Il Blog di Rosario Frasca

Le opinioni di un Clown, ovvero: Il mito di Er

La guerra

mar 162022

 

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Irène Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) è stata una scrittrice francese di origine ebraica, vittima dell'Olocausto.

Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irène Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi di tifo. (Wikipedia)

 

 

 Sandor Marai, altro profugo sopravvissuto alla guerra, in un suo romanzo, scrisse delle condizioni esistenziali di una profuga sua compagna di viaggio e di vita:

"Sono una profuga e comincio a capire che, quando si lascia una patria, si lasciano tutte le patrie possibili. Quello che noi profughi riceviamo per attestare la nostra identità, è solo un documento; di qua o di là, in qualsiasi angolo del mondo, la nostra identità è solo un documento. La spoliazione che subiamo non ci toglie di dosso soltanto la vera identità - non quella di un freddo e anonimo pezzo di carta - ma ci toglie anche tutto quello che gli uomini chiamano patria, in qualsiasi epoca. Lo capiamo solo lentamente." (Sandor Marai, "Il sangue di San Gennaro")

 

Nota

Le informazioni in premessa sono tratte dalla discussione,del gruppo di lettura fatta sul romanzo "Due" di Irene Nemirovsky e da "Suite francese" il romanzo postumo della stessa autrice; che ha riscosso un grande successo in tutta Europa ed è stato giudicato dai critici come il capolavoro di Irene Nemirovsky.

 

Premessa

Il nome Nemirovsky significa "colui che non conosce pace" e richiama i secoli di soprusi subiti dagli ebrei-russi di Nemirov, città della Russia.

Nel 1929 Bernard Grasset, entusiasta di David Golder, un manoscrtto arrivato per posta, decise di pubblicarlo immediatamente. Appena uscito, David Golder fu elogiato all'unanimità dalla critica, tanto che Irene Nemirovsky divenne subito celebre e fu lodata da scrittori di diversa estrazione, come Joseph Kessel, un ebreo, e Robert Brasillach, un monarchico di estrema destra e antisemita. Brasillach elogiò in particolare la purezza della prosa di quella nuova arrivata nel mondo letterario parigino.

Irene era nata a Kiev, ma aveva imparato il francese dalla governante fin dalla prima infanzia. Inoltre parlava correntemente il russo, il polacco, l'inglese, il basco e il finlandese, e capiva lo yiddish. La Nemirovsky si meravigliò perfino che si attribuisse tanta importanza a quel David Golder che lei stessa definiva un romanzetto.

Il padre, Leon Nemirovsky, aveva avuto la sventura di nascere nel 1868 nella città dalla quale doveva dilagare la grande ondata di pogrom contro gli ebrei russi, persecuzione che durò molti anni. Sul suo biglietto da visita si poteva leggere: "Lèon Nemirovsky, presidente del consiglio della banca commerciale di Voronez, Amministratore delegato della Banca Unione di Mosca, membro del consiglio della Banca Privata del Commercio di San Pietroburgo".

La madre, che si faceva chiamare Fanny, l'aveva messa al mondo unicamente per compiacere il ricco marito: per lei la nascita di quella figlia non rappresentava altro che il primo segno del declino della propria femminilità, e aveva lasciato la bambina alle cure della balia. Per dimostrare a se stessa di essere ancora giovane si ostinò a voler vedere Irene, divenuta adolescente, un eterna bambina, che obbligava a vestirsi e a pettinarsi come una scolaretta.

Irene, abbandonata a se stessa durante le ore di libertà della governante, si rifugiava nella lettura; cominciò a scrivere, e reagì alla disperazione sviluppando a sua volta nei confronti della madre un odio feroce.

In "Le vin de solitude" scrive dell'eroina:
"Non diceva mai "mamma" articolando chiaramente le due sillabe; pronunciava "mam" in una sorta di rapido borbottio che si strappava dal cuore con sforzo e con una sorta di sordo e subdolo dolore. Il volto della madre, contratto dall'ira, si avvicinò al suo, e lei vide brillare gli occhi che odiava, le pupille dilatate dalla collera e dalla paura … Dio ha detto: "Mia sarà la vendetta…"

Con sorpresa la vendetta continua a governare la storia delle nostre eroine. L'esergo premesso da Tolstoj in Anna Karenina parla chiaro: “Mihi vindicta: ego retribuan".

Irene Nemirovsky apprende senz'altro da Tolstoj uno stile narrativo leggero ed elegante per scrivere delle atrocità della guerra nel suo  capolavoro postumo. 

 

1903 - nata a Kiev (11 febbraio)
1918 - fuga in Finlandia;
1919 - approdo a Rouen e arrivo a Parigi;
1939 - conversione al cristianesimo;
1942 - deportata ed eliminata ad Auschwitz;

Dalla Russia con amore, alla Francia con stupore, fino ad Auschwitz per morire.

Questo il percorso di Irene Nemirovsky: ebrea, nata in Ucraina, profuga in Francia, morta in Germania.

 

Suite francese

(Némirovsky, Irène. I capolavori (eNewton Classici) (Italian Edition) (p.1832). Newton Compton Editori. Edizione del Kindle.)

Nota - Il brano riportato è l'incipit del romanzo; e rende bene lo stile elegante della prosa e l'assoluto realismo delle descrizioni narrative; un realismo romanzesco che non concede nulla al sentimento e all'eroismo romantico. Le situazioni descritte le abbiamo ben presenti oggi negli angosciosi e freddi report giornalistici che arrivano dall'Ucraina martoriata dalla guerra.

 

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1. La guerra

Fa caldo, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra, l’allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che erano svegli, i malati a letto, le madri che avevano i figli al fronte, le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto coglievano il primo respiro della sirena. All’inizio non era che un ansito profondo simile al soffio di un petto in costrizione.

Bastarono pochi istanti, poi tutto il cielo fu riempito dal rumore. Veniva da lontano, da oltre l’orizzonte, sembrava quasi senza fretta! I dormienti sognavano il mare che sospinge in avanti le onde e i ciottoli, la tempesta che scuote le cime degli alberi a marzo, una mandria di buoi in corsa sotto i cui zoccoli la terra trema sordamente, finché il sonno era interrotto e l’uomo mormorava aprendo appena gli occhi. «C’è l’allarme?».

Più nervose, più attente, le donne erano già in piedi. Alcune, chiuse le finestre e gli scuri, tornavano a letto. Il giorno prima, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall’inizio della guerra, delle bombe erano state sganciate su Parigi; la popolazione era però rimasta tranquilla. Le notizie tuttavia non erano buone. Ma non ci si credeva. Come peraltro non si sarebbe prestato fede all’annuncio di una vittoria. «Non ci si capisce niente», diceva la gente.

Servendosi di una pila tascabile, si rivestivano i bambini. Le mamme sollevavano nelle braccia i piccoli corpi abbandonati e tiepidi: «Vieni, non aver paura, non piangere», c’è l’allarme. Tutte le luci si spegnevano, ma nel dorato e trasparente cielo di giugno, ogni casa, ogni strada era visibile.

Il fiume sembrava accogliere tutte le luci, riflettendole e moltiplicandole come uno specchio sfaccettato. Le finestre oscurate non completamente, i tetti che luccicavano nell’ombra lieve, le borchie metalliche dei portoni di cui ogni sporgenza emetteva un debole scintillio, qualche semaforo che restava acceso più a lungo degli altri, inspiegabilmente, era il fiume ad attirarli, a imprigionarli e farli giocare tra i suoi flutti.

Dall’alto doveva apparire bianco, scorrere come un flusso di latte. Alcuni pensavano che potesse servire da riferimento per gli aerei nemici. Altri dicevano che era impossibile. In realtà non si sapeva nulla. «Io me ne resto a letto», mormoravano voci insonnolite, «Non ho paura». «Ad ogni modo, una sola volta basta», replicavano i più prudenti.

Oltre le vetrate che coprivano le scale di servizio delle nuove costruzioni, si vedevano scendere una, due, tre piccole luci. Gli inquilini del sesto piano abbandonavano le zone più elevate; tenevano davanti a sé le torce elettriche accese a dispetto dei regolamenti. «Preferisco non scassarmi la testa sulle scale, vieni Emilio?» Istintivamente si parlava a voce bassa come se si fosse circondati da sguardi eorecchie nemici. Una dopo l’altra si sentiva lo sbattere di porte racchiuse di colpo.undefinedNei quartieri popolari la gente si assiepava nelle stazioni del métro, nei rifugi dall’odore stantio mentre i ricchi si limitavano a scendere giù nelle portinerie, l’occhio teso verso gli scoppi e le esplosioni che avrebbero annunciato la caduta delle bombe, attenti, i corpi tesi come bestie inquiete nei boschi quando si avvicina la notte della caccia; i poveri non erano più paurosi dei ricchi; non erano maggiormente attaccati alla vita, ma avevano più di loro lo spirito del gregge, avevano bisogno gli uni degli altri, bisogno di stare a contatto di gomito, di piangere o di ridere insieme.

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Il sole stava per sorgere; un riflesso pervinca e argenteo si rifletteva sul selciato, sui parapetti del lungo Senna, sulle torri di Notre-Dame. Sacchetti di sabbia, accatastati attorno agli edifici principali sino a mezza altezza, imprigionavano le danzatrici di Carpeaux sulla facciata dell’Opéra, soffocavano l’urlo della Marseilleuse sull’Arco di Trionfo.

Ancora piuttosto lontano rimbombavano colpi di cannone, poi si facevano più vicini e i vetri tremavano in risposta. Bambini nascevano in camere troppo calde dove erano state tappate tutte le fessure delle finestre affinché non trapelasse all’esterno il minimo raggio di luce, e il pianto dei neonati faceva dimenticare alle donne il rumore delle sirene e la guerra. Alle orecchie dei moribondi i colpi di cannone giungevano deboli e privi di significato, un ulteriore suono che si mescolava al sinistro e indefinito rumore che accoglie l’agonizzante come un gorgo. I piccoli, accucciati contro il fianco caldo della mamma, dormivano quieti e facevano con le labbra dei piccoli schiocchi leggeri, come di un agnellino che succhia il latte.

Abbandonate al momento dell’allarme, alcune carrette di ortolani, cariche di fiori freschi, erano buttate in mezzo alla strada. Il sole, ancora rosseggiante, saliva nel cielo limpido. Venne tirato un colpo di cannone, questa volta tanto vicino alla città che gli uccelli sfrecciarono in volo dalla sommità dei monumenti. Dall’alto planavano grandi uccelli neri, mai visti prima, spiegavano sotto il sole le ali satinate di rosa, poi si levavano in volo i bei piccioni grassi tubando e le rondini, i passeri saltellavano tranquillamente nelle strade deserte. Sulle rive del fiume, sui rami dei pioppi, grappoli di piccoli uccelli scuri cantavano alto. In fondo alle cantine giunse finalmente un suono lontano, attutito dalla distanza, una specie di fanfara su tre toni.

 

L’allarme era cessato.

 

 

 

 

 

 

 

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