A volte pretendiamo “un dio che possa piegarsi alle nostre richieste e magicamente intervenire per cambiare la realtà e renderla come noi la vogliamo; un idolo, appunto, che in quanto tale non può fare nulla, impotente e menzognero”.
"Il desiderio secondo l’altro è sempre desiderio di essere l’altro.
Non v’è nulla di immutabile in ciò che si può osservare direttamente nel desiderio degli eroi".
(René Girard - Menzogna romantica e verità romanzesca)
Il Bacio
Il bacio - R. Frasca (fotogramma "Il vangelo secondo Matteo" di Pierpaolo Pasolini)
Il tradimento
Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: "Quello che bacero', è lui; arrestatelo!". Subito si avvicinò a Gesù e disse: "Salve Rabbi!". E lo baciò. (Mt,26,48-49). E, non con astio ma con affetto, gli chiese: “Giuda, con un bacio tu tradisci il figlio dell’Uomo?” (Lc 22, 48). Con parvenza di pace mi muovi guerra? Con segni di amore mi consegni alla morte? E, per costringerlo maggiormente a riconoscere la sua colpa, gli pose perfino un’altra domanda, piena d’amore: “Amico, a ché sei venuto?” (Mt 26, 50). (Luis de la Palma, La passione del Signore)
L'ombra
Posso infine scordare. Giungo al centro, alla mia chiave, all’algebra, al mio specchio. Presto saprò chi sono. ("Elogio dell’ombra” di Jorge Luis Borges)
L'obiettivo
Il protagonista di una sceneggiatura è il personaggio, la cui principale caratteristica è il desiderio, solitamente molto intenso, di raggiungere un determinato obiettivo. L’interesse del pubblico è suscitato proprio dal vedere come questo personaggio va verso la sua méta. Questo movimento verso l’obiettivo determina dove inizia e finisce la storia. (Carmen Sofia Brenes - Tema e trama di un film)
La scelta
"Il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell’economia della redenzione. Incarnandosi il Verbo passò dall’ubiquità allo spazio, dall’eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest’uomo. (Runeberg)
Ascrivere il suo delitto alla cupidigia, è rassegnarsi al movente più turpe. Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L’asceta per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciò all’onore, al bene alla pace, al regno dei cieli come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l’abuso di fiducia e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d’essere buono.
La profezia del crocifisso (Isaia LIII 2-3) nell’ora della morte, è per Runeberg la profezia non d’un momento solo, ma di tutto l’atroce avvenire, nel tempo e nell’eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso." (dal racconto: "Le tre versioni di Giuda" di Jorge Luis Borges - Finzioni - Ed. Einaudi – 1985 Trad: F. Lucentini)
Commento
Borges non si esprime su queste posisizioni di Runeberg; da scaltro e sornione divulgatore culturale, si limita a registrare sia le eresie sia le reazioni del "teologicamente corretto".
Ma il Giuda protagonista, quello che vogliamo rappresentare, dovrebbe essere più vicino al “Che" Guevara o a Garibaldi: un eroe che non instaura il nuovo, né restaura il vecchio, ma sempre cerca, magari altrove, una corruzione da debellare un invasore da scacciare, un nemico da combattere.
Giuda è amico dei poveri, non nel senso soprannaturale che predica Gesù, ma nel senso materiale e concreto della storia; una specie di cavaliere del "materialismo storico" ante-litteram; o, nel migliore dei casi, un Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Giuda è profondamente convinto che l’unica strada sia l’insurrezione d’Israele contro l’occupazione dei Romani. Giuda vuole servirsi di Gesù per dimostrare ai sacerdoti del Sinedrio, che la straordinaria capacità mediatica di quest’uomo potrebbe essere spesa per "addomesticare" il popolo alle necessità della nazione per ribellarsi e liberarsi dall’occupazione dei Romani. Giuda, in cuor suo, vorrebbe l’insurrezione sociale, popolare e nazionale d’Israele, non la resurrezione personale predicata da Gesù; per questo pianifica di consegnarlo ai sacerdoti.
Caifa, il Sommo Sacerdote politicamente compromesso con i Romani, ha paura che il potere mediatico di Gesù possa detronizzare il Sinedrio; finge dunque di accogliere la proposta di Giuda; pur avendo deciso in cuor suo che, dopo l’arresto operato con la necessaria complicità di Giuda, lo avrebbe sottoposto al giudizio del Sinedrio, nella speranza di farlo cadere in dichiarazioni blasfeme e poterne così deliberare la condanna a morte (ovvero l'“estirpazione” mediante “lapidazione").
Qui entra in gioco la legge di Israele per la condanna a morte di un colpevole da “estirpare" dalla comunità. Il sinedrio non avendo raggiunto l'unanimità per l'opposizione di Nicodemo (e forse di qualche altro sacerdote e/o anziano), non ha potuto decretare la condanna a morte per lapidazione; Caifa decide così di cconsegnare Gesù a Pilato, allo scopo di ottenere la condanna, secondo le leggi romane. Una condanna che avrebbe sollevato il Sinedrio dai vincoli della legge d'Israele; una condanna che sarebbe servita a riconquistare i seguaci di Gesù e ricompattare Israele.
Pilato, però, non trova colpe in Gesù e lo condanna alla sola fustigazione solo per accontentare il Sinedrio. Caifa non si arrende e trova la soluzione nella consuetudine imperiale di liberare, nella ricorrenza della festa del popolo d’Israele, un condannato a morte scelto dal popolo. Pilato accetta la proposta di Caifa ma solo con una chiara indicazione del popolo. Affida dunque al popolo la scelta tra Gesù o un altro condannato a morte rinchiuso nelle carceri. Il popolo, fomentato e manipolato da Caifa e gli anziani, acclama la liberazione di Barabba e chiede la condanna a morte di Gesù per "crocifissione".
Giuda, vista la piega che aveva preso la vicenda, si è sentito preso in giro e usato dal sinedrio per i suoi infimi scopi. Il suo bacio, il suo tradimento non è servito per la liberazione del popolo ma per riconfermare l'inciucio del potere e della corruzione; la sua rivoluzione è naufragata miseramente ancor prima di cominciare per i giochi della politica e del potere; per la scaltrezza politica di Caifa e la debolezza imperiale di Pilato, del tutto inaspettata.
Non c’è di peggio, per un romantico idealista, che il sentirsi usato e manipolato dal potere; contro se stesso e il suo ideale, a cui si arriva solo con la ribellione e la lotta; il fatto di aver tradito l’amicizia di Gesù, il Maestro che lo amava e che di lui si fidava pur avendone previsto il tradimento, lo tormenta fin nelle viscere e lo angoscia nell'anima.
Come può ritornare al cospetto di Gesù! Ecco la disperazione che si fa strada…il sentirsi impotente contro il male…l’umiliazione della sconfitta politica inflittagli dai sacerdoti del sinedrio… tornare da Gesù, certo, è l’ultimo dei suoi pensieri…combattere contro il sinedrio e i romani, non è alla sua portata… Ecco: forse solo un grande gesto per redimere la sua colpa; non la morte in croce di Gesù… non il pentimento ed il perdono di Pietro… ma la fuga… l’eliminazione fisica del colpevole. Un atto di profondo egoismo… non di umiltà come dice Runeberg (Borges); è solo egoismo il pensare solo a sé; invilupparsi nelle proprie colpe e dolersi… non tener conto degli insegnamenti del Maestro, del perdono; il ritorno alla casa del padre del figliol prodigo… le lacrime di Pietro… il fare la volontà del Padre di Gesù… No! niente di tutto questo ma solo il dolersi della colpa: "Io son colpevole, Io son peccatore, Io son traditore, io..io..io, solo io! Quale grande ego alimenta il pensiero di Giuda… è lui, é il maligno in persona che si appropria della sua anima, del suo corpo, delle sue azioni e lo travolge nella perdizione, per sempre.
Giuda, (il mancato) eroe della liberazione d’Israele; Che Guevara, (il ripudiato) eroe della liberazione di Cuba; Garibaldi (l’esiliato) eroe…. dei due mondi; tutti attori, tutti eroi sconfitti; come appaiono miseri questi eroi sconfitti al cospetto di Gesù, uomo vittorioso sulla morte dell'anima; Gesù non è un eroe romantico ma l’uomo vero, la creatura di Dio; l'umile figlio di Dio fatto uomo… questo figlio che ha indicato il cammino… che ha lasciato detto: io sono la via, la verità e la vita… Ecco il dramma di Giuda: non aver compreso il messaggio salvifico di Gesù… forse per troppa prossimità a quell’io divino, forse perché non consapevole della via che sta percorrendo, della vita che sta vivendo, della verità si sta nascondendo (nella realtà); come quando non ci accorgiamo del trave nel nostro occhio e ci scandalizziamo della pagliuzza nell’occhio dell'altro.
L’invidia, la rabbia impotente, la disperazione, l'angoscia; questi sono i sentimenti in cui matura il tradimento di Giuda; quando si accorge che gli altri, i potenti contro cui si ribella e si combatte, lo “fregano”, lo prendono in giro, lo giocano, lo manipolano, lo usano, ecc… e si accorge che tutto cambia perché nulla cambi; è su queste basi che matura il gesto estremo di Giuda, il suo urlo d'impotenza: il suicidio ovvero il gesto estremo dello sconfitto, la fuga; la rinuncia alla vita; la morte dell'ego e il disconoscimento di Dio, della Sua paternità universale; la solitudine estrema dell'emarginato, il naufragio nel nulla cosmico, la perdizione eterna senza speranza, l’inferno dantesco di: "lasciate ogni speranza voi c’entrate".
La scelta della morte: qualunque, comunque e dovunque essa sia, non è - e non sarà mai - il riconoscimento di Dio; sarà piuttosto la sua negazione e l’ostinato e vigliacco rifiuto di conoscerlo; come dire: “meglio morire che riconoscere Dio e dichiararsi sconfitto ovvero peccatore.
Il pensiero
(monologo)
Nessuno dica che Gesù non l’ho amato. Dopo aver visto i Suoi primi miracoli, mi sembrava d’impazzire; mi ripetevo: rallegrati o terra è giunta la liberazione del povero; e tu Roma incomincia a tremare; e tu Giuda preparati: sarai uno dei suoi dodici re.
Ma presto cominciarono le delusioni. La cosa prese una piega vagamente spirituale; guariva servi di centurioni come se niente fosse; risolveva solo casi personali: numerosi sì, ma solo personali; cinquemila bocche affamate saziate nel deserto; ma solo in quanto bocche personali
Invece i poveri li avrete sempre con voi diceva. Bah! Presto si vide che non portava al mondo una rivoluzione politica; parlava come se la politica non esistesse. Quegli occhi chiaroveggenti vedevano solo il cuore privato; accecati dalla loro stessa luce non vedevano il mondo.
che importa il cuore di Giuda di fronte ai problemi del mondo; di fronte all’enormità storica del male e delle ingiustizie. Eppure a lui importava molto il mio cuore: io ero tutto per lui. I suoi occhi dentro di me vedevano tutto ma non vedevano i mali e le ingiustizie del popolo d’Israele.
Ah quell’eterna ambiguità: non sono re, sì lo sono, anzi, no non lo sono; o meglio lo sono, ma solo nel senso immateriale della parola, solo in senso spirituale.
Bella roba poi quell’entrata trionfale in Gerusalemme: un Rabbi vestito da prima comunione al trotto di un asinello. Costui vuole soltanto morire sgozzato. Giuda preparati che la storia ti assolverà; il senso della storia... ma non mi considero peggiore degli altri: Giovanni il carino che Gli dorme sul petto, Pietro la roccia su cui fondare la chiesa, Giacomo il tuono che dorme anche lui nella Sua mano… Maledetti undici dell’altro mondo! Ruffiani; e poi si dirà che son io il vile.
La parola vile mi perseguita dall’infanzia. La vidi scritta negli occhi del maestro; la si leggeva nelle pupille di questi galilei; si moltiplicava per undici con estrema facilità. Io non so cos’è esser vile; sò soltanto cos’è essere Giuda; e intanto Lui insiste stupidamente a voler essere un agnello sgozzato.
Da un pezzo mi guarda come fossi un moribondo; non sopporto quello sguardo mite; non sopporto le sue allusioni mistiche: Io sono Giuda e lo odio! Ah con che dolcezza sibila il serpente dell’odio. Il mio nome è importante in questi abissi: Giuda, sì son Giuda! Non avevo mai sentito una voce così bella dopo quel “Giuda vieni e seguimi”; dopo quel maledetto inganno dell’altro mondo nella mia giovinezza.
(da: "Il libro della passione" di Josè Miguel Ibanez Langlois - edizioni Ares)
Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini
Il tradimento di Giuda
Analisi mimetica
Il desiderio triangolare
Il discepolo si precipita sugli oggetti che il modello ideale di uomo scelto (maestro) gli indica, o sembra indicargli. Noi chiameremo questo modello "mediatore" del desiderio. L'esistenza è l'imitazione di un ideale preesistente proprio come l'esistenza del cristiano é imitazione di Gesù Cristo.
Nella maggior parte delle opere di finzione i personaggi desiderano in maniera più semplice: non vi é mediatore, ma soltanto il soggetto e l'oggetto. Quando la natura dell'oggetto che appassiona non basta a giustificare il desideri, ci si volge al soggetto appassionato; si fa la sua psicologia, o si invoca la sua libertà, ma il desiderio è sempre spontaneo: lo si può sempre rappresentare con una semplice linea retta che unisce il soggetto e l'oggetto.
Le opere romanzesche si possono raggruppare in due categorie fondamentali, nel cui ambito sono possibili infinite distinzioni secondarie. Parleremo di mediazione esterna laddove la distanza fra le due sfere di possibili, che s’accentrano rispettivamente sul mediatore e sul soggetto, sia tale da non permetterne il contatto. Parleremo di mediazione interna laddove questa stessa distanza sia abbastanza ridotta perché le due sfere si compenetrino più o meno profondamente.
Evidentemente non è lo spazio fisico quello misurato dallo scarto tra mediatore e soggetto che desidera; anche se la distanza geografica può rappresentare un fattore, la distanza tra mediatore e soggetto è innanzitutto spirituale. (la distanza tra Gesù (mediatore) e Giuda (soggetto) è innanzitutto spirituale)
Don Chisciotte e Sancio Pancia sono fisicamente sempre l’uno vicino all’altro, ma la distanza sociale e intellettuale che li separa rimane insuperabile: mai il servo desidera quello che desidera il padrone. (date a cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio). Sancio brama le vettovaglie abbandonate dai frati, la borsa d’oro trovata lungo il cammino e altri oggetti ancora, che Don Chisciotte gli concede senza rammarico; quanto all’isola favolosa, Sancio conta di averla proprio da Don Chisciotte, quale fedele vassallo che possiede ogni cosa in nome del suo signore. La mediazione di Sancio è dunque una mediazione esterna, qualsiasi rivalità con il mediatore è impossibile e l’armonia tra i due compagni non è mai seriamente turbata. (Tra Gesù, mediatore e Giuda, soggetto che desidera, in un primo momento, si instaura una mediazione esterna dove Giuda, fedele vassallo desidera e possiede ogni cosa in nome del suo signore Gesù).
L’eroe della mediazione esterna proclama a piena voce la vera natura del proprio desiderio, venera apertamente il modello e se ne dichiara discepolo.(Giuda eroe della mediazione esterna proclama a piena voce la vera natura del proprio desiderio, venera apertamente il modello Gesù e se ne dichiara discepolo).
L’imitazione non è meno fedele e letterale nella mediazione interna che nella mediazione esterna. Se questa verità ci sembra sorprendente, non lo si deve soltanto al fatto che l’imitazione riguarda un modello “ravvicinato”, ma anche al fatto che l’eroe della mediazione interna, lungi questa volta dal ricavare gloria dal suo proposito di imitazione del modello, lo cela con cura. (Il cambiamento da mediazione esterna a interna: Giuda, eroe della nuova mediazione interna, lungi dal ricavare gloria dal suo proposito di imitazione del modello Gesù (proposito dell’invidia), non proclama apertamente il suo desiderio ma lo cela con cura (nascondimento), finge di essere ancora fedele vassallo e discepolo ma in cuor suo è già entrato in nella rivalità mimetica).
Lo slancio verso l’oggetto è in fondo slancio verso il mediatore. Nella mediazione interna, tale slancio è infranto dal mediatore stesso che desidera, o forse possiede, l’oggetto; affascinato dal modello, il discepolo non può fare a meno di vedere nell’ostacolo meccanico frapposto da quest’ultimo, la prova di una volontà a lui contraria, e lungi dal dichiararsi fedele vassallo, ambisce soltanto a ripudiare i legami della mediazione.
Questi legami sono tuttavia quanto mai saldi, poiché l’apparente ostilità del mediatore, lungi dall’indebolire il prestigio di questi, non può che accrescerlo. Persuaso che il modello si ritenga a lui troppo superiore per accettarlo come discepolo, il soggetto prova infatti neli confronti del modello stesso un sentimento lacerante formato dall’unione dei due contrari: la venerazione più sottomessa e il rancore più profondo. È il sentimento che chiamiamo “odio".
Soltanto l’essere che ci impedisce di esaudire un desiderio da lui stesso suggeritoci è veramente oggetto di odio. Colui che odia, odia innanzitutto se stesso, a causa della segreta ammirazione che il suo odio dissimula; con l’intento di nascondere agli altri, e a se stesso, tale sviscerata ammirazione, egli vuole scorgere nel mediatore unicamente un ostacolo. La parte secondaria che il mediatore svolge passa dunque in primo piano e dissimula la parte primordiale di modello religiosamente imitato.
Nella contesa che lo oppone al rivale, il soggetto inverte l’ordine logico e cronologico dei desideri con l’intento di dissimulare la propria imitazione, afferma che il suo desiderio è anteriore a quello del rivale: a suo dire, cioè, responsabile della rivalità non è mai lui, bensì il mediatore. Tutto ciò che proviene dal mediatore è sistematicamente spregiato, per quanto segretamente sempre desiderato e il mediatore diventa un nemico scaltro e diabolico, che cerca di spogliare il soggetto di ciò che ha di più caro e contrasta ostinatamente le sue più legittime ambizioni.
Tutti i fenomeni del risentimento appartengono alla mediazione interna. Il termine risentimento sottolinea il carattere di reazione, di contraccolpo che caratterizza l’esperienza del soggetto in questo tipo di mediazione. L’ammirazione appassionata e la volontà di emulazione urtano nell’ostacolo apparentemente ingiusto che il modello oppone al discepolo e ricadono su questi in forma di odio impotente, provocando così quella specie di autointossicazione psicologica che Max Scheler ha descritto tanto bene.
Così come intende Scheler il risentimento può imporre il proprio punto di vista anche a coloro che non vi sono asserviti. È il risentimento che ci impedisce di apprezzare la funzione dell’imitazione nella genesi del desiderio. Non sospettiamo, per esempio, che la gelosia e l’invidia, come l’odio, altro non sono che i nomi tradizionali della mediazione interna, nomi che ce ne nascondono, quasi sempre, la vera natura.
Analisi girardiana
"Se l'imitazione è certamente presente nel desiderio, e contamina il nostro impulso ad acquisire e a possedere, non si limita però ad avvicinare le persone: le allontana anche, e il paradosso è che può fare le due cose simultaneamente. Coloro che desiderano lo stesso oggetto sono uniti da un legame così intenso che, fino a quando sussiste la possibilità di condividerlo, sono amici strettissimi; appena essa viene meno, diventano acerrimi nemici.” (René Girard)
Giuda desiderava ciò che desiderava Gesù. Giuda desiderava “essere” Gesù. Giuda invidiava Gesù
Tra Giuda e Gesù succede proprio questo: desiderano la stessa cosa: la liberazione, per Giuda quella del popolo d’Israele, per Gesù quella dell’umanità; in un primo momento, l’oggetto del desiderio è lo stesso: la liberazione; sono uniti da un legame intenso fino a quando sussiste la possibilità di condividere il desiderio di liberare l'uomo dal dominio del male, che per Giuda è l'Impero mentre per Gesù è il peccato; appena appena questa condivisione viene meno ovvero quando Giuda si accorge che la liberazione spirituale che predicava Gesù non era la stessa liberazione che lui desiderava, diventa nemico e rivale di Gesù e ne invidia le qualità umane e divine: più ancora di Caifa, dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei.
Giuda appena si accorge che il suo Maestro punta a una liberazione spirituale e personale dell'uomo - del tutto diversa da quella che desiderava lui -, inizia a meditare su come procedere per liberarsi e uscire dalla cerchia dei più stretti discepoli di Gesù. Il comportamento cambia; Giuda diventa sospettoso e pensieroso; nasconde agli altri il suo desiderio e assume atteggiamenti che lasciano trapelare il disagio del nascondimento della menzogna; nelle situazioni critiche, viene corretto da Gesù davanti agli altri; Giuda inizia a covare risentimento e invidia verso Gesù: è pronto a consegnarlo a Caifa su un piatto di ..."trenta denari"; un misero prezzo pur di liberarsi da quella presenza incorrotta, pura, ingombrante, troppo grande, troppo forte, troppo lontana per perseguire i suoi obiettivi "materiali".
- "Giuda vieni e seguimi" -
mai aveva sentito una voce così bella.
Appendici
A1
Le tre versioni di Giuda – (Finzioni - J. L. Borges)
“Non una sola cosa, tutte le cose che la tradizione attribuisce a Giuda Iscariota sono false” (De Quincey 1857)
Il tradimento di Giuda non fu casuale; fu cosa prestabilita, e che ebbe il suo luogo misterioso nell’economia della redenzione. Incarnandosi il Verbo passò dall’ubiquità allo spazio, dall’eternità alla storia, dalla felicità senza limiti alla mutazione e alla morte; per rispondere a tanto sacrificio, era necessario che un uomo, in rappresentanza di tutti gli uomini, facesse un sacrificio condegno. Giuda Iscariota fu quest’uomo. (Runeberg)
Ascrivere il suo delitto alla cupidigia, è rassegnarsi al movente più turpe. Runeberg propone il movente contrario: un ascetismo iperbolico e addirittura illimitato. L’asceta per la maggior gloria di Dio, avvilisce e mortifica la carne; Giuda fece la stessa cosa con lo spirito. Rinunciò all’onore, al bene alla pace, al regno dei cieli come altri, meno eroicamente, rinunciano al piacere. Premeditò con lucidità terribile le sue colpe. Giuda scelse quelle colpe cui non visita alcuna virtù: l’abuso di fiducia e la delazione. Agì con gigantesca umiltà; si stimò indegno d’essere buono.
La profezia del crocifisso (Isaia LIII 2-3) nell’ora della morte, è per Runeberg la profezia non d’un momento solo, ma di tutto l’atroce avvenire, nel tempo e nell’eternità, del Verbo fatto carne. Dio interamente si fece uomo, ma uomo fino all’infamia, uomo fino alla dannazione e all’abisso.
A2
La pena capitale in Israele al tempo del profeta Jirmijah
Pagina tratta dal romanzo di Franz Werfel “ASCOLTATE LA VOCE” - Arnoldo Mondatori Editore – Medusa volume CLXXXIX Edizione provvisoria 1947 - Unica traduzione autorizzata dal tedesco di Cristina Baseggio – Titolo originale “ORET DIE STIMME”
In Jehuda vigevano ancora (dunque) tutti i comandamenti che si riferivano all’esercizio della giustizia e al sistema penale. Il Signore, nella sua misericordia, non permetteva che la sentenza venisse pronunciata da un giudice singolo e nemmeno da uno di grado superiore agli altri.
In ogni città, in ogni comune si doveva radunare una corte di giustizia dei seniori, affinché dopo una scrupolosa delucidazione della legge divina e del delitto commesso venisse pronunciata secondo diritto una saggia sentenza.
E se in questo tribunale una sola voce non giudicava degno di morte il delitto imputato, la pena della “estirpazione dal popolo” non era più applicabile. Ma anche se la condanna a morte veniva pronunciata all’unanimità, il Dio della vita aveva provveduto a creare ancora ultimi ostacoli, che rendevano difficile l’esecuzione.
I re ed i popoli del mondo, tutti quanti più splendidi d’Israele, mantenevano nella loro giurisdizione gli esecutori ufficiali della “estirpazione”. Erano i provetti carnefici, giustizieri, boia o comunque venissero timidamente chiamati, gli uomini dal braccio muscoloso e dal poderoso petto nudo, che vibravano con sicurezza la bipenne sopra la testa del colpevole o con gesto ben esercitato lo cacciavano dentro la fornace.
Non così Israele. Unico fra tutti i popoli del mondo, Giacobbe non teneva un carnefice, perché la bontà astutamente saggia della Dottrina non prescriveva una estirpazione, che potesse essere compiuta da uno solo. Ecco il significato segreto di quel processo che si chiamava lapidazione.
Qualcuno aveva peccato così gravemente, che secondo la legge divina il popolo non poteva più tollerarlo senza nuocere a se stesso. Per amore della purezza e della santità d’Israele la macchia d’infamia doveva essere cancellata e si doveva versare del sangue. Ma il sangue era una cosa sacra della vita, anche il sangue di un assassino.
Il comandamento “non ammazzare” valeva sempre e dappertutto senza la minima restrizione. Nessun individuo poteva uccidere in Israele, nemmeno un impiegato addetto all’uccisione. Solo il popolo nella sua collettività poteva difendersi da un malfattore mediante lo sterminio, non altrimenti che doveva difendersi da un nemico nella guerra cruenta. Perciò il precetto divino ordinava che tutti gli abitanti maschi del luogo, dove si eseguiva una estirpazione, si recassero fuori dalle porte per colpire a morte, ciascuno individualmente e tutti collettivamente, con la pietra aguzza in mano, l’essere nocivo.
Il sangue versato, a chiunque appartenga, grida sempre vendetta dal Cielo. Anche questo sangue versato gridava vendetta dal Cielo, ma non contro un individuo, bensì contro la comunità d’Israele, la quale doveva rispondere di tal sangue e scolparsi, il che non poteva riuscire mai a nessun tiranno né a chi aveva versato il sangue per incarico di lui.
Al tempo stesso gli uomini del tribunale, che si accingeva a pronunciare una condanna a morte, avevano sempre dinnanzi agli occhi il crudele dovere della lapidazione, che smorzava il loro sdegno, e inoltre l’opprimente responsabilità del delitto capitale di cui venivano gravare il popolo intero.
Nota sulla morte di Gesù crocifisso
In questo contesto, Gesù non è stato condannato alla lapidazione dal trbunale di Israele perchè non fu raggiunta l'unanimità (Nicodemo intervenne a suo favore). Condotto da Pilato è stato giudicato innocente secondo le leggi romane; il popolo, aizzato dai sacerdoti, ha voluto e richiesto la sua morte e ha costretto Pilato alla sentenza di condanna a morte, per crocifissione e la liberazione di Barabba. Condannato dai sacerdoti e dalla piazza d'Israele, invece di essere lapidato, è stato crocifisso dai romani. Israele lo condanna e Roma lo uccide.
D. considera G. come l'esempio tipico dell'avaro e soprattutto del traditore. Egli ha venduto Gesù Cristo (Pg XXI 84); la sua arma fu il tradimento (la lancia / con la qual giostrò Giuda, Pg XX 73-74). Rappresenta l'anima ria per eccellenza (If XIX 96). Il suo peccato è considerato gravissimo; fra tutti i dannati nessuno soffre le pene di quest'apostolo traditore, neppure i due traditori di Cesare, ossia Bruto e Cassio, che gli fanno compagnia nel posto più profondo dell'Inferno, tutti e tre maciullati da una delle tre bocche di Lucifero: " Quell'anima là sù c'ha maggior pena ", disse 'l maestro, " è Giuda Scarïotto, / che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena... " (If XXXIV 61-63; cfr. IX 27, XXXI 143). In If XIX 94-96 l'accenno a G. fa parte dell'invettiva contro i simoniaci; gli undici apostoli non pretesero né oro né argento da Mattia quando l'elessero al posto di Giuda. Senza dubbio non è casuale il fatto che G. non sia mai nominato nel Paradiso: il suo ricordo avrebbe costituito una stonatura; a lui è riservato il punto più tetro dell'Inferno.
A4
Giuda siamo noi (Il Signore - Romano Guardini)
Giuda dev’essere venuto con una reale disponibilità alla fede e alla sequela, altrimenti Gesù non l’avrebbe accolto. Almeno non abbiamo alcuna notizia di una resistenza o di un sospetto da parte del Signore - ancor meno di idee così abnormi, come se egli a priori e di proposito avesse accolto il traditore nel numero degli intimi. Non possiamo far altro se non supporre che Giuda era realmente disposto [alla sequela del Maestro].
"Non ho scelto io voi dodici, e uno di voi è un diavolo?” (Gv 6, 70). Giuda non lo era fin da principio, come ritiene il popolo; lo è diventato, e precisamente vicino al Redentore. Diciamo tranquillamente: vicino al Redentore, poiché "questi era posto a risurrezione e a caduta” (Lc 2, 34). Specialmente dopo Cafarnao la situazione per lui deve essersi fatta insopportabile. Avere perennemente davanti agli occhi questa figura; sentire di continuo la sua purezza sovrumana; avvertire sempre - e questa era la cosa più pesante - questa disposizione intima al sacrificio, questa volontà di dedizione agli uomini - tutto ciò poteva sopportarlo solo chi amava Gesù.
È già difficile abbastanza tollerare la grandezza umana - propriamente si dovrebbe dire: perdonarla - se non si è a nostra volta grandi. Ma quando è grandezza religiosa? Grandezza sacrificale divina? La grandezza del Redentore? Se allora non è presente una pura disponibilità a credere e ad amare, decisa per volontà a prendere come principio e misura questa Realtà possente nella sua santità, tutto può intossicarsi.
Una maligna eccitazione si forma in tale persona. Si ribella contro il pathos possente che è davanti ai suoi occhi; esercita della critica sulla parola e sull’atto, sempre più, con sempre maggior asprezza e odio; finché non può più sostenere il santo, non può più vedere i suoi gesti, non può più udire la sua voce…
Qui Giuda è divenuto alleato naturale dei nemici. Tutti gli istinti farisaici si sono risvegliati in lui ed egli ha visto in Gesù il grande pericolo per Israele. Al tempo stesso si è mosso quanto in lui v’era di basso. È esploso appunto nell’odio contro l’insostenibile altezza. Il denaro gli si è fatto di nuovo importante, è divenuto la tentazione soverchiante - finché forse occorse solo una piccolezza, una combinazione per far emergere il piano.
In che cosa consistette il tradimento? La risposta più semplice è certo la migliore: ai potentati doveva interessare di riuscire ad avere in loro potere Gesù nel modo meno vistoso possibile, poiché il popolo si trovava ancora sotto l’impressione dell’ingresso a Gerusalemme; ma Giuda, che conosceva le abitudini di Gesù, poteva dire loro dove coglierlo in silenzio. …. Il Dio in cui noi crediamo è il Dio che viene, che entra in casa nostra e si da in potere del nostro spirito e del nostro cuore. Quindi Egli fa conto della fedeltà di questo cuore, sulla "cavalleria" di questo spirito. Perché cavalleria? Poiché Dio quando entra nel mondo si spoglia del suo potere. Dio viene inerme nel mondo. E' un Dio che tace paziente. Ha svuotato se stesso assumendo la forma di servo. Tanto più profondo è l'appello alla fede: riconosca essa il Dio privo di apparenza e splendore e mantenga la fedeltà all'indifesa altezza. ...
Ma vi sono nella nostra vita molti giorni in cui non abbiamo abbandonato lui, il nostro sapere migliore, il nostro sentimento più santo, il nostro dovere, il nostro amore per una vanità, una sensualità, un guadagno, una sicurezza, un odio, una vendetta? Questo e' forse più di trenta denari d'argento?
Abbiamo poche giustificazioni di parlare ancora con indignazione sul traditore come su qualcosa che sta là remoto.
Giuda svela noi stessi. Lo si capisce cristianamente nella misura in cui lo si comprende a partire dalle potenzialità malvage del proprio cuore, e si prega Dio che non consenta di consolidarsi al tradimento, in cui continuamente scivoliamo. Perché se questo tradimento si consolida, si arresta; se prende possesso del cuore e il cuore non trova più una via verso il pentimento - ecco Giuda!
A5 - Dio è realista (La libertà interiore - Padre Jacques)
La grazia divina non opera in situazioni di fantasia, ideali o da sogno. Agisce nella realtà concreta, nella nostra esistenza concreta. (...) La persona che Dio ama con la tenerezza di un padre, la persona di cui egli si interessa e mediante il suo amore vuole trasformare, non e` la persona che avrei voluto essere, o che avrei dovuto essere, ma e', assai banalmente, la persona che sono. Molto spesso, ciò che blocca l'azione della grazia divina nei nostri cuori non sono poi tanto i nostri peccati o i nostri errori, quanto piuttosto la mancanza di assenso alla nostra debolezza, tutti i rifiuti, più o meno coscienti, a ciò che siamo o alla nostra situazione concreta.
A6
Monologo di Giuda (Il libro della passione - Josè Miguel Ibanez Langlois)
Nessuno dica che Gesù non l’ho amato. Dopo aver visto i Suoi primi miracoli, mi sembrava d’impazzire; mi ripetevo: rallegrati o terra è giunta la liberazione del povero; e tu Roma incomincia a tremare; e tu Giuda preparati: sarai uno dei suoi dodici re.
Ma presto cominciarono le delusioni. La cosa prese una piega vagamente spirituale; guariva servi di centurioni come se niente fosse; risolveva solo casi personali: numerosi sì, ma solo personali; cinquemila bocche affamate saziate nel deserto; ma solo in quanto bocche personali
Invece i poveri li avrete sempre con voi diceva. Bah! Presto si vide che non portava al mondo una rivoluzione politica; parlava come se la politica non esistesse. Quegli occhi chiaroveggenti vedevano solo il cuore privato; accecati dalla loro stessa luce non vedevano il mondo.
che importa il cuore di Giuda di fronte ai problemi del mondo; di fronte all’enormità storica del male e delle ingiustizie. Eppure a lui importava molto il mio cuore: io ero tutto per lui. I suoi occhi dentro di me vedevano tutto ma non vedevano i mali e le ingiustizie del popolo d’Israele.
Ah quell’eterna ambiguità: non sono re, sì lo sono, anzi, no non lo sono; o meglio lo sono, ma solo nel senso immateriale della parola, solo in senso spirituale.
Bella roba poi quell’entrata trionfale in Gerusalemme: un Rabbi vestito da prima comunione al trotto di un asinello. Costui vuole soltanto morire sgozzato. Giuda preparati che la storia ti assolverà; il senso della storia... ma non mi considero peggiore degli altri: Giovanni il carino che Gli dorme sul petto, Pietro la roccia su cui fondare la chiesa, Giacomo il tuono che dorme anche lui nella Sua mano… Maledetti undici dell’altro mondo! Ruffiani; e poi si dirà che son io il vile.
La parola vile mi perseguita dall’infanzia. La vidi scritta negli occhi del maestro; la si leggeva nelle pupille di questi galilei; si moltiplicava per undici con estrema facilità. Io non so cos’è esser vile; sò soltanto cos’è essere Giuda; e intanto Lui insiste stupidamente a voler essere un agnello sgozzato.
Da un pezzo mi guarda come fossi un moribondo; non sopporto quello sguardo mite; non sopporto le sue allusioni mistiche: Io sono Giuda e lo odio! Ah con che dolcezza sibila il serpente dell’odio. Il mio nome è importante in questi abissi: Giuda, sì son Giuda! Non avevo mai sentito una voce così bella dopo quel “Giuda vieni e seguimi”; dopo quel maledetto inganno dell’altro mondo nella mia giovinezza.
(Testo parafrasato da: "Il libro della passione" di Josè Miguel Ibanez Langlois - edizioni Ares)
Da bambino cercavo di fissare a memoria i nomi dei sette re di Roma intronati dal giorno della violazione del sacro solco; ma la mia memoria, recalcitrante e piena di vaghezza sognante, dissolveva per magia i nomi della régia sequenza e mi lasciava ripetere come un ritornello, il primo e l'ultimo dei sette Re: Romolo...Romolo...e... Tarquinio il Superbo; poi, stufo dei re davo sfogo alla mia irrequietezza e correvo verso il campo, all'inseguimento di un pallone che non si lasciava prendere; i compagni più bravi ed esperti, lo nascondevano dietro i loro piedi, spostandolo avanti e indietro, a destra e a manca; e il mio piede arrivava sempre troppo tardi, anche solo per toccarlo; ma i miei due nomi del reame, ripetuti a cantilena, coronavano trionfanti l'esclusivo bottino di conoscenza storica. Dopo qualche giorno, un terzo silenziosamente s'incuneò nella régia tiritera; così, senza preavviso, mi son trovato a ripetere: Romolo che uccise Remo, Numa Pompilio,... e Tarquinio il Superbo!
Ora, con i potenti mezzi della rete, posso permettermi di elencarli tutti, come un sapientone:
Romolo (che avrebbe regnato dal 753 a.C., anno della fondazione di Roma, al 713)
Numa Pompilio (713-670)
Tullo Ostilio (670-638)
Anco Marzio (detto anche Anco Marcio, 638-616)
Tarquinio Prisco (616-578)
Servio Tullio (578-534)
Tarquinio il Superbo (534-509)
Il mio interesse però, è per le relative storie ovvero per le due crisi che hanno portato alle "due fondazioni" sociali che hanno dato vita a due diverse ere storiche di Roma: quella Régia e quella Republicana; vale a dire: la storia dell'insediamento di Romolo e quella della fuga di Tarquinio il Superbo.
Lo stupro divino di Rea Silvia
Dopo esser sfuggito alla distruzione di Troia insieme con alcuni compagni, Enea, al termine di un lungo peregrinare, sarebbe infine approdato sulle coste del Lazio, fondando la futura città di Lavinio. Il re degli Aborigeni, Latino, avrebbe stretto con Enea un’alleanza, cementata con il matrimonio tra l’eroe troiano e la figlia del re, Lavinia.
Quest’ultimo fatto avrebbe però scatenato l’ira di Turno, re dei Rutuli e promesso sposo di Lavinia, il quale, alleatosi con l’etrusco Mezenzio, avrebbe infine mosso guerra a Latino e ad Enea. Lo scontro, violentissimo, si sarebbe concluso con la morte di Turno e la vittoria dei Troiani-Aborigeni.
A seguito della morte di Latino, anche lui perito negli scontri, Enea avrebbe assunto il comando dei due popoli, che da quel momento si sarebbero comunemente chiamati Latini. Pochi anni dopo, morto Enea, il trono sarebbe passato nelle mani del figlio Ascanio, che avrebbe infine fondato la città di Alba Longa, su cui i suoi discendenti avrebbero regnato per sedici generazioni.
Amulio, fratello minore di Numitore, ultimo re di Alba Longa, desideroso di impossessarsi del trono, avrebbe ordito un complotto ai danni del re facendo uccidere il figlio e costringendo la figlia Rea Silvia a diventare una vergine vestale, impedendole così di dar vita a una successione legittima. Poco tempo dopo, tuttavia, Rea Silvia sarebbe rimasta incinta: secondo alcuni a seguito di uno stupro perpetrato da uno dei suoi corteggiatori, secondo altri per opera del dio Marte. Amulio, temendo che questo potesse intralciare i suoi piani, avrebbe fatto rinchiudere Rea Silvia e, dopo che ella ebbe dati alla luce una coppia di gemelli, Romolo e Remo, avrebbe ordinato alle sue guardie di condurre i bambini presso un’ansa del fiume Tevere e lì di abbandonarli al loro destino.
Scrive Tito Livio: (Wikipedia)
« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, attraverso gli aruspici, chi avessero scelto per dare il nome alla nuova città e chi vi dovesse regnare dopo la fondazione. Così, per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino.
Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi il doppio quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re l’uno e l’altro contemporaneamente. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dal rabbioso scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra.
È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ammazzato aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò da solo del potere e la città appena fondata prese il nome del suo fondatore. »
(Livio, I, 6-7 – traduzione di G. Reverdito).
La legenda alternativa
Una versione alternativa che si rifà a Plutarco, racconta che Romolo fece costruire sul solco (urvus, da cui la parola Urbs = città) tracciato con l'aratro, una cinta muraria, mettendovi a guardia Celere, cui impartì l'ordine di uccidere chiunque avesse osato scavalcarla. Purtroppo Remo non era venuto a conoscenza dell'ordine imposto dal fratello e quando si avvicinò alla cinta, notando quanto essa era bassa, la scavalcò con un salto. Il fedele Celere gli si avventò contro e lo trapassò con la spada. Romolo, saputo della disgrazia, ne rimase sconvolto, ma non osò piangere di fronte al suo popolo, essendo ormai un sovrano.
Faustolo, il pastore che li aveva allevati fu inumato presso l'allora Comizio, mentre Remo fu seppellito sull'Aventino in una località chiamata Remoria, in ricordo del quale ogni 9 maggio è celebrata una festa Remuria (o Lemuria) per ricordare i defunti come ci racconta Ovidio. Romolo diventava così il primo re di Roma.
Ritornando ai sette nomi dei Re di Roma, sono convinto che i racconti legendari della fondazione mi hanno aiutato a fissare il nome del primo re; ma, per quanto riguarda il nome dell'ultimo re, il ricordo rimase vivido per quell'aggettivo di rinforzo "il Superbo" che stimolava la fantasia "fanciulla" ad arroccarsi in un'icona regia magnifica e potente...e antipatica; eh sì, perchè gli etruschi a quei tempi erano descritti dagli insegnanti filo-romani come i cattivi nemici di Roma. Dunque Tarquinio il Superbo chiudeva il ciclo "regio" e apriva il nuovo ciclo della (Res publica Populi Romani).
Uno stupro regale di Lucrezia
L'episodio dello stupro di Lucrezia da cui scaturisce la rivolta popolare contro Tarquinio il Superbo, la fine del Regno e la conseguente fondazione della prima Res publica Populi Romani, non lo ricordavo affatto; - ero in un collegio di preti e certe cose non si potevano dire ai bambini -.
La passione per il teatro e l'analisi "girandiana" dell'opera di Shakespeare, mi ha portato ad approfondire l'episodio dello Stupro di Lucrezia, a cui Shakespeare si è ispirato per scrivere e mettere in scena la commedia "I due gentiluomini di Verona" e la tragedia del poemetto "Stupro di Lucrezia"; ovvero i primi due capitoli dell'opera di Renè Girard "Shakespeare - il teatro dell'invidia". Così, un racconto storico oscurato nei tempi bambini, trova tutto il suo spazio e dà nuova luce alla storia... non solo di Roma; una storia che, nella mia conoscenza, danzava tra il sacro solcoviolato, il Ratto delle Sabine e le coltellate assassine di Bruto e company a Giulio Cesare.
Il racconto
In rete, ho rapinato qua e là quanto scritto sull'argomento da penne-tastiere più o meno autorevoli e ne ho tratto il seguente racconto.
L'episodio storico riguardante la morte di Lucrezia, ci è stato tramandato da Tito Livio nella sua la versione sulla istituzione della Repubblica dopo il periodo monarchico dei famosi Sette Re di Roma.
Secondo lo storico, era in corso a Roma un assedio alla città di Ardea e, per non annoiarsi troppo, i figli del re Tarquini il Superbo ed i nobili, durante la notte tornavano in città per controllare come passavano il tempo durante la loro assenza le loro donne.
Fra questi giovani c'era Collatino che, sicuro dell'onestà di sua moglie Lucrezia, portò con se alcuni amici ai quali aveva decantato le lodi della onesta e laboriosa moglie. Infatti, entrati nascostamente in casa, trovarono Lucrezia che filava la lana con le sue ancelle, mentre altre mogli stavano felicemente banchettando con altri uomini.
Fra gli amici di Collatino c'era il figlio del Re, Sesto Tarquinio che ne restò affascinato e preso dal desiderio di possederla. Alcuni giorni dopo, Tarquinio, all'insaputa del marito, tornò alla casa di Lucrezia, con un solo uomo di scorta e venne accolto con grande ospitalità.
Dopo cena, mentre tutti dormivano, si introdusse nella camera da letto di Lucrezia che, svegliata dal sonno tentò di respingerlo; ma l'uomo minacciò la donna con la spada dicendo che se non si fosse concessa, l'avrebbe uccisa con accanto il corpo mutilato di uno schiavo, e avrebbe sostenuto di averla colta in flagrante adulterio.
Lucrezia, per salvare il suo onore, fu costretta a cedere allo stupro del figlio del re Tarquinio; ma appena Sesto Tarquinio ripartì, Lucrezia inviò un messaggero a suo padre Spurio Lucrezio Tricipitino e uno al marito pregandoli di tornare da lei al più presto con un amico fidato perché era accaduta una grande sciagura.
Tito Livio racconta così il fatto (wikipedia):
" Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: "Tutto bene?" Lei gli risponde: "Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore?
Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che lo stupratore non rimarrà impunito.
Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo violenza in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui."
Uno dopo l'altro giurano tutti e cercano quindi di consolarla con questi argomenti:
- in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; - poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa.
Ma lei replica: "Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!" Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre. »
Il marito Collatino, il padre e l'amico Lucio Giunio Bruto decisero di vendicarla, provocando e guidando una sommossa popolare che cacciò via i Tarquini da Roma e li costrinse a rifugiarsi in Etruria.
Così nacque la Res Publica Romana, i cui primi due Consoli furono proprio Lucio Tarquinio Collatino e Lucio Giunio Bruto, artefici della sollevazione contro quello che poi fu ricordato come l'ultimo re di Roma.
Lo stupro di Lucrezia e il suo suicidio sono diventati uno dei temi rappresentati nelle arti, soprattutto a partire dal XVI secolo.
Shakespeare - Il teatro dell'invidia
Shakespeare scrisse il poemetto tragico “Stupro di Lucrezia”, su cui René Girard sviluppa la sua analisi antropologica, secondo le dinamiche del desiderio mimetico; il capitolo II dell'opera di Girard: SHAKESPEARE - IL TEATRO DELL'INVIDIA", titola: L’INVIDIA DI UN TESORO COSÌ RICCO”; in entrambi i titoli (libro e capitolo), la parola “invidia” fa bella mostra di sè; e sarà l'invidia, infatti, la chiave di lettura illuminante di tutta l'analisi girardiana.
Lo strupro come violenza in atto e l'invidia come desiderio movente costituiscono l'argomento comune tra la tragedia del poemetto e la comicità della commedia; quest'ultima infatti, mette in scena il tentato stupro di Silvia, (la donna amata Valentino), da parte di Proteo, amico fraterno di Valentino.
Dopo questa breve e personale premessa sulla relazione tra le due opere shakespeariane, nell'incipit del capitolo Girard scrive:
“Lungi dall’essere una mania passeggera del giovane Shakespeare, il desiderio mimetico è ciò che struttura i rapporti umani non solo nelle sue opere teatrali, ma anche nello Stupro di Lucrezia, un poemetto pubblicato nel 1594, lo stesso anno in cui, secondo la maggior parte degli studiosi, egli scrisse I due gentiluomini di Verona”.
Lette queste poche righe, il mio pensiero si è arpionato nella convinzione che la tesi di Renè Girard, scevra da psicologismi oscuri, consunti e nascosti, e comunque insufficienti a spiegare l'efferatezza bestiale di uno stupro, carica tutto il peso distruttivo della violenza, sull'invidia; cioè sul desiderio di possesso della femmina da parte del maschio; un rabbioso desiderio per conquistare la supremazia sul rivale invidiato, il suo idolo e mediatore, il amico fraterno. Il maschio violentatore Proteo vuole essere Valentino.
Per Girard-Shakespeare, l'invidia (desiderio mimetico) è la base su cui si strutturano tutti i rapporti dell'umana commedia.
Il capitolo VI dell’opera "La violenza e il sacro” di René Girard, titola: "Dal desiderio mimetico al doppio mostruoso”. Riporto una sintesi scelta di questo capitolo, finalizzata a descrivere la genesi dei rituali e delle maschere.
La maschera ha la fondamentale funzione di transito tra l'umano e il divino, tra la realtà e il suo aldilà; un aldilà "indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un ordine rinnovato", scrive Girard che sulla maschera, specifica:
"La maschera è al di là delle differenze, non si accontenta di trasgredirle o di cancellarle, se le incorpora, le ricompone in modo originale; in altre parole, fa tutt’uno con il doppio mostruoso."
Il rito
La violenza: un dio seducente pronto a prostituirsi agli uni e agli altri
"La trascendenza non può ridiscendere tra gli uomini se non ricadendo nell’immanenza trasformandosi in una seduzione propriamente immonda".
Mentre muoiono le istituzioni e i divieti che poggiavano sull’unanimità fondatrice, la violenza sovrana vaga tra gli uomini ma nessuno riesce a mettere le mani su di essa e possederla in modo duraturo. Pronto, almeno in apparenza, a prostituirsi agli uni e agli altri, il dio sceso dal cielo finisce sempre per sfuggire, seminando rovine dietro di sé. Tutti coloro che vogliono possederlo, escludendo gli altri, finiscono per uccidersi a vicenda.
La rivalità verte sulla divinità stessa, ma dietro alla divinità è rivaleggiare per niente: la rivalità non ha altra realtà che quella trascendente, una volta che la violenza sia stata espulsa, una volta che sia definitivamente sfuggita agli uomini. La rivalità isterica non genera direttamente la divinità: la genesi del dio si effettua solo per il tramite della violenza unanime di tutta la comunità.
Nella misura in cui la divinità è reale, non è onnipotenza, non è una posta in gioco. Nel momento in cui la si considera una posta, essa si rivela un’illusione che finirà per sfuggire a tutti gli uomini senza eccezione. Nessun uomo è onnipotente.
…e Dionisio si diverte a veder gli uomini che, come le Baccanti, brancolano nel bosco della violenza per appropriarsene esclusivamente, con l'illusione di trasformarsi così in divinità, gli uni per gli altri: ma la trasformazione non avviene e tra gli uomini è il dominio del caos; un riflesso del caos primordiale che l'uomo rivive nella violenza del sacrificio rituale.
“… non è più il valore intrinseco dell’oggetto desiderato a provocare il conflitto tra gli uomini, eccitando bramosie rivali, è la violenza stessa che valorizza gli oggetti che dinventano desiderabili, che inventa pretesti per meglio scatenarsi. È la violenza ormai a dirigere il gioco; è lei la divinità che tutti tentano di padroneggiare ma che si fa gioco di tutti successivamente, è il Dioniso delle Baccanti."
“Al parossismo di questa crisi, la violenza è al tempo stesso, lo strumento, l’oggetto e il soggetto universale di tutti i desideri. Ecco perché sarebbe impossibile qualsiasi forma di esistenza sociale se non vi fosse una vittima espiatoria, se, al di là di un certo parossismo, la violenza non si risolvesse in nuovo ordine culturale. Al circolo vizioso della violenza reciproca, totalmente distruttrice, si sostituisce allora il circolo vizioso della violenza rituale, creatrice e protettrice."
Le maschere
L’uso delle maschere come pratica rituale.
Le maschere sono da annoverare tra gli accessori d’obbligo di numerosi culti primitivi, ma non possiamo rispondere con certezza a nessuna delle domande poste dalla loro esistenza. Che cosa rappresentano, a che servono, qual’è la loro origine? Dietro la grande varietà degli stili e delle forme, deve esserci una unità della maschera alla quale siamo sensibili anche se non riusciamo a definirla.
Mai infatti, quando ci troviamo in presenza di una maschera, esitiamo a identificarla in quanto maschera. L’unità della maschera non può essere estrinseca. La maschera esiste in società molto lontane nello spazio, perfettamente estranee le une alle altre. Non è possibile far risalire la maschera a un centro di diffusione unico. Si sostiene a volte che la presenza quasi universale delle maschere risponde a un bisogno ”estetico”.
Gli uomini hanno sete di “evasione”; non possono fare a meno di creare delle forme, ecc. Non appena ci si sottrae al clima irreale di un certo tipo di riflessione sull’arte, ci si accorge che questa non è una spiegazione vera. L’arte ha una destinazione religiosa.
Le maschere devono servire a qualcosa di analogo in tutte le società. Le maschere non sono “invenzioni autonome". Hanno un modello che può, certo, variare da una cultura all’altra ma di cui certe caratteristiche rimangono importanti.
Non si può dire che le maschere rappresentino il volto umano ma sono a esso quasi sempre legate, in quanto destinate a ricoprirlo, dargli il cambio o, in un modo o nell’altro, sostituirsi a esso nell'apparenza.
Maschera in bronzo di Papposileno, Roma, Fondazione Sorgente Group
Come la festa nella quale assume spesso un ruolo di primo piano, la maschera presenta combinazioni di forme e colori incompatibili con un ordine differenziato che non è, in primo luogo, quello della natura ma quello della cultura stessa.
La maschera unisce l’uomo e la bestia, il dio e l’oggetto inerte. Victor Turner, in uno dei suoi libri, menziona una maschera ndembu che raffigura a un tempo una figura umana e una prateria. La maschera affianca e mescola esseri e oggetti separati dalla differenza. La maschera è al di là delle differenze, non si accontenta di trasgredirle o di cancellarle, se le incorpora, le ricompone in modo originale; in altre parole, fa tutt’uno con il doppio mostruoso.
Le cerimonie rituali che richiedono l'uso della maschera, riproducono l'esperienza originaria. È spesso al momento del parossismo, appena prima del sacrificio, che i partecipanti indossano le maschere, perlomeno coloro che hanno nella cerimonia un ruolo essenziale.
I riti fanno rivivere a quei partecipanti tutti i ruoli successivamente sostenuti dai loro antenati nel corso della crisi originaria. In un primo tempo fratelli nemici, nei simulacri di combattimento e nelle danze simmetriche, i fedeli scompaiono in seguito dietro le loro maschere per tramutarsi in doppi mostruosi.
La maschera non costituisce una comparsa ex nihilo; essa trasforma l’apparenza normale degli antagonisti. Le modalità dell’uso rituale, la struttura in seno alla quale si inserisce la maschera, nella maggior parte dei casi, sono rivelatrici più di tutto ciò che coloro che l’indossano possano dirne al riguardo. Se la maschera è fatta per dissimulare tutti i visi umani a un determinato momento della sequenza rituale (in genere prima del sacrificio), è perché la prima volta le cose sono andate così. Occorre riconoscere nella maschera una interpretazione e nel rito, una rappresentazione dei fenomeni originari fondativi già descritti.
Non c’è da chiedersi se le maschere rappresentino ancora gli uomini, o già gli spiriti, esseri soprannaturali. La maschera si colloca all’equivoco confine tra l’umano e il divino, tra l’ordine differenziato che sta disgregandosi e il suo aldilà indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un ordine rinnovato. Non c’è da interrogarsi sulla natura della maschera; è nella sua natura di non averne alcuna, poiché le ha tutte.
Come la festa e tutti gli altri riti, la tragedia greca inizialmente non è altro che una rappresentazione della crisi sacrificale e della violenza fondatrice. L’uso della maschera nel teatro greco non esige quindi nessuna spiegazione particolare; non si distingue assolutamente dalle altre consuetudini. La maschera scompare quando i mostri ridiventano uomini, quando la tragedia dimentica completamente le sue origini rituali, il che non vuol certo dire che abbia smesso di svolgere il suo ruolo sacrificale, nel senso lato del termine. Si è anzi completamente sostituita al rito.
Il brano che segue, tratto dal romanzo "Le braci" di Sandor Marai, è stato scelto per l'efficacia argomentativa sull'innato desiderio di uccidere dell'uomo e per una portentosa descrizione di un gesto sacrificale nel mondo arabo.
Affiorano in questo brano, quelle figure che caratterizzano le tesi antropologiche con cui René Girard approfondisce analisi, motivazioni e finalità del "desiderio mimetico".
Questi affioramenti, partendo da una circoscritta e attenta osservazione, distinguono ed evidenziano nella natura umana, un latente e irriducibile carattere "bestiale". L'uomo è visto antropologicamente come animale aggressivo, violento e capace di compiere cruente uccisioni ed efferati abominii. Ma è sempre l'uomo che è capace di ordinare questa viscerale violenza, questo innato desiderio di uccidere nell'ambito religioso, con l'immolazione della vittima sacrificale.
Sandor Marai in queste pagine mostra una maestria particolare nel descrivere le sensazioni dei personaggi, facendo rivivere al lettore le situazioni che le suscitano. La "memoria affettiva", descritta da Girard nel suo "Menzogna romantica e verità romanzesca", è la linfa che alimenta il racconto che il generale fa al suo amico "non ritrovato"; la memoria di una giornata di caccia dove viene messa a nudo la verità sull'uomo e sul suo innato e viscerale desiderio di uccidere.
L'uomo ha bisogno di un "tomtom" per ritrovare se stesso
Buona lettura.
"Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili (una di quelle amicizie maschili non meno intense del rapporto fra due gemelli monozigoti), tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava, per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: «una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione». Tutto converge verso un «duello senza spade» – e ben più crudele. Tra loro, nell’ombra, il fantasma di una donna." (Risvolto di copertina del romanzo Le Braci di Sandor Marai)
Il desiderio di uccidere.
Siamo uomini, uccidere è un imperativo della nostra vita. Non possiamo fare diversamente…
L'uomo uccide per difendere qualcosa, uccide per procurarsi qualcosa, uccide per vendicarsi di qualcosa.
...tuttavia la caccia rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell'uomo. (Sandor Marai)
"Fu una bella caccia. Fu l'ultima grande caccia che si tenne in questi boschi. A quei tempi esistevano ancora dei cacciatori, dei veri cacciatori… può darsi che ce ne siano ancora oggi, non lo so. Quella fu l'ultima volta che andai a caccia nei miei boschi. Da allora qui si presentano solo uomini armati di fucile, ospiti che vengono accolti dall'amministrazione della tenuta e fanno esplodere colpi di arma da fuoco nel bosco. La caccia era quella vera, era qualcosa di diverso. Tu non puoi capirlo perché non sei mai stato un cacciatore.
Per te anche questo rappresentava solo un obbligo, uno degli obblighi da gentiluomo che facevano parte del tuo mestiere, come l'equitazione o la vita di società. Andavi a caccia, sì, ma con l'aria di chi si sottomette a una convenzione sociale. Andavi a caccia col disprezzo scritto in volto. E anche l'arma che reggevi con noncuranza, come un bastone da passeggio.
Non essendo cacciatore, non conoscevi quella strana passione, la più segreta dell'animo maschile, al di là di ogni ruolo e cultura, radicata e profonda come il fuoco nelle viscere della terra. Questa passione è il desiderio di uccidere. Siamo uomini, uccidere è un imperativo della nostra vita. Non possiamo fare diversamente… L'uomo uccide per difendere qualcosa, uccide per procurarsi qualcosa, uccide per vendicarsi di qualcosa.
Sorridi con disprezzo? Tu eri un artista: forse questi istinti bassi e brutali si sono attenuati nella tua anima delicata?… Credi di non aver mai ucciso qualcosa di vivo? Non esserne così sicuro. In questa serata che ci vede riuniti non ha senso parlare di nient'altro all'infuori della verità, dell'essenziale, perché il nostro incontro non si ripeterà, e forse non saranno più molti i giorni e le sere che che seguiranno, tantomeno poi le serate speciali come questa.
Forse ricorderai che una volta, tanto tempo fa, andai anch'io in Oriente; fu durante il mio viaggio di nozze con Krisztina. Attraversammo terre abitate dagli arabi, e a Baghdad fummo ospitati da una famiglia araba. E' gente di grande nobiltà d'animo, come saprai anche tu che hai girato il mondo. La loro fierezza, il loro contegno dignitoso, la loro passionalità e la loro calma, la disciplina del loro corpo e la sicurezza dei loro gesti, i loro giochi, il fuoco del loro sguardo, tutto rispecchia una nobiltà di antica data, quella particolare nobiltà dei tempi in cui l'uomo, nel caos dei primordi, prese coscienza per la prima volta della propria dignità umana.
Esiste una teoria secondo la quale la nostra specie ha avuto origine dal mondo arabo, all’inizio dei tempi, prima di frazionarsi in tribù, popoli e civiltà diverse. Forse è per questo che sono talmente orgogliosi. Non lo so, non sono addentro in questioni del genere… Invece so qualcosa della fierezza degli uomini. Così come gli individui, anche in assenza di particolari segni distintivi, riconoscono di appartenere alla stessa razza e allo stesso rango, durante quelle settimane in Oriente intuii che laggiù tutti, anche il più sudicio dei cammellieri, erano dei signori.
Come ti dicevo abitavamo presso una famiglia indigena, in una casa che era una specie di palazzo; ci ospitavano dietro raccomandazione del nostro ambasciatore. Quelle case candide e fresche… Le conosci, non è vero? Il grande cortile, in cui ferve incessantemente la vita della famiglia e della tribù, e che serve al tempo stesso da mercato, da parlamento e da luogo di preghiera… Quella scioltezza w quella passione dei giochi che traspare da ogni loro gesto. Quell’inerzia dignitosa, dietro alla quale il piacere di vivere e le passioni si annidano come il serpente tra le pietre immobili battute dal sole.
Una sera, in nostro onore, venne offerta una cena. Fino a quel momento ci avevano ospitati secondo uno stile quasi europeo; il padrone di casa, uno degli uomini più facoltosi della città, era giudice e al tempo stesso contrabbandiere. Le camere degli ospiti erano arredate con mobili inglesi, la vasca da bagno era di argento massiccio.
Ma quella sera vedemmo qualcosa di eccezionale. Gli invitati arrivarono dopo il tramonto; erano tutti uomini, signori con i loro servi. In mezzo al cortile divampava un fuoco che emanava un fumo soffocante, il fumo dello sterco di cammello che fa bruciare gli occhi. Tutti si sedettero in silenzio attorno al fuoco. Krisztina era l’unica donna tra noi.
Quindi portarono un agnello, un agnello bianco, e il padrone di casa tirò fuori il coltello e lo sgozzò, con un gesto che non potrò mai dimenticare… È impossibile impararlo, perché è un gesto orientale che risale a un’epoca in cui l’atto di uccidere possedeva ancora un significato simbolico, religioso, collegato a qualcosa di essenziale: la vittima.
Fu così che Abramo alzò il coltello su Isacco, quando decise di compiere il sacrificio; con quel gesto, nei templi dell’antichità si immolavano gli animali dinanzi all’altare, all’idolo, al simulacro della divinità; con il medesimo gesto venne decapitato San Giovanni Battista. In Oriente esso sopravvive in maniera occulta nelle mani di ogni uomo. Fu questo gesto a segnare l’avvento dell’uomo, a stabilire la distinzione tra l’animale e l’essere umano...
Secondo gli antropologi, l’uomo nacque quando acquistò la facoltà di opporre il pollice alle altre dita ossia nell’istante in cui riuscì a impugnare un’arma, uno strumento di lavoro. Ma può anche darsi che i suoi inizi siano legati alla sua anima piuttosto che ai suoi pollici; su questo non sono in grado di pronunciarmi.
Il gentiluomo arabo sgozzò l’agnello e per un attimo quell’uomo anziano avvolto in un burnus bianco, sul quale non era schizzata neanche una goccia di sangue, apparve simile a un gran sacerdote orientale nell’atto di immolare la vittima sacrificale. Gli brillavano gli occhi che sembrava ringiovanito.
Tutt’intorno regnava un silenzio di tomba. Gli invitati sedevano attorno al fuoco, seguivano con lo sguardo l’atto di infliggere il colpo mortale, il balenio della lama, il corpo dell’agnello che si dibatteva, il sangue che sgorgava a fiotti. Gli occhi di tutti i presenti luccicavano.
Allora compresi che quella gente era ancora così vicina all’atto di uccidere che la vista del sangue le era familiare, e il balenio di un coltello era per loro un fenomeno naturale come il sorriso di una donna o la pioggia che cade. Immagino che lo avvertisse anche Krisztina, perché la vedevo come affascinata; arrossiva, impallidiva, respirava a fatica, poi tutt’a un tratto voltò la testa, per l’imbarazzo di assistere a una scena di sfrenata sensualità.
Comprendemmo che in Oriente la gente conosce ancora il significato sacro e simbolico dell’uccisione, e anche il suo occulto significato erotico. Giacchè sorridevano tutti, e su quei nobili volti bruni si vedevano espressioni di giubilo e sguardi estasiati, come se l’uccisione fosse qualcosa di salutare e di esaltante, simile a un amplesso.
È strano: nella lingua ungherese queste due parole, uccisione e amplesso, rimano tra loro e derivano l’una dall’altra… Ovviamente noi siamo degli occidentali” dice con voce diversa, in tono un po’ didascalico. “Apparteniamo all’Occidente, o per lo meno siamo degli immigrati divenuti ormai sedentari.
L’uccisione, per noi, rappresenta una questione giuridica e morale o un problema di pertinenza medica, comunque una cosa ammessa o proibita, un fatto definito con la massima precisione da un ampio codice morale e giuridico. Anche noi uccidiamo, ma in maniera più complicata, secondo i modi prescritti o autorizzati dalla legge. Uccidiamo in difesa di ideali sublimi e di beni umani preziosi, uccidiamo per tutelare le regole della convivenza umana. Nè possiamo fare diversamente. Siamo cristiani, adepti della civiltà occidentale, siamo portati a sentirci colpevoli.
La nostra storia è disseminata fino ai nostri giorni di una lunga serie di stermini, eppure parliamo dell’uccisione tenendo gli occhi bassi, in tono di pia recriminazione; non possiamo fare diversamente, è questo il ruolo che ci è stato assegnato.
Solo la caccia fa eccezione” dice rasserenandosi.
"Anche in questo caso dobbiamo osservare certe regole cavalleresche e di ordine pratico, risparmiamo la selvaggina nella misura in cui lo esigono le condizioni di una determinata zona, tuttavia la caccia rappresenta ancora un sacrificio, un riflesso imperfetto di un antichissimo rito religioso che ha la stessa età dell'uomo. Perchè non è vero che il cacciatore uccide per procurarsi la preda. Non ha mai ucciso unicamente per questo, neanche in epoca primordiale, ai tempi in cui la caccia era l'unica possibilità di procacciarsi il cibo.
La caccia è stata sempre accompagnata da riti di ordine tribale e religioso. Il buon cacciatore è sempre stato il primo della sua tribù, che gli attribuiva poteri e dignità di sacerdote. Naturalmente tutto questo si è perso con il passare del tempo. Ma sebbene i riferimenti siano ormai sbiaditi, la caccia ha conservato la sua natura di rito.
Forse non ho mai amato nulla in vita mia come quelle partenze per la caccia alle prime luci dell'alba. Ci si sveglia che è ancora buio, ci si veste in modo totalmente diverso dagli altri giorni, con indumenti adatti alla circostanza, si fa colazione in maniera diversa, ci si rincuora con un bicchiere di acquavite e sbocconcellando un po' di arrosto freddo nella stanza illumunata da una lanterna.
Amavo l'odore degli abiti da caccia; il panno era impregnato degli effluvi del bosco, delle fronde, dell'aria pura e degli schizzi di sangue, perchè gli uccelli abbattuti si attaccano alla cintura e il loro sangue insudicia gli abiti. Ma il sangue è sudiciume?... Non credo. È la materia più nobile che esista al mondo: ogni volta che l'uomo ha sentito il bisogno di comunicare il suo Dio qualcosa di grandioso, di ineffabile, lo ha sempre fatto offrendogli un sacrificio di sangue. E poi amavo l'odore di metallo oliato del fucile. E l'odore acre e ammuffito delle parti in cuoio grezzo dell'equipaggiamento da caccia.
Amavo tutto questo" dice il generale quasi con vergogna, come fanno i vecchi quando confessano qualche piccola debolezza. "E poi esci di casa e scendi nel cortile, i tuoi compagni ti stanno già aspettando, il sole non è ancora spuntato, il guardacaccia tiene i cani al guinzaglio e ti riferisce sottovoce gli avvenimenti della notte. Poi sali in carrozza e parti.
Il paesaggio comincia a destarsi, il bosco si stiracchia, sembra che si strofini gli occhi uscendo dal sonno. Tutto esala un profumo così puro che ti sembra di tornare in una patria diversa, quella in cui ebbero inizio la vita e le cose. Poi la carrozza si ferma ai margini del bosco, tu scendi, il cane e il guardacaccia ti accompagnano in silenzio. Il fruscio del fogliame umido si percepisce appena sotto le suole dei tuoi scarponi.La pista è disseminata di tracce di animali.
E adesso tutto comincia a vivere intorno a te: la luce, come se mettesse in moto un meccanismo nascosto che aziona il sipario del mondo, squarcia il velo che ricopre la foresta. Inizia il concerto degli uccelli e, in lontananza, a trecento passi di distanza, un cervo sta avanzando sul sentiero. Ti ritrai nel folto della boscaglia per osservarlo. Sei venuto col cane, oggi non fai la posta ai cervi...
La bestia si ferma, non vede niente, non fiuta la tua presenza perchè il vento soffia nella tua direzione, e tuttavia avverte il pericolo fatale; solleva la testa, torce il collo delicato, le sue membra si tendono, per alcuni istanti rimane immobile davanti a te, in posizione di attesa allarmata, come un individuo messo di fronte al suo destino si arresta impotente perché sa che il fato non è un evento fortuito nè un incidente, ma la conseguenza naturale di circostanze imprevedibili e difficilmente comprensibili.
A questo punto sei pentito di non aver portato con te delle cartucce a pallettoni. Anche tu, immobile nel folto del bosco, sei a tua volta in balia dell'attimo, tu, il cacciatore.
E nella mano avverti un fremito antico come l'uomo, l'impulso di uccidere, questa attrazione proibita, questa passione più forte di tutto il resto, uno degli stimoli segreti, nè buoni nè cattivi, che animano la vita in tutte le sue forme: essere più forti dell'altro, dimostrarsi più abili, non commettere errori, restare padroni della situazione.
È la stessa sensazione che prova il leopardo mentre si prepara a balzare, il serpente mentre si rizza tra le rocce, l'avvoltoio mentre piomba sulla preda da mille metri di altezza. La stessa che prova l'uomo mentre scruta la sua vittima. Ed è quella che provasti anche tu, forse per la prima volta in vita tua, quando, appostato nel bosco, alzasti l'arma e la puntasti su di me con l'intensione di uccidermi."
Il generale si china sul tavolino che si trova in mezzo a loro davanti al camino; si riempie il bicchiere e assaggia con la punta della lingua il liquore purpureo e sciropposo. Quoindi rimette il bicchiere sul tavolo, con aria soddisfatta.
Pier Paolo Pasolini ha visto così il "sacrificio" assoluto per l'umanità:
“L’immagine rispecchia il sacro come un’eco rimanda il suono al luogo d’origine.” (René Girard)
Novembre 1974. Mi apprestavo a compiere il quinto lustro e la vita mi stava scivolando addosso senza lasciare traccia. Ci accomunava una certa parentela con gli sposi e il fatto che eravamo diversi: io maschio, lei femmina. La guardavo per scoprire qualcosa che mi potesse arpionare a lei e con lei, alla vita.
Al tavolo che ci ospitava per il pranzo, lei era seduta quasi di fronte a me e parlava con i ragazzi che le erano seduti accanto. Io la osservavo e ascoltavo senza intervenire, ma il fatto che parlasse con loro un po’ m’infastidiva; non la volevo condividere con gli altri; desideravo l’esclusiva.
Era carina, più giovane di me, un’adolescente in una delle sue prime uscite sociali. Mi affascinava il suo modo di tenere a bada quei ragazzi: annullava con arte e con garbo, qualsiasi tentativo di sorprenderla. Evidentemente non gradiva la loro compagnia ed io lo percepivo. Volevo stare con lei; magari con una scusa trovarci soli e parlare di noi tra noi, senza sguardi indiscreti.
L’occasione si presentò e ci trovammo fuori in giardino da soli. Lei parlava, io ascoltavo e di tanto in tanto interloquivo con monosillabi di consenso e di sostegno alle sue perifrasi esistenziali. Mi parlava di lei, delle sue sofferenze, dei suoi rapporti con i genitori, del suo sentirsi oppressa, prigioniera, relegata in ruoli che non gradiva; del suo rapporto difficile con il padre, con la scuola e con il lavoro; del suo non sentirsi libera. Era bellissima, più parlava e più mi piaceva. Una ribelle come me.
Con una scusa trovai il coraggio di prenderle le mani e tenerle tra le mie. Le toccavo, le accarezzavo; lei se le lasciava trastullare. Sentivo che muoveva docilmente le sue dita chiuse nella mia mano; sentivo il suo abbandono, il suo lasciarsi guidare in quei movimenti docili e minimi delle dita. Si era avvicinata con il suo corpo al mio; la sentivo senza toccarla; i nostri corpi quasi respiravano insieme. Non ne ero ancora consapevole, ma accanto a me c’era la donna della mia vita.
Quella stessa donna che nel novembre del 1974, in un giardino di un ristorante romano, teneva le sue mani nelle mie, mi ha chiesto ora di scrivere la prefazione del suo primo libro. Mi sono sentito importante e, per qualche giorno mi sono crogiolato in un intimo e sottile piacere di vanità che ha orientato i miei tentativi di approccio verso improbabili e assurde elucubrazioni letterarie. Poi sono tornato alla realtà di un libro scritto con amore e che parla d’amore in tutte le forme in cui si è presentato a una donna del nostro tempo.
«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale del XIX secolo» . (René Girard)
La tensione di Eva non è proprio un romanzo, cui Renè Girard si riferisce per rilevare l’approccio interpretativo basato sul realismo ermeneutico, ma è una raccolta di racconti e poesie estemporanee che indicano il cammino di donna dell’autrice; un cammino visto come “il romanzo” dell’asserzione girardiana. Dall’intimo conflitto esistenziale di una ragazza piena di femminilità, che il padre in cuor suo desiderava fosse maschio (“ah se tua sorella fosse nata maschio, allora sì…”Prima che Lady Macbeth), alla riconciliazione affettiva, amorevole e filiale di una donna matura con quello stesso padre, uomo ormai vecchio, rugoso e sorridente (vola il pensiero mio / alla speranza di guardarti per molto tempo ancora - Ti guardo ora).
Un cammino in cui il sogno e la realtà sono espressi in un’unica unità narrativa. Una narrazione che riflette il vissuto sentimentale ed emozionale dell’autrice. Sogno e realtà dunque, come unica verità, agita e mediata da una donna che non vuole rinunciare alla sua natura femminile nonostante i tempi e le situazioni le chiedano il contrario. Una femminilità preziosa, che sola può condurla a quella “maternità” che pervade e risplende nei componimenti La carezza nell’anima ed Eri mio figlio, e a quell’unicum coniugale che traspare dal racconto-monologo La valigia.
In questa raccolta l’autrice ha scelto e riunito i suoi componimenti, scritti in tempi e situazioni diverse, (dalla conduzione della casa e della famiglia, all’educazione dei figli, dalla condivisione coniugale, al lavoro professionale, fino alla sua rilevante e personale esperienza teatrale e cinematografica, ecc.). Il risultato è un insieme organico che rappresenta il suo romanzo ovvero la sintesi emozionale di fatti e accadimenti che hanno forgiato la sua personalità.
Lo stile seguito è libero, scevro da qualsiasi classificazione e catalogazione; una sorta di diario poetico e narrativo in cui l’esperienza teatrale dell’autrice riaffiora nelle fervide immaginazioni sceniche e nelle trame. Racconti e poesie rese in una sequenza ordinata, non sempre secondo la cronologia in cui sono state scritte, ma secondo i richiami emozionali della sua memoria affettiva; un ordine che segue comunque un filo logico che lega i singoli componimenti e che culmina nell’ultima e dolcissima poesia Ti guardo ora.
La lettura in sequenza di questi componimenti, (che in parte mi erano, singolarmente già noti), rende l’immagine di una donna viva e vera. Una donna le cui gioie, sofferenze e le emozioni vissute, deposte nelle pieghe più recondite della sua anima femminile, hanno formato e caratterizzato la sua poliedrica personalità d’artista, di figlia, di moglie, di mamma… di donna.
Un diario intimo della quotidianità. Un riflesso poetico di un’esistenza femminile del nostro tempo. Un’opera che ci racconta i sogni e i ricordi di una donna, trasfigurati sublimati dalla sua memoria affettiva. Un’opera che è appunto quella girardiana “immagine che rispecchia il sacro come un’eco che rimanda il suono al luogo d’origine.”