di Rosario Frasca
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“Le parole sono importanti” prima sussurra e poi urla Nanni Moretti, in preda ad un raptus nevrotico e schiaffeggiando la malcapitata intervistatrice che gli rivolge domande inzeppate di luoghi comuni. (Palombella rossa).
Sandor Marai, nel romanzo Le Braci, non lascia niente
ai luoghi comuni o all’immaginazione, tutto è detto minuziosamente
in progressivi e incalzanti monologhi dei protagonisti; e mostra magistralmente
quanto siano importanti le parole e i silenzi; talmente importanti che
gli avvenimenti e la storia stessa sono narrati in un profluvio
di parole che scavano l’anima ormai incenerita dei protagonisti;
parole che come un soffio spazzano la cenere degli anni fino ad arrivare
alle braci ancora ardenti che lentamente e inesorabilmente consumano
l’esistenza.
La storia non è resa come una serie di avvenimenti oggettivi e
sequenziali, ma come scenario di un vissuto soggettivo del personaggio.
Il Generale attende quarantuno anni, in ostinato isolamento e lontano
dalla moglie, il ritorno dell’amico, fuggito in oriente per evitare
la guerra e sfuggire a un’ineluttabile resa dei conti. Questo almeno
sembra a chi legge senza approfondire più di tanto gli avvenimenti
e le situazioni narrate. Situazioni che non sono descritte da un punto
di vista esterno alle vicende raccontate, ma dai personaggi stessi che
le vivono. Nulla quindi può assumere veste di “verità storica”,
ma tutto è “veramente vissuto”, sofferto e gioito
da chi racconta.
Il romanzo è quindi una dilatazione temporale dell’incontro-confronto
risolutivo che entrambi gli amici hanno atteso nelle loro opposte peregrinazioni
esistenziali. La storia si sviluppa, anzi i loro racconti sono resi in
una successione d’incalzanti monologhi intercalati da brevi fasi
descrittive di luoghi e di personaggi. In questa dilatazione smisurata
dell’anima, i due amici si raccontano tutto senza niente svelare;
tutto rimane non detto nonostante il profluvio di parole.
La “terza
verità” resta imprigionata nelle pagine
di un diario; un “libretto giallo legato con un nastro azzurro” che
il Generale non ha voluto leggere per rispetto della moglie e che in
occasione dell’incontro, offre alla lettura dell’amico-rivale il
quale non sa far di meglio che opporre il suo deciso rifiuto. La resa
dei conti tra i due amici si consuma in quei lunghi interminabili istanti;
ma la “terza verità” resta nascosta nei meandri
più remoti delle loro anime mentre, nel caminetto accanto a loro
si consumano ancora le braci ormai esauste delle loro solitudini.
Il racconto è sapientemente
sviluppato dai diversi punti di vista che svelano a poco a poco, oltre
alla storia, anche la psicologia e le personalità contrastanti
dei personaggi; il tutto sfocia in una sorta di ”ultima cena” di
fedeltà tradite, invidie
taciute e amori confermati e inespressi. Questa diversità di punti
di vista connota la prosa di una certa vivacità, offrendo a chi
legge anche squarci di sorprendente e inaspettata poesia.
Non c’è spazio per l’amore in queste pagine; eppure
l’amore è l’incontrastato dominatore dei sentimenti
che, come linfa invisibile, alimenta passioni e solitudini esistenziali
dell’ostinato e orgoglioso Generale e dell’amico traditore,
in fuga dalle situazioni galeotte, dalla verità e da se stesso.
Uno scontro tra due modi di intendere la vita che riflettono il contrasto
tra il vecchio mondo aristocratico del Generale e l’incalzante
mondo borghese che reclama la sua superiorità culturale; una superiorità che
si rivela sempre più fittizia e non sufficiente a rimpiazzare
i valori della tradizione. Un contrasto culturale storicamente confermato
ed espresso dal primo conflitto mondiale che fa da sfondo alle vicende
narrate.
La donna oggetto e soggetto delle passioni narrate è sublimata
dal rispettoso atteggiamento degli amanti che con le loro parole sembrano
proteggerla dal sudiciume che le passioni comportano. Il suo silenzio
colora di rosa pastello le cupe atmosfere del rancore e dell’invidia.
Lei e il ricordo di lei, aleggia nei monologhi come angelo senza dimora;
lei è ancora l’unica ragione per cui valga la pena parlare
e tacere, per il marito, per l’amante inespresso; e per chi ha
la fortuna di leggere questo romanzo di grande respiro, che offre le
intimità taciute dell’amore esistenziale.
Rosario Frasca (Pozzallo, Ragusa, 18/12/1951) si trasferisce a Roma nel 1957. Compiuti gli studi tecnici, nel 1971 lavora presso un ente ministeriale dello spettacolo; nel 1972 all'INAIL di Torino e nel 1974 alla Direzione Generale di Roma. Dal 2012 è in pensione e ritorna a frequentare teatro e teatanti; e a coltivare le passioni giovanili per arte, musica, cinema e letteratura. Collabora con articoli, recensioni e discussioni nel sito di Letteratour, applicando le dinamiche del "desidero mimetico" di René Girard.
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