si sforzi di lasciare una traccia i posteri saranno dormienti, per dirla alla Eraclito. Mi ricordo del Caffè delle giubbe rosse, frequentato decenni fa da Montale, Luzi, Parronchi, Bigongiari, etc etc. Leggevo della Repubblica dei poeti al Mulino di Bazzano negli anni '70, ideata da Adriano Spatola, Corrado Costa, Giulia Niccolai. Leggevo di Pennabilli, un paese ad hoc per la poesia di Tonino Guerra. Cercavo notizie sulla rivista "Prato Pagano" negli anni '80, diretta da Gabriella Sica, a cui collaborarono Claudio Damiani, Arnaldo Colasanti, Silvia Bre. Ebbene alla fine tutto passa. Solo pochi studenti di lettere, pochi studiosi di letteratura, pochi appartenenti alla comunità poetica si ricorderanno di queste belle esperienze poetiche, che meriterebbero di essere ricordate dai più. Ma l'oblio è tiranno. L'oblio cala anche su molti protagonisti dello show-business, del cinema, della musica. C'è poco spazio per le commemorazioni veramente sentite, che non siano una mera passerella di personaggi in cerca di visibilità con i loro perenni "io l'ho conosciuto", "a me una volta confessò", "quando collaborammo assieme", scadendo spesso in un amarcord falso e melenso. Molto probabilmente saranno in tutt'altre faccende affaccendati i posteri, indipendentemente dal fatto che molti morti lascino una cospicua eredità morale, intellettuale, creativa. Da tempo ho accettato il dominio incontrastato dell'oblio. Che se ne fa uno della gloria postuma? E poi è una bella pretesa la posterità: per essere ricordati bisogna aver fatto qualcosa di memorabile. Non solo ma in Italia le culle sono vuote. Gli italiani fanno sempre meno figli. E allora in futuro chi leggerà poeti e scrittori italiani? Quando l'italiano sarà una lingua morta anche la letteratura italiana sarà definitivamente morta o quasi. Ma non siamo catastrofici e non poniamo limiti alla Provvidenza. Per ora in Italia solo nel 2021 sono 85.551 i titoli usciti (il 22% in più rispetto al 2020 e il 16% in più rispetto al 2019). Durante gli anni pandemici l'editoria ha fatturato di più. Certo ci sono moltissime pubblicazioni a pagamento, moltissime copie che finiscono al macero. Non tutti i libri avrebbero ragione di esistere, ma per ogni autore il suo libro deve essere stampato. In fondo la pubblicazione di un libro, seppure a pagamento, in alcuni piccoli paesi di provincia è una sorta di piccola promozione sociale oltre a essere quella che i letterati chiamano una "legittimazione culturale", ovvero se si vuole essere presi in seria considerazione dai critici ci vuole la pubblicazione cartacea. Riviste letterarie, literary blog spuntano come funghi. Certo quando si scrive per il web spesso ci si chiede se anche questo sia tutto inutile, destinato a scomparire nel mare magnum di Internet. Ci sono meno presentazioni di libri ma molte più dirette Facebook. C'è molto fermento. Tutto quindi lascia ben sperare. Roberto Vecchioni nella sua canzone "La stazione di Zima" (ricordando il poeta russo Evtusenko) scrive che "ci facciamo del male perché non ci capiamo niente". Siamo confusi, smarriti di fronte al mistero della vita, dell'amore, della morte. Come scrive in un suo aforisma Morandotti "tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza". La vita è complessa perché fatta a strati molteplici come una cipolla (come Tommaso Landolfi definì la sua opera) e allo stesso tempo ci sono quelli che Guénon chiama gli "stati molteplici dell'essere". Senza pensare al fatto che è sempre ardimentoso prendere coscienza pienamente della nostra coscienza (mi si scusi il gioco di parole, ma rende bene l'idea). La vita è già molto difficile viverla. Capirla è quasi impossibile. Ci sono dei momenti in cui abbiamo delle epifanie e ci sembra di aver afferrato tutto. Ma un istante dopo ritorna l'opacità. Forse non siamo fatti per capire la vita. Eppure ognuno ha le sue certezze in tasca, ha le sue piccole verità, costruite sulla base delle sue conoscenze e della sua esperienza, sempre limitate rispetto alla materia infinita della vita. Sorgono spontanee dal basso delle domande, ma di difficile soluzione, visto che non c'è un comune accordo: alcuni dicono che esistono delle leggi generali nella vita e altri dicono che ognuno è fatto a modo suo e ha la sua storia. Ci chiediamo nel corso della vita che senso abbia tutto, se esista Dio, come relazionare carnalità e spiritualità, come rapportarsi con la morte, come vivere, cosa pensare, come espiare i nostri peccati, se siamo colpevoli, come essere pienamente consapevoli e risponsabili delle nostre azioni. E poi ci chiediamo cosa è rimasto del passato? Dove è finito il passato? Dove si è involato? Siamo qui in questo tempo intermedio e tutto si fa incerto. Abbiamo in testa molti interrogativi, dubbi ed ipotesi. L'amore non va tradotto in senso letterale e non bisogna lasciarsi sopraffare dal nonsenso della morte. Continuiamo però a sbagliare, nonostante avvertenze e controindicazioni sulla vita. Il tempo scorre inesorabile fino al guasto irreparabile per vizio, destino o logorio....Così sarà per quel poco che ci rimane....forse Dio sa solo giudicare e non spiegare le nostre scelte: siamo noi uomini, sospesi tra bisogni primari e cose ultime, il paradosso dei paradossi. Io ultimamente mi chiedo sempre più spesso se qualcosa veramente ci appartiene e se noi veramente apparteniamo a qualcosa di più grande. Non è un caso che per Gadda la realtà fosse uno gnommero e per Montale una matassa che lui non era mai riuscito a sbrogliare. Tutto è un grande mistero se si pensa che ogni vita è un segmento, che talvolta i segmenti si intersecano, che si incontrano oppure che corrono paralleli per sempre. A volte facciamo un tratto di strada assieme a certe persone che poi ci lasceranno o che poi noi lasceremo. Resta qualcosa alla fine? Qualcuno lascerà a noi il testimone? Noi lo lasceremo a qualcuno il testimone? Ci vuole anche del tempismo per saper raccogliere il testimone.

Come ebbi a scrivere in alcuni scarni versicoli qualche anno fa:
Recitiamo un copione o un canovaccio?
Si recita a soggetto? Si naviga a vista?
Oppure forse siamo dei bastoncini disuguali
di Shangai e non sappiamo chi ci ha mischiato
e neanche quali mani supreme ci muovono
e giocano con noi? Le nostre vite sono forse linee
che talvolta si intersecano, talvolta corrono parallele,
talvolta combaciano per tratti più o meno lunghi?
Dal punto di una linea non si può comprendere tutto
questo groviglio inestricabile, questo mondo di linee:
ecco perché forse non si può capire
mai il mistero della nostra vita e di quelle altrui.
Forse non c'è alcuna logica nei nostri istanti.
Troppe le variabili e le variazioni infinitesimali.
In ogni caso è impossibile cogliere tutti i nessi.
Anche se fossimo linee
(regolari, frastagliate o curve chissà?).
il disegno non è lineare e ci trascende.
Sappiamo veramente apprezzare gli altri e gli altri ci sanno veramente apprezzare? Oppure è tutta fatica sprecata? Oppure tutto è destinato a cadere nel vuoto, nel nulla? Qualche filosofo ci insegna che siamo esseri finiti educati all'infinito. Ma forse ogni congettura, ogni simbolo squadernato, ogni mito amato è inutile. Forse niente vince la morte. Forse ogni lavoro, ogni passione è un passatempo per non pensare alla morte, come intuì Pascal. Noi dobbiamo per forza pensare ad altro. Si finisce anche per pensare che il problema è sempre un altro. Allora molti per scongiurare la morte cercano di inebriarsi a più non posso della vita. Il loro è un vitalismo disperato. Spesso però il loro tentativo è goffo e ignari si gettano a capofitto tra le braccia della morte, finendo nel vortice dell'autodistruzione. Il loro più grande rimpianto è sempre quello di non aver vissuto pienamente, di non aver colto adeguatamente tutte le occasioni della vita. Alcuni vorrebbero essere tutto o almeno molto. Finiscono per fare e disfare troppo; finiscono col vivere di eccessi. È molto difficile trovare l'equilibrio tra tutte le istanze psichiche. È molto difficile sapersi accontentare perché bisogna anche sapersi accettare e anche saper rinunciare.
dic 202022

Qualche tempo fa 18 donne denunciarono pubblicamente di essere state molestate da Jean-Claude Arnault, marito dell'accademica Katarina Frostenson. Questo scandalo travolse il premio Nobel per la letteratura. Da allora il Nobel per la letteratura è meno considerato. Negli anni si è molto discusso delle scelte a dir poco opinabili dell'Accademia svedese. Qualcuno riteneva a torto o a ragione che alcuni accademici alzassero il gomito. Ma quale scrittore può vincere il Nobel? Quali sono i requisiti? Ebbene chiunque abbia dato in termini generici "considerevoli benefici all’umanità” e chi "si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale". Ci sono sempre molte diatribe e polemiche riguardo al Nobel per la letteratura. Fortunatamente per ora nessuno si può autocandidare, ma nonostante ciò ci sono molte associazioni culturali, molte accademie di paesini sperduti che candidano al Nobel i loro preferiti. Certe candidature non sono minimamente credibili, ma certi personaggi in questo modo possono fregiarsi dell'etichetta "candidato al Nobel per la letteratura". Sicuramente per alcuni autori il Nobel è un'ossessione. Non sempre la candidatura viene fatta con cognizione di causa, a ragion veduta. Lo stesso Licio Gelli venne candidato al Nobel per la letteratura. L'associazione in teoria deve essere rispettabile e riconosciuta. Detto in termini più appropriati, deve essere selezionata dal comitato del premio Nobel per la letteratura. In Italia l'istituzione più seria in questo senso è l'Accademia nazionale dei Lincei, ma va bene anche il Pen Club. Dopo che è stato reso noto il nome del vincitore nei circoli letterari scaturiscono molte polemiche. Quando l'autore è sconosciuto ci si chiede chi sia questo carneade e molti pensano che sia dovuto a una ragione prettamente politica: alcuni sterili polemisti dicono per esempio che lo hanno scelto perché africano oppure perché oppresso ed esiliato, non per merito o bravura. A onor del vero le minoranze sono sottorappresentate. Pochi africani hanno vinto. Per non parlare degli scrittori asiatici. In compenso l'Europa può vantare un grande numero di vittorie. Niente contro la letteratura francese, certamente di grande tradizione, ma che dire delle sue 15 vittorie? E che delle 12 vittorie degli Stati Uniti? E che dire delle 8 vittorie della Svezia? E che dire del fatto che i cinesi sono 1 miliardo e 400000 ma solo due scrittori cinesi hanno vinto? Ci sono molte controversie. Innanzitutto come ha avuto modo di interrogarsi il poeta Luca Alvino: come mai per altre discipline il Nobel può avere vari vincitori mentre in letteratura no? Forse premiare più scrittori nello stesso anno significherebbe scrivere più motivazioni e ciò potrebbe apparire paradossale? Oppure bisognerebbe scegliere più scrittori e motivare le scelte con la stessa motivazione? Ma esiste una motivazione valida per più premiati? Andiamo oltre. Due volte è stato rifiutato il premio: da Pasternàk e da Sartre. Ci furono polemiche anche per il Nobel attribuito a Bob Dylan. Qualcuno sostenne che avevano dato il premio a un cantante, come se il grande menestrello fosse un semplice cantante.

Polemiche tutte nostrane ci furono per il Nobel a Dario Fo. Allora alcuni dissero che era stato premiato un buffone, mentre il poeta fiorentino Mario Luzi aveva subito una grave ingiustizia. Luzi certamente era un professore universitario stimabilissimo e allora veniva considerato il più grande poeta del mondo. Il poeta fiorentino aveva scritto capolavori come "Nel magma". Evitando l'effimero e cercando l'eterno non scadeva mai nel patetico, come ebbe a scrivere Carlo Bo. Giuseppe De Robertis scriveva che le sue poesie erano "un continuo parlare a sé, all'anima, o a persona vicina e compagna di vita". Luzi spiccava per la sua espressività, per il suo simbolismo, per la sua vita interiore così ricca, infine per il suo spessore culturale. Le sue opere si contraddistinguevano per gli endecasillabi canonici, per le analogie mai scontate. Luzi diceva a tutti che c'era sempre qualcosa di ermetico nel reale, un quid enigmatico e sfuggente. La sua condizione esistenziale assumeva una forma universale. L'animo umano compenetrava il paesaggio e viceversa, non a caso "l'albero di dolore" scuoteva "i rami". Era tutto teso a cogliere i propri moti dell'animo e al contempo "l'immobilità del mutamento". "Nel magma" si poteva rintracciare la sua più alta espressione per i fitti dialoghi, per gli interrogativi esistenziali, per la commistione felice di percezione e filosofia, per essere un libro sapienziale, proprio come alcune opere dell'Antico Testamento. Per chi volesse approfondire la conoscenza del poeta fiorentino è consigliabile leggere "Saggio su Mario Luzi" di Anna Panicali (Garzanti editore). Però pochi leggono Luzi. È sempre stato di nicchia, come moltissimi poeti. Pochi avevano letto la sua opera omnia, come fecero Carlo Azeglio Ciampi e sua moglie Franca, che passarono una notte intera a rileggere i suoi versi prima di nominarlo senatore a vita. Ma anche il sottovalutato Dario Fo non era da meno: aveva utilizzato il Grammelot in "Mistero buffo", aveva portato in teatro e fatto conoscere ai più Ruzzante. Certo politicamente poteva essere divisivo: era un uomo schierato e aveva difeso a spada tratta Adriano Sofri, che la Corte di Cassazione aveva condannato come mandante dell'omicidio Calabresi. L'Italia era spaccata in due tra innocentisti e colpevolisti a riguardo. A ogni modo Fo aveva molti meriti e alcuni lo definivano un giullare di Dio. Chi ha una certa età si ricorderà che gli fu comunicata la vittoria quando era in macchina con Ambra Angiolini, con cui festeggiò. L'Italia, per quanto non sia una nazione importante politicamente e la cui lingua sia parlata relativamente da poche persone, ha vinto il premio ben 6 volte con Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale, Fo. Certamente ci furono delle polemiche per i Nobel alla Deledda e a Quasimodo perché alcuni letterati non li consideravano meritevoli, non li ritenevano all'altezza. Invece un gigante come Ungaretti non lo vinse mai. Lo stesso vale per Pascoli.

Alda Merini fu candidata ma non lo vinse. Aveva descritto l'inferno dei manicomi, la povertà, il disagio psicologico come nessuno. Il suo genio fu ripagato con l'indifferenza: fu sempre senza lavoro e fu sempre a corto di soldi. Gli italiani dimostrarono di non avere gratitudine e non diedero alcuna solidarietà a una donna così straordinaria, che aveva grande sensibilità. Albino Pierro fu in lizza e la sua candidatura accese i riflettori sulla sua Tursi. Tonino Guerra era ben visto a Stoccolma perché eccellente poeta e inoltre sceneggiatore di Fellini. In un suo celebre componimento scriveva che c'erano persone che da generazioni facevano case e non possedevano una casa. In pochi ma memorabili versi c'era tutta l'ingiustizia capitalista, l'iniqua distribuzione della ricchezza. Anche Alberto Bevilacqua fu candidato, ma da alcuni era ritenuto troppo commerciale, troppo presenzialista in TV. Comunque forse la vera ragione era che non gli perdonavano libri come "La califfa", in cui un'operaia si innamora del padrone, e "La polvere sull'erba", in cui trattava degli omicidi nel triangolo della morte nell'immediato dopoguerra. Pasolini se non fosse stato massacrato sarebbe stato in lizza per il Nobel. Ma il potere gliela fece pagare per i suoi Scritti corsari. Non lo colpì per la sua diversità, ma tramite la sua diversità. Lo colpì nel suo punto debole in una delle sue notti brave. Anche Zanzotto probabilmente fu uno dei papabili per la vittoria. Tra i suoi meriti quello di aver diffuso il dialetto veneto, di aver creato quasi dal nulla un nuovo modo di fare poesia, di aver denunciato l'inquinamento e la perdita di identità della sua gente nel cosiddetto mitico Nord-Est. Zanzotto era un poeta estremamente lucido e brillante. Un suo detto memorabile che amava ripetere nelle sue interviste e spiegava tutto sulla sua lirica "Al mondo" era che nella vita bisogna fare come il barone di Munchausen, ovvero bisogna tirarsi fuori dalle sabbie mobili afferrandosi per i capelli. Aveva come difetto il fatto che la sua poesia metteva a dura prova anche i più preparati, ma era allo stesso tempo il segno inequivocabile che con lui si dovesse fare letterariamente i conti. Anche Dacia Maraini fu candidata e non vale la pena soffermarsi perché è una scrittrice davvero celebre. Più recentemente molti avanzarono la candidatura di Claudio Magris per la sua produzione saggistica di elevata qualità e per la sua promozione della letteratura mitteleuropea. Si parlò anche di Roberto Benigni per la divulgazione della Divina Commedia. Qualcuno a onor del vero considerò biasimevole questa scelta. I più esigenti ritenevano che l'esegesi di Benigni fosse inadeguata, approssimativa e in un certo modo improvvisata, se si confrontava alla smisurata preparazione di Vittorio Sermonti. Naturalmente non poteva mancare tra i papabili il grande Umberto Eco, uno dei pochi intellettuali noti in tutto il mondo grazie a "Il nome della rosa". Era uno dei fondatori del gruppo 63 e pochi sanno che fu anche uno degli ideatori del Dams. Oltre a essere un grande scrittore fu un professore universitario, un semiologo, un saggista a tutto tondo. Disquisì su tutto nelle sue Bustine di Minerva per decenni. Scrisse anche un saggio breve di poche pagine su Mike Bongiorno, citato a sproposito da molti che ritenevano avesse scritto un intero libro sul celebre conduttore. Faceva discutere sempre. Per molti era un obbligo culturale comprare il nuovo libro di Eco. Era considerato all'estero uno degli italiani più intelligenti. Per capire l'Italia all'estero chiedevano lumi, interpellevano Umberto Eco. Ma nessuno è perfetto. Anche a lui non vennero risparmiate critiche in patria. Dicevano e scrivevano che era troppo comunista, troppo fazioso. Secondo alcuni era un professore universitario come molti altri, che aveva saputo sfruttare il momento opportuno. Invece in ogni cosa che fece si dimostrò in modo incontestabile molto originale, profondo, estremamente colto. Si parlò anche della candidatura di Roberto Vecchioni, stimato professore, noto cantautore e poi scrittore di alcune opere, pubblicate da Einaudi. Le canzoni di Vecchioni avevano una cifra poetica innegabile, erano pregnanti e piene di riferimenti colti, di rimandi al mondo greco. Vecchioni cantava di Aiace come di Euridice. Fu memorabile un confronto molto acceso alla trasmissione di Lilli Gruber tra Vecchioni e il grande poeta Valerio Magrelli sulla vexata quaestio del Nobel a Dylan. Magrelli rivendicava la superiorità della poesia e sosteneva che la canzone non fosse minimamente paragonabile. Vecchioni ricordava che anticamente le poesie venissero cantate. La questione era già dibattuta e comunque sempre molto controversa. Ricordiamo che è stato candidato a Stoccolma anche il poeta marchigiano Umberto Piersanti, che è autore Einaudi, operatore culturale, saggista, vincitore di prestigiosi premi letterari. Più recentemente è stato candidato al Nobel il professore e poeta Francesco Benozzo, che ha pubblicato tutti i suoi libri con Kolibris edizioni e che suona magistralmente l'arpa mentre canta i suoi versi. Nel 2021 è stato candidato a Stoccolma anche il poeta Guido Oldani, padre del Realismo Terminale. Ma veniamo ai soldi: il premio Nobel ha un grande ritorno economico per la casa editrice con cui pubblica lo scrittore o il poeta premiato. Già il premio Strega è una grande fortuna per un editore. Tutti vogliono comprare i libri dell'autore premiato. Immaginiamoci il premio Nobel oltre al fatto non indifferente che la vincita consiste in circa un milione di euro! A ogni modo gli accademici svedesi hanno fatto molte ingiustizie a livello planetario, non solo per gli italiani. Joyce, Tolstoj, Virginia Woolf, Fitzgerald, Borges, Proust, Nabokov, Roth non vinsero mai il celebre premio. Scorrendo i nomi dei vincitori ci accorgiamo che non necessariamente tutti hanno fatto la storia della letteratura, che talvolta alcuni sono rimasti seminoti. Viene da chiedersi se questo premio possa davvero contribuire alla letteratura, se il prestigio di cui gode è veramente meritato. Probabilmente il Nobel ancora oggi è molto utile a promuovere un autore, una nazione, una causa.
dic 162022

Siamo animali sociali, ma talvolta abbiamo bisogno di stare da soli. La vita oscilla tra questi due poli: socialità e isolamento. Talvolta c'è bisogno di stare da soli, riflettere sulla nostra vita, cercare di capire in quale direzione stiamo andando, farsi un esame di coscienza, come insegnava Ignazio di Loyola. La cosa migliore sarebbe trovare un equilibrio interiore, fondato su una sana alternanza tra questi due poli. La solitudine come la castità è molto più sopportabile se è una libera scelta e non una costrizione, dovuta a ostracismo, a emarginazione sociale. Anche stare troppo a contatto con gli altri può essere snervante, può esaurire. Alcuni lavoratori, che svolgono professioni di aiuto, soffrono di burn out, a forza di stare troppo a contatto col pubblico. Il grande poeta Kavafis scriveva: "E se non hai la vita che desideri cerca di non sprecarla nel troppo commercio con la gente". Si può essere soli perché si ha un problema, si vive una determinata condizione esistenziale, si soffre di un certo disagio. Gli altri però possono essere terapeutici così come possono essere l'inferno secondo Sartre. Filosoficamente qualcuno potrebbe affermare che stare con gli altri ci dà solo l'illusione di sentirsi meno soli, ma anche questa parvenza di convivialità è necessaria. Secondo uno studio del 2013 della Ohio University chi vive solo ha più probabilità di avere anomalie cardiache, di soffrire di depressione, di avere un sistema immunitario meno efficiente.
Oggi viviamo in una società senza comunità nella maggioranza dei casi. Alcuni si sentono soli e dicono che la città in cui vivono non dà loro niente, ma al mondo di oggi forse una città può offrire solo servizi e non sconfiggere la solitudine dei cittadini. Durkheim aveva coniato il termine anomia per indicare il disordine morale, la sensazione di anonimato, la mancanza di solidarietà della civiltà moderna e aveva chiamato anomico il suicidio dovuto proprio a questi fattori. Oggi quindi si è più soli probabilmente di un tempo. Nel mantovano e in provincia di Padova comunque è stato replicato il caso di Villa del Conte per vincere l’isolamento delle persone. Sono stati creati degli assessorati alla solitudine. Nell'antichità la solitudine era ricercata più spesso. Alcuni poeti antichi avevano un ideale di vita solitaria e bucolica. "Beata solitudo" dicevano i latini. Oggi siamo molto più connessi e più soli di un tempo. Gli psicologi chiamano tutto ciò solitudine digitale. Il caso esemplare sono i giovanissimi Hikikomori giapponesi che si rinchiudono tutto il giorno nella loro stanza per stare al computer. Il ritiro sociale è uno dei sintomi della schizofrenia, ma non è assolutamente detto che sia sempre patologico. La propria psiche è come un contenitore che non si può unicamente riempire del mondo o del proprio io. Probabilmente propendere verso il mondo o l'io dipende anche dalla personalità di base, dalla estroversione o introversione di un individuo. Cosa è che può vincere la solitudine? L'amore innanzitutto, poi l'amicizia, il senso di appartenenza a una comunità oppure a una generazione. Ma oggi non esistono più i movimenti studenteschi. Un tempo esisteva una fauna studentesca che apparentemente era lì per il famigerato pezzo di carta da portare ai genitori e poi in realtà reclamava il sacrosanto diritto di divertirsi, acculturarsi al di fuori degli schemi precostituiti, scopare, viaggiare, ballare. Erano stati scritti tre romanzi sulla realtà studentesca rappresentativi delle varie epoche: "Porci con le ali" (anni '70), "Altri libertini" (anni '80) e "Jack Frusciante è uscito dal gruppo" (anni '90). Forse questi romanzi avevano detto tutto sul mondo studentesco italiano. Dopo l'università non era più stata un momento di discussione, che talvolta diventava di scontro ideologico esasperato, ma un vero e proprio esamificio. Dagli anni '90 in poi si avvertiva che l'unica cosa che accomunava la generazione era l'autodistruzione. Si intuiva perfettamente ciò con il libro della Santacroce "Rimini", il primo della serie. Coloro che invece cercano di vincere la solitudine con l'amore possono imbattersi nell'insoddisfazione sessuale, nelle carenze affettive, nella delusione sentimentale. È difficile essere veramente soddisfatti in amore su tutti i fronti. Ci sono amori platonici e rapporti occasionali caratterizzati dall'impersonalità e l'anaffettività. È difficile avere tutto, trovare una perfetta corrispondenza d'amorosi sensi. L'abbraccio è sconosciuto a molti. Non ci si abbraccia più. È sconveniente. Bisogna essere formali. Ogni dimostrazione di affetto, ogni prova di calore umano viene considerata inopportuna. Lo stesso Papa Bergoglio ha sostenuto che per accorgersi dell'umanità altrui oltre all'ascolto ci vuole il tatto, che secondo il Pontefice è il senso più importante. Una ricerca, condotta da pediatri coordinati da Siavash Beiranvand, docente di anestesiologia, ha coinvolto 120 bambini tra i 2 e i 6 mesi e ha dimostrato che coloro che venivano abbracciati dalla madre piangevano molto di meno dopo un'iniezione. C'è chi per ovviare a questa carenze affettive si compra un animale domestico. La solitudine viene però caldamente consigliata dai mistici. I Padri del deserto si ritirarono appunto nel deserto per fuggire dalle tentazioni del mondo e del diavolo, come fece Cristo per 40 giorni. Per San Giovanni della Croce bisogna meditare in solitudine, pregare per combattere i tre nemici dell'anima, ovvero il mondo, la carne, il demonio. Anche per Santa Teresa d'Avila l'autoperfezionamento passa attraverso la solitudine e la preghiera. Eckhart scriveva che non è necessario essere soli per raccogliersi interiormente e trovare Dio: il vero credente porterà Dio con sé in ogni luogo e con qualsiasi persona, nella chiesa, nella solitudine, perfino in prigione. Per Simone Weil la solitudine va preservata e cercare di sfuggire a essa è una vigliaccaggine. Il mondo quindi distrae, tenta, fa peccare, sporca l'anima. Per i Sufi il vero essere spirituale sa raccogliersi così tanto da essere solo in mezzo alla folla, da non prestare alcuna attenzione alle voci della folla. Secondo i buddisti non bisogna farsi prendere dallo sconforto della solitudine, che può essere anche ritemprante e rilassante. Monaci e suore di clausura, nonostante gli inviti della mistica cristiana alla solitudine, vivono però anch'essi in comunità. Gli stessi eremiti moderni accolgono visitatori e curiosi, pubblicano le loro meditazioni in gruppi Facebook. Secondo i mistici cristiani e non, nonostante le debolezze e le pecche umane, l'isolamento sociale conduce a Dio e Dio è tutto il contrario della solitudine: Dio è amore. Il mondo stesso è fondato sull'interdipendenza degli individui. In un racconto di Calvino un uomo non si sa allacciare le scarpe e fortunatamente trova un uomo che gli fa questo favore: perfino in Hegel è il padrone ad avere più bisogno del servo perché è quest'ultimo che sa fare delle cose che il padrone non sa fare più. Al di là di questo tutti abbiamo un bisogno psicologico degli altri, di avvertire le loro voci, di udire il rumore del mondo. La camera anecoica degli Orfield Labs di Minneapolis, Stati Uniti, è un luogo insopportabile: nessuno ci resiste per più di un'ora. È insopportabile il silenzio assoluto, scalfito solo dal battito del proprio cuore.
Una differenza fondamentale è quella tra essere soli e sentirsi soli. Ciò che fa veramente male spesso è la percezione soggettiva della solitudine più che il riscontro oggettivo. Ci sono situazioni limite in cui si è malati e ci si trova soli di fronte alla morte: allora si avverte più che mai il bisogno degli altri. Si ha bisogno del conforto. Ci si ricordi dei familiari al capezzale del morente. C'è anche chi prova la solitudine perché si sente incompreso. Bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine, come scrisse Pasolini in una sua poesia. Per molti il problema è come rompere la solitudine. Alcuni non sanno comunicare la solitudine. Beckett, Ionesco, Michelangelo Antonioni esprimono questa inadeguatezza. Altri si vergognano di dire che sono soli. Altri ancora si ritengono troppo giovani o troppo vecchi per dire che sono soli. Per i più comunicare la propria solitudine è sinonimo di debolezza. Al contempo la società post-industriale si basa su due opposte polarità: individualismo e conformismo. Molto spesso le persone trovano un compromesso a queste due esigenze sociali accettando un'omologazione dalle varianti minimali, cioè seguono le mode ma si discostano da esse in modo infinitesimale, aggiungendo un piccolo tocco personale. È anch'esso un modo per non sentirsi soli, per identificarsi in qualcosa, per far parte di qualcosa, di essere con gli altri, anche se è un'illusione effimera e momentanea. La propria identità sociale si basa sull'appartenenza a dei gruppi, a delle categorie sociali. Non sentirsi pecora nera è anch'esso un modo per non sentirsi soli. In letteratura H.Hesse propone "Il lupo della steppa", ma alla fine Erminia la donna amata va con un altro e in un raptus di gelosia il protagonista la uccide: imparare a ballare il fox trot non basta per uscire da sé stessi. Sartre ne "La nausea" ci comunica che il mondo, l'esistenza non hanno alcun senso. La stessa cultura impersonificata dall'autodidatta è inutile, non soddisfa le aspettative perché anche quest'ultimo è sorpreso a molestare un adolescente e viene mandato via dalla biblioteca per questa ragione. Thomas Bernhard ne "L'origine" tratta di un collegio, in cui si mischiano sadicamente nazismo e cattolicesimo. L'unico modo per salvarsi dal suicidio, dovuto al disagio per questo microcosmo concentrazionario, è allora suonare il violino. Primo Levi si suicidò perché non seppe convivere con l'orrore inenarrabile e inesprimibile del lager. Pavese si sentiva padrone da solo al buio a meditare, ma sarà proprio "la mania di solitudine", che aveva spesso tramutato in ozio creativo a ucciderlo. Sempre Pavese e Carlo Levi sperimentarono la solitudine del confino. Bassani tratta dell'emarginazione ebraica ai tempi del fascismo e ne "Gli occhiali d'oro" determinata dall'omosessualità. Ne "Lo straniero" di Camus il protagonista prima non versa una lacrima alla notizia della morte della madre, quindi uccide per futili motivi sulla spiaggia un uomo, infine quando viene condannato a morte è impassibile. Siamo quindi tutti stranieri di fronte all'assurdo, che sfugge alla nostra logica. Anche Moravia porta tutto alle estreme conseguenze con il romanzo "1934". Il protagonista, un intellettuale, vuole compiere un suicidio a due con una donna. Ma alla fine sarà beffato perché due donne si prenderanno gioco di lui. Come a dire che la disperazione non si può condividere, che si finisce per essere beffati da chi dimostra avere più attitudine alla vita. Al protagonista non resta che continuare a vivere da solo con la sua disperazione. Ma ora veniamo alla poesia del' 900. Giuseppe Ungaretti scrive sulla tragedia della Prima Guerra Mondiale: “Di queste case / Non è rimasto / Che qualche / Brandello di muro / Di tanti / Che mi corrispondevano / Non è rimasto / Neppure tanto” in San Martino del Carso e finisce la poesia con “E’ il mio cuore / Il paese più straziato”. Pascoli si sente così abbandonato “come l’aratro in mezzo alla maggese”. Quasimodo scrive: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”. Per Kenneth Patchen la solitudine è "un coltello sporco puntato alla gola". Si possono avere molte amicizie e l'amore ma per molti al cospetto della morte siamo tutti soli. Per altri non bisogna sentirsi soli perché non lo siamo mai: c'è sempre qualcuno a questo mondo che ci capisce e condivide quello che sentiamo e proviamo, basta solo cercarlo.

Infine chiudiamo con un poeta della musica come Claudio Lolli, che cantava negli anni Settanta questo brano sul suicidio:
"Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quante ore, quante ore che ho passato,
Accanto a un termosifone per avere un poco di calore.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Quanti oggetti, quanti oggetti che ho rubato,
Mentre nessuno vedeva, mentre, nessuno mi guardava.
Quanto amore, quanto amore che ho cercato.
Dietro i vetri gialli e sporchi di una stanza,
Che aprono una città di ferro, senza voce, e senza una parola.
Quanto amore, quanto amore ho riversato.
Nelle cose più impensate e più banali,
Facendo collezione di farfalle o di vecchi giornali.
Le persone che ho fermato per la strada,
Sinceramente possono testimoniare,
Quanto amore ho cercato, ieri, prima, di essermi impiccato,
Ieri, prima di essermi impiccato.
Quanto amore, quanto amore, quanto amore, che ho cercato …"
dic 112022
Il verso libero:
Nel corso del' 900 si è diffuso il verso libero. Questo è avvenuto non solo tra quelli che vengono definiti dai cattedratici poeti dilettanti ma anche da grandi poeti stranieri e italiani. Laforgue fu il primo grande poeta ad adoprare il verso libero e a tal proposito scrisse: "mi dimentico di rimare, mi dimentico il numero delle sillabe, mi dimentico la distribuzione delle strofe". Anche Pound fece un uso moderato nelle proprie liriche del verso libero. I poeti dell'imagismo scrivevano tutti in versi liberi. E. Lee Masters nella celeberrima Antologia di Spoon River adoprò spesso nei suoi epitaffi versi liberi e non prestò molta attenzione al rispetto della metrica. Per quel che riguarda il nostro paese i crepuscolari Corazzini, Gozzano, Govoni, pur utilizzando anche forme metriche tradizionali, introdussero il verso libero nella poesia italiana. Anche il poeta simbolista Gian Pietro Lucini scriveva soprattutto versi liberi e dichiarò che al momento della creazione non cercava "misure prestabilite (versi), né sequenze numerate di misure (strofe)", né il posizionamento di accenti tonici. Inoltre bisogna ricordare che i poeti vociani Jahier e Boine scrissero solo prose poetiche. Infine i futuristi utilizzarono solo ed esclusivamente il verso libero. Se in poesia e in letteratura devono essere messe delle regole forse devono riguardare il rapporto tra l'arte e il tentativo di ideologizzazione dell'arte stessa. Ritornando al verso libero alcuni intellettuali ritengono che la vera libertà si acquisisca nell'ambito delle regole imposte e degli schemi precostituiti o almeno questa è la loro giustificazione alla loro concezione di una poesia, che per essere tale deve adoprare le forme metriche classiche. Altri intellettuali ritengono invece che nell'arte la libertà non esista, per cui devono essere accettate le regole imposte dalla tradizione. Per il poeta Robert Frost "scrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete».
Ma non è detto che chi scriva versi liberi e non rispetti la metrica tradizionale non si imponga altre regole riguardanti altri ambiti. Un tempo erano presenti dei canoni estetici. Oggi forse è più problematico valutare un poeta. Sono rari i casi di coloro che scrivono endecasillabi canonici. I più scrivono in versi liberi.
La crisi della poesia:
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall'osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel Novecento tutto diventa ancora più complesso. Basta pensare a Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio. Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del Novecento l'Ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l'Orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli, analogie e sinestesie. Negli anni Sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l'Ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anch'essi non erano di facile comprensione. Da un lato i poeti di Officina avevano buoni intenti: volevano il rinnovamento, erano contro l'intimismo degli ermetici, erano contro i reazionari. Dall'altro lato erano anche contro il Neorealismo, uno dei pochi ismi del Novecento (insieme ai crepuscolari) i cui autori si facevano capire da tutti. Forse nel Neosperimentalismo erano presenti troppe premesse teoriche. Anche la Neoavanguardia era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l'egemonia culturale e l'estetica dominante, contro la mercificazione dell'arte. Però spesso spiazzava i lettori per i suoi non sensi, il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni Settanta con il neo-orfismo cambia di nuovo le carte in tavola perché prende le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico è sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: "La parola innamorata" e "Il pubblico della poesia". Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C'è anche troppa creazione ma è scarsa la fruizione. La poesia contemporanea è determinata talvolta dall'egocentrismo, dal narcisismo, dall'autobiografismo. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio talvolta non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. Il fatturato dei libri di poesia in Italia è inferiore all'1% del fatturato globale. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Sono molteplici i motivi di questa situazione e non li analizzeremo ora. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni è in crisi e alcuni critici l'hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è talvolta illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici.
Poesia e moralità:
È sempre difficile giudicare la qualità delle poesie. È vero che è improponibile il paragone tra la poesia di un bambino di prima elementare e una di Montale. Ma spesso le differenze non sono così marcate. Un tempo si consideravano la metrica e l'eufonia. Oggi non più. Decenni fa in Italia si considerava anche la persona del poeta, che doveva essere assennato e ponderato. Al poeta si richiedevano delle virtù come una certa moralità e la saggezza. Se era sregolato allora era solo un erudito e/o un immaturo. Non poteva considerarsi persona di cultura. Si guardava il comportamento. Si considerava soprattutto l'etica. Si giudicava la condotta. C'era molto moralismo. D'altronde anche la Neoavanguardia valutava la persona (che doveva essere schierata ideologicamente). Loro erano gli unici puri e onesti. Consideravano anche la poetica. Quindi il contenuto veniva giudicato in modo fazioso perché secondo loro il linguaggio era "ideologia". Insomma si doveva combattere. Erano in trincea. Bisognava condannare la borghesia. Quindi bisognava per forza di cose odiare i piccoli borghesi. È chiaro che la Neoavanguardia ha avuto anche dei meriti come quello di rinnovare il linguaggio, inventare il pluristilismo, etc etc. Le due "chiese" comunque si sono appropriate della cultura nella seconda metà del Novecento. La maggioranza della gente se ne fregava. Negli anni Settanta le nuove generazioni erano perse nella droga o nella politica. La letteratura era ritenuta cosa di poco conto e non incisiva. Addirittura era ritenuta evasione. Molti giovani di allora pensavano ad altro e si rovinavano con altro: l'eroina o il terrorismo. La stessa poesia da allora è stata relegata ai margini e non si è più ripresa. Giudicare le poesie è sempre impresa ardua e risente di una certa soggettività. Spesso è questione di gusto più che di criteri estetici.

Poesia e ideologia:
Quali qualità deve possedere un artista per essere tale? Sono sicuro che a questa domanda molti risponderebbero che deve avere talento. Ma forse questo è un prerequisito fondamentale ma non sufficiente. Vittorio Sgarbi in "Lezioni private" scrive che un artista deve avere uno stile. Per esempio un poeta deve avere una visione del mondo. Successivamente avrebbe una poetica (ovvero una dichiarazione di intenti) e uno stile. Un artista di conseguenza secondo tale concezione deve anche essere un intellettuale, che riflette sul mondo e che rappresenta una coscienza critica per gli altri. Secondo Sgarbi l'artista è tale innanzitutto per il proprio pensiero (che deve contraddistinguersi per una certa originalità) e questo è valido sia per chi appartiene alla tradizione che per chi appartiene ad una avanguardia. Secondo altri si può scrivere anche senza una piena consapevolezza di sé stessi e del mondo, ma in fondo sono un'esigua minoranza. Molti critici la pensano come Sgarbi. Altra cosa importante oltre al pensiero è quella che alcuni chiamano la posizione intellettuale. Un artista può esprimere dissenso, consenso o non schierarsi rispetto alla politica e al potere. Per Gramsci ogni artista doveva essere un intellettuale organico. Sartre nella presentazione a "I tempi moderni" proponeva l'engagement. Lo scrittore era da ritenersi sempre responsabile. Non doveva scrivere per i posteri ma per i contemporanei. Non doveva evadere dalla realtà ma essere sempre testimone. Però molti altri erano per una posizione intellettuale meno impegnata politicamente. Per Saba i poeti dovevano essere "sacerdoti dell'eros". Anche D'Annunzio faceva dire a Claudio Cantelmo ne "Le vergini delle rocce" che gli artisti dovevano soltanto difendere la bellezza. Ma in fondo era in buona compagnia. Lo stesso Dostoevskij scriveva che la bellezza avrebbe salvato il mondo. Chissà cosa avrebbero pensato oggi di questa epoca in cui l'arte è soprattutto ricerca del nuovo a tutti i costi e provocazione fine a sé stessa?
Lo stile comunque può essere giudicato subito dai critici letterari, mentre le scelte politiche devono essere comprese e interpretate almeno dopo qualche decennio. Il rischio infatti è quello di essere troppo faziosi e di confondere l'estetica con l'ideologia. In alcuni casi c'è la possibilità di confondere l'estetica con l'etica. Non ci scordiamo che in alcuni autori l'appartenenza politica è più che una presa di posizione politica una scelta dettata da idealismo. Per alcuni artisti il liberalismo, il comunismo, il socialismo, la socialdemocrazia, l'anarchia sono categorie dello spirito. Non dimentichiamoci neanche che furono pochi gli intellettuali a opporsi all'entrata in guerra e al fascismo. Condanniamo pure il loro fascismo ma bisogna anche considerare obiettivamente le loro opere artistiche. Lo stesso dicasi per altre ideologie e altri regimi. Facciamoli però processare dagli storici, anche se si può legittimamente mostrare una certa repulsione per i loro atteggiamenti e comportamenti. Condanniamoli pure come uomini ma non rimuoviamo totalmente gli artisti che sono stati e neanche quello che hanno rappresentato per gli uomini della loro epoca.

Poeti di ricerca e neolirici:
Forse è troppo riduttiva la distinzione tra poesia di ricerca (sperimentatori del verso) e poesia neolirica. Non è detto che tutto lo sperimentalismo porti per forza di cosa sempre al rinnovamento del linguaggio e al rovesciamento di prospettive. In fondo anche alcuni poeti lirici o neo-orfici possono essere originali ed innovativi: non è assolutamente detto che siano sempre dei manieristi o degli epigoni. Non è detto inoltre che questa distinzione tra i due generi di poesia possa racchiudere tutte le dicotomie concettuali ed espressive (comprensibile/difficile, tradizione/innovazione, impegnato/reazionario, etc. etc.). Per quanto riguarda la comprensibilità dei testi la Dickinson scriveva che si doveva dire la verità in modo criptico, mentre K. Popper sosteneva che niente è così facile che scrivere in modo difficile e che tutti coloro che scrivono devono porsi come dovere la chiarezza espositiva (però era un filosofo). La realtà in poesia è che i componimenti dovrebbero in teoria cercare sempre di raggiungere i vertici della significazione. Però i poeti spesso cercano termini ricercati, talvolta antiquati, perché li considerano più consoni. I poeti tra gambo e stelo scelgono sempre il secondo vocabolo, anche se non sarebbe necessario. Anche i poeti in fondo hanno il loro gergo. Mi sembra che Pasolini avesse dichiarato a riguardo che esistesse in poesia un codice classista del linguaggio. Ma non è forse riduttiva questa distinzione tra poesia di ricerca e neolirici? Non potrebbe essere considerata anche una poesia aforistica come quella dell'ultimo Montale, degli Shorts di Auden, dell'ultimo Cesare Viviani? Non sarebbe forse originale se questo genere di poesia aiutasse a chiarire i pensieri, portasse talvolta a "pensare contro sé stessi" per dirla alla Cioran (il riferimento è alla sua opera "La tentazione di esistere")? Naturalmente una scrittura aforistica rischia sempre di essere troppo didascalica oppure ostensiva. Ma in fondo anche gli sperimentatori o i neolirici rischiano anch'essi di perdersi in virtuosismi, di innamorarsi troppo delle parole. I rischi ci sono per tutti. Comunque la distinzione autentica che dovrebbe essere fatta è tra chi cerca di descrivere/raggiungere/ rendere tutta la complessità del reale (il rischio è quello di rendere ancora più complicato e di più difficile comprensione ciò che è già complesso) e tra chi cerca di semplificare la realtà (il rischio è quello di rendere tutto troppo semplicistico, di creare delle smagliature da cui evade il reale). Queste dovrebbero essere le due scuole di pensiero (ma forse sarebbe meglio dire due atteggiamenti esistenziali) di una poesia, che allora potrebbe essere veramente ricerca di senso. Ma forse è solo una utopia. Però la distinzione basilare è tra chi cerca di raggiungere la soglia del dicibile e chi cerca la sostanza delle cose, l'essenziale. Questi a mio modesto avviso sono i due modi di porsi in estrema sintesi. Poi a prescindere dal tipo di atteggiamento chiunque può essere o meno innovativo. Per cercare l'essenziale intendo l'estrema sintesi del reale. La soglia del dicibile non è detto che sia estrema sintesi. L'essenziale lo si raggiunge con il levare. È la caratteristica tipica della scrittura epigrammatica. La soglia del dicibile invece la si raggiunge con il battere, con l'accumulo: significa cercare di descrivere in modo esaustivo la realtà, di comprenderla in modo totalizzante.