"Tutti gli eroi del romanzo s'attendono dal possesso una metamorfosi radicale del loro essere."
Il capitolo secondo del suo "Menzogna Romantica e Verità Romanzesca", René Girard sceglie di titolarlo con una frase emblematica "gli uomini saranno dei gli uni per gli altri”.
In questo titolo, Girard, configura il carattere trascendente del "desiderio mimetico”, assegnando ad un ente divino, il ruolo di mediatore, uno dei tre vertici del triangolo mimetico.
Il desiderio mimetico triangolare si articola e si sviluppa geometricamente nei tre vertici del triangolo:
il soggetto che desidera
l'oggetto del desiderio
il mediatore
"L'oggetto non è che un mezzo per raggiungere il mediatore. È all'essere del mediatore che mira il desiderio".
Il desiderio mimetico trascendentale, è caratterizzato da una dinamica tutta “interiore”, ovvero: il mediatore è la proiezione ideale interna del soggetto che desidera; mediatore e soggetto sono, dunque, nella stessa persona: la realtà e la sua proiezione ideale (divinità).
Girard chiama questo tipo di mediazione interna:
"Parleremo di mediazione interna laddove la distanza tra le due sfere di possibili, che s'accentrano rispettivamente sul mediatore e sul soggetto, sia abbastanza ridotta perchè le due sfere si compenetrino più o meno profondamente."
La compenetrazione totale nella stessa persona tra le due sfere di possibili del soggetto e del mediatore, tra l'uomo e il suo dio, genera un ibrido uomo-dio che non si lascia definire nella concretezza della realtà. Il superuomo di Nietzche arriva a competere con una divinità che lo supera, nonostante la "volontà di potenza" l'uomo è costretto a soccombere e annichilire.
Quando due persone (soggetto e mediatore) desiderano la stessa cosa, finché l’oggetto del desiderio può essere condiviso, si instaura tra loro un'amicizia solidale e fraterna ma non appena si arriva al desiderio di possesso esclusivo dell'oggetto desiderato, da parte del soggetto o del mediatore, si innesca tra loro una irriducibile rivalità; in questa esclusività di onnipotenza, il soggetto diventa rivale del suo dio: idolo-fratello-mediatore; l'io reale diventa rivale del se stesso ideale; il soggetto diventa "antagonista" del mediatore ovvero di quello che fino ad allora era il suo dio. La schizofrenia ci sguazza in queste situazioni; il cervello di Nietzsche lo ha sperimentato.
Il soggetto che desidera la divinità del suo mediatore, in fondo desidera l'essere del mediatore; l'uomo aspira a questa qualità divina perché vuole essere dio: il divino e irraggiungibile ideale di se stesso.
Nella religione cristiana, questa sovrapposizione tra soggetto e mediatore, si realizza totalmente nella "perfetta integrazione dell'uomo con Dio”: Gesù è infatti "perfetto uomo e perfetto Dio".
Il desiderio mimetico, la società e la razza
Sotto l'aspetto sociale, le stesse dinamiche della mediazione interna che caratterizzano il desiderio mimetico, possono essere applicate e sviluppate assumendo come soggetto desiderante, non la singola persona (il superuomo) ma il popolo eletto, la super razza, perfetta ed esclusiva.
Nell'ideologia nazista, le aspirazioni e i desideri del popolo sono completamente analizzabili applicando le dinamiche del desiderio mimetico triangolare con mediazione interna.
Lo stesso discorso vale per ogni esaltazione etnica e/o razziale, in tutto il mondo, ovunque accada: laddove una sola razza si ritiene eletta da Dio e investita del ruolo di guida delle nazioni del mondo. Il principio nazista non si può identificare e confinare in un territorio ben definito; ma ha bisogno dell'identificazione divina e universale che supera la realtà frammantata delle nazioni del mondo; si attiva così una gestazione fagocera dell’ideale nazista che si avvilupperà e divorerà tutto l’esistente, con le stesse dinamiche del "buco nero” definito in astrofisica; una superpotenza omnivora e insaziabile... il principio del perfetto nichilista, del superuomo inarrivabile.
L’odio razziale è paura dell’altro, è esclusività egoistica, è illusione di onnipotenza solitaria attraverso l’eliminazione-fagocitazione dell’altro. Ma senza l’altro, verso chi si può manifestare l’onnipotenza? Il cane si morde la coda e l'uomo “annichilisce” nel nulla cosmico.
Il sottosuolo delle coscienze.
La famigerata "volontà di potenza" di Nietzsche, è spiegata perfettamente con le dinamiche del desiderio mimetico girardiano: il Superuomo ovvero l’Anticristo, è l'ibrido e schizofrenico uomo-dio; la personificazione del desiderio mimetico, è portata alle estreme titaniche conseguenze conflittuali; una rivalità irriducibile dell’uomo reale con il suo dio d'occasione.
Si può parlare quindi dell’uomo senza Dio perchè esso stesso vuole essere dio, con tutta l’illusione di onnipotenza di un dio.
Il Dio causa esterna, religiosamente riconosciuto e adorato dall'uomo, è l'ultimo ostacolo che si oppone al raggiungimento del traguardo divino del superuomo; per il superuomo, la super razza, la superpotenza, Dio diventa il rivale assoluto, l'acerrimo nemico da estirpare dalla comunità e/o confinare nella singola, misera e solitaria coscienza di ognuno...nelle oscure e misteriose stanze del "sottosuolo umano".
Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. (Zoe Rondini – Nata Viva)
Il libro
Dopo aver letto Nata Viva di Zoe Rondini, ho chiuso il libro con una domanda che mi roteava nella testa anche nelle situazioni più improbabili: cosa ha voluto dire Zoe raccontandosi? Ero convinto che, se riuscivo a rispondere a questa domanda, forse avrei trovato il bandolo della matassa: il tema di fondo dell'opera. Ero altrettanto convinto che rispondere non sarebbe stato facile, perché la mia conoscenza di Zoe si fermava ad alcuni eventi pianificati e a pochi, occasionali e amichevoli incontri con lei, con la famiglia e il suo entourage; ciò non sarebbe stato sufficiente per conoscere la "vera" Zoe e non mi avrebbe consentito di rispondere all'intrigante domanda: "Cosa ha voluto dire Zoe scrivendo questa sua opera prima?
La prova e la rappresentazione teatrale de La cantastorie Zoe
La domanda mi ha accompagnato per un po' di tempo fino a quando un giorno qualcuno mi disse che con Zoe stavano lavorando su una presentazione teatrale di "Nata Viva" e che avrebbero avuto piacere di fare l'anteprima o la prova generale a casa nostra, con la presenza dei famigliari e di qualche amico. Mia moglie ed io, forse per motivi diversi, abbiamo accolto con entusiasmo la richiesta. L'evento è stato pianificato e organizzato con infantile trepidazione, (come fosse la vigilia di Natale), e si è svolto come previsto in un clima di serena empatia. (1) La cantastorie Zoe al Rifugio del Menestrello
Dopo questa presentazione casalinga, la mia conoscenza di Zoe era aumentata e ho iniziato ad abbozzare qualche approfondimento e riflessione su quanto raccontato nel romanzo di formazione dal titolo così pregno di significati, (ex utero vivus editus). Gli approfondimenti e le riflessioni però, non andavano più in là di una rilettura fredda e distaccata di quanto raccontato e rappresentato nell’anteprima teatrale; non riuscivo a convincermi né a calarmi nelle situazioni raccontate; tutto mi rimaneva estraneo... fino al giorno in cui ho assistito allo spettacolo "La cantastorie Zoe" in un teatrino del quartiere San Lorenzo a Roma.
Dopo aver assistito a questa rappresentazione pubblica, in un caldo e accogliente teatrino di Roma (Abarico), la mia conoscenza di Zoe aumentò ulteriormente; l'osservazione di una platea a me estranea ovvero non domestica e familiare come quella dell'anteprima casalinga, aveva aggiunto spunti di riflessione ulteriori sulla vita e le avventure di Zoe la cantastorie
Zoe e gli altri
Seppur aumentata, la conoscenza di Zoe non era ancora sufficiente a inquadrare la sua opera nel panorama letterario. Tanti sono gli autori: nuovi e vecchi, classici ed emergenti, occasionali e sporadici. Giornalisti che scrivono libri, scrittori che scrivono articoli; scienziati che giocano a fare i filosofi, filosofi che scherzano a fare gli scienziati; chi scrive di qua, chi legge di là; chi fa da sponda a quel partito; chi invece la fa ai preti; chi fa il politico, chi il religioso. Chi scrive sul web, chi sui lenzuoli, chi sulla sabbia, chi sugli alberi, sui muri, sui marciapiedi; un panorama caotico pieno d'arte e d'artisti, di lettere e letterati, ecc. Un caos letterario in cui è difficile, se non impossibile inquadrare una nuova voce, pura e sincera come quella di Zoe con il suo romanzo di esordio; un’opera che, nella sua cerchia di amici esperti, più di qualcuno concorda nel definirlo “romanzo formazione”.
Tutto e tutti trovano il loro spazio, il loro angolino esistenziale in cui riconoscersi e specchiarsi - come Vitangelo Moscarda di Uno nessuno e centomila di Pirandello - per trovarsi diversi da quella figura estranea riflessa nello specchio, con il naso pendente da una parte. Sì, con questo romanzo Zoe Rondini si è vista riflessa sullo specchio, ha guardato la sua immagine e si è trovata all'improvviso diversa da se stessa e da tutti gli altri.
Gli altri, già gli altri; quelli che sono tutti contro me che sono sola; quelli che camminano e non gattonano; quelli che corrono e giocano tra loro e mi lasciano sola a guardarli; quelli che fingono vicinanza e amicizia ma al momento del bisogno si eclissano nel confuso via vai di una stazione, di un supermercato, di una discoteca, di una città. Gli altri, quelli che Dio dice di amare ma che non fanno nulla per farsi amare. Gli altri, quelli che mi escludono, mi emarginano, mi eclissano, mi dimenticano; quelli che mi considerano un peso sociale; quelli che fanno finta che non ci sono. Gli altri, quelli che qualcuno ha definito "ipocriti".
Il Gruppo di lettura
La conoscenza di Zoe aumenta ancora in una successiva occasione, un network sociale: il forum di Letteratour e il gruppo di lettura che ha condiviso per qualche tempo osservazioni e riflessioni sulla lettura di Nata Viva. In tale occasione abbiamo potuto scandagliare i diversi ambiti di riflessione che la lettura attenta del romanzo stimolava; e abbiamo avuto modo anche di fruire di una dichiarazione autografa di Zoe sulla sua vocazione letteraria. Discussione Gruppo di lettura di Letteratour
Nella discussione, sono venuti fuori argomenti che nella lettura solitaria non riuscivo a focalizzare; è venuta fuori la diversità, la letterarietà, l'essere e il non essere, l'essere e l'apparire, la rabbia, il risentimento, l'invidia, l'amore, la famiglia (e i suoi personaggi in cerca d’autore), la verità, la libertà, l’amore. Una rilettura e una discussione che mi ha consentito di conoscere Zoe molto più a fondo di come l'avrei potuta conoscere nella vita reale.
Zoe, il testo e la verità
Un altro incremento della conoscenza di Zoe l’ho potuto acquisire con l’approccio girardiano che consente al lettore una ricerca della verità che fa leva sul desiderio mimetico. In questa prospettiva mimetica ho usufruito di una lettura sussidiaria che mi ha aiutato nell’analizzare gli aspetti veritativi del romanzo; un approfondimento filosofico sul realismo ermeneutico di Renè Girard: La verità nel testo di Marco Porta. René, il testo e la verità
La nuova edizione
Ma le sorprese non sono finite: poco dopo aver chiuso la discussione del gruppo di lettura, la casa editrice Dante Alighieri ha curato una nuova edizione del romanzo Nata Viva, arricchita da una preziosa prefazione e di un nuovo racconto sulla figura del nonno. Una seconda edizione con integrazioni importanti che consentono un miglioramento editoriale all'opera prima di Zoe e la collocano in un panorama letterario più definito.
In onore di questa importante seconda edizione della Società Editrice Dante Alighieri, mi sono premurato di rileggere qualche passo della Divina Commedia e ho trovato una terzina che compendia pienamente il mio pensiero su Nata Viva:
Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore. (Paradiso, Canto XXXIII, 7-9)
L'amor che move il sole e l'altre stelle
L’amore appunto è il fondamentale alimento che completa la conoscenza umana; il filo mancante che mi ha fatto trovare il bandolo della matassa per la conoscenza di Zoe e della sua famiglia. L’amore che dà senso e significato a questo romanzo di formazione, rapsodico quanto basta a farne uno strumento educativo sulle diversità umane; un significato esistenziale in senso letterario e pedagogico, così come Zoe stessa invita a considerare nelle pagine di Nata Viva. Lo stesso amore del verso con cui Dante Alighieri chiude la sua Commedia: L’amor che muove il sole e le altre stelle.
Con quest’ultimo verso “paradisiaco” auguro la buona lettura a chi ha voglia di conoscere come Zoe Rondini è Nata Viva nonostante tutto.
Il film-corto Nata Viva
La perla finale è il film corto di Lucia Pappalardo; un film che ci mostra una Zoe Rondini piena di voglia di vivere, immersa e protetta dall'abbraccio affettuoso di una famiglia sempre presente. Nata Viva di Zoe Rondini - Film di Lucia Pappalardo
NATA VIVA è la storia di Zoe Rondini una ragazza che per i primi 5 minuti della sua vita non ha respirato. Zoe ha scritto un libro che racconta la sua vita, allegra e faticosa (Società editrice Dante Alighieri). Lucia Pappalardo l'ha trasformato in un breve film grazie al supporto dell'Associazione Nazionale Filmaker r Videomaker Italiani. Fotografia ENrico Farro e Valerio Nicolosi, Suono Marco Antonelli, Trucco Ilaria Mantini e Ilaria Puppio. E poi grazie a Marco Scali, Lorenzo Pierno, Delfy Santoro, Alessandra Fantini, Intro Spezione Abbraccialberi, Daniele Napolitano. E soprattutto grazie a Guido Damev.
Dalla discussione su Opinioni di un clown, di Heinrich Boll, libro scritto dallo scrittore tedesco nel 1963.
Riporto alcune considerazioni sul matrimonio scaturite e condivise nella discussione del gruppo di lettura sull'opera Opinioni di un clown, di Heinrich Boll, libro scritto dallo scrittore tedesco nel 1963.
....potrebbe essere la sintesi di "stato" del clown Hans
Il mio intervento introduttivo
Scaldo l’atmosfera con le mie impressioni di lettura e le conseguenti intime risonanze rimurginate tra i miei neuroni ormai sfittici e le varie tastiere che al momento mi trovavo sottomano. Il mio approccio di lettura è stato molto energico perché ho ritardato l’acquisto del libro fino a qualche giorno prima dell'apertura della discussione. L’energia messa in gioco mi ha subito fatto fermare l’attenzione sulla prima frase, l'esergo scelto dall’autore per introdurre e connotare il romanzo: "Coloro ai quali non è stato annunciato nulla di Lui, lo vedranno, e coloro che non ne hanno udito parlare, lo intenderanno. (Rm 15,21)"
Dunque, come in Anna Karenina, anche in Opinioni di un clown, una frase di San Paolo introduce alla lettura del romanzo. Mentre Tolstoj si appella alla vendetta di Dio ovvero il perdono, in Boll l'appello è sulla capacità d'intendere il vero agire cristiano da parte di chi non conosce il vangelo; persone che, nella consapevolezza di "non sapere" ovvero di non conoscere la verità rivelata da Cristo, si affidano all’istinto rabbioso, alla poesia e a quel “lirismo” da clown ben evidenziato da Eloise; un lirismo molto più vicino alla verità che non la sbeffeggiante, compassata e arrogante ipocrisia sacerdotale dei notabili di turno.
Si entra in argomento.
Il titolo, la dedica ad Annemarie (moglie dell'autore) e la frase di San Paolo (dalla lettera aiRomani) sono i primi segni del romanzo; e ciascuno ha un significato specifico, che guida e orienta verso un tipo di lettura e una interpretazione; anche se, per altri versi, ogni lettura resta soggettiva perché è sempre mediata e filtrata dal vissuto esclusivo ed unico di chi legge.
Il titolo "Opinioni di un clown" personalmente mi ha portato ad approfondimenti su "cosa significa essere clown" e che valore possono avere le sue opinioni nel contesto letterario, della storia, del racconto e, in generale, della vita. L'autore stesso, proprio nelle prime pagine del romanzo, fa "pensare" il suo clown con queste parlole:
"Sono un clown. Definizione ufficiale: attore comico, non pago tasse per nessuna Chiesa, ho ventisette anni e uno dei miei numeri si chiama "Arrivo e partenza": una (quasi troppo) lunga pantomima in cui lo spettatore confonde arrivo e partenza fino alla fine." L'interpretazione del personaggio è vincolata quindi a questa definizione che ci presenta un attore che interpreta e mette in scena in chiave comica, i paradossi della vita. Il fatto di non pagare tasse a nessuna Chiesa, fa pensare che questo uomo si sente libero, o meglio , un anarchico. La confusione tra "arrivo e partenza" del suo numero di pantomima, può essere letto come una metafora della vita, ovvero una confusione tra i momenti che la definiscono fisicamente nel tempo: la nascita (rinascita) e la morte.
La religione cristiana, basata sulla nascita, morte (e resurrezione), pregna già dalle prime righe, le vicende narrate nel romanzo.
Entra in scena Socrate
"O Ateniesi, io ho per voi venerazione e affetto, ma debbo obbedire a Dio piuttosto che a voi; e finchè avrò un soffio di vita e le forse me lo concederanno, non cesserò di filosofare, di esortarvi e di ammonire chiunque di voi mi capiterà. [...] Giacchè, sappiatelo bene, è questo che mi ha comandato Dio, e credo che nessun bene maggiore abbia la vostra città che questo mio zelo a servire Dio, sollecitando voi, giovani e vecchi, a non prendervi cura nè del corpo nè delle ricchezze più che dell'anima, perchè divenga quanto migliore possibile, giacchè non dalla ricchezza deriva la virtù, ma dalla virtù la ricchezza e ogni altro bene ai cittadini e alla città."
Questa memorabile dichiarazione di Socrate starebbe benissimo in bocca al nostro clown. Il cristianesimo ancora non c'era, ma le teorie della filosofia si sostenevano con la religione. Socrate è stato condannato perchè il suo agire al servizio della Verità (incontrollabile dagli oligarchi del potere) avrebbe dato fastidio all'ordine sociale; il nostro clown... lo stesso.
Un inciso su René Girard.
I Libri di Girard offrono una complessiva spiegazione religiosa dei comportamenti umani e sociali; giudicano Cervantes, Shakespeare, Marivaux e Proust più realisti di Marx; libri che, nel bel mezzo del soqquadro strutturalista sulle sponde del boulevard Saint-Michel, dichiarano: la chiave del paradiso è sotto i nostri occhi da duemila anni, nei Vangeli, dove non abbiamo avuto il coraggio di afferrarla, e Gesù è davvero l'unico Dio fattosi carne per l'eternità, come dicono il papa e le nonne bigotte... Un enorme sasso nello stagno delle nostre discussioni parigine e universitarie.
(Michel Treguer - Presentazione Bulzoni - Roma 2005).
Il rapporto tra Hans e Maria
Premetto un brano di Romano Guardini sul matrimonio cristiano che mi è servito per definire il rapporto tra Hans e Maria.
"Il matrimonio non è meramente l'adempimento dell'amore nella sua immediatezza, che porta uomo e donna a unirsi, ma la loro lenta trasformazione che si compie nello sperimentare la realtà. Il primo amore non vede ancora questa realtà. Lo stimolo dei sensi e del cuore le conferisce un incantesimo; la avvolge in un sogno di fiaba e d'infinitezza. Solo lentamente essa si apre la strada, quando l'uno vede nell'altro la quotidianità, le insufficienze, il fallimento. Se allora accetta l'altro come è, in modo sempre rinnovato e attraverso tutte le delusioni; se porta con il partner le gioie e le pene dell'esistenza quotidiana così come la grande esperienza di vita, davanti a Dio e con la forza di Dio - cresce allora gradualmente il secondo amore, il vero e proprio mistero del matrimonio." (Romano Guardini - Matrimonio cristiano e verginità - Il Signore - Vita & Pensiero - Morcelliana)
Hans e Maria sperimentano il primo amore; l'amore non ancora trasformato dalla quotidianità coniugale. Considerato che l'amore cristiano trova nel secondo amore la coerenza della conversione, le mie riflessioni guardiniane - stavolta Girard aspetta da una parte - mi hanno condotto a riscrivere la storia di Hans e Maria nel modo seguente: Hans, toccato e sconvolto dalla morte della sorella, sente in sé un disperato bisogno d'amare e d'amore; il bisogno di una affettività che la sua età e la teutonica madre, cerbera e inebriata dal fascinoso potere del denaro, non sono in grado di offrirgli.
Maria, il primo amore, diventa così per Hans l'amore definitivo, coniugale e materno; un amore totale in cui annientare se stesso, in cui perdersi. Questo amore spaventa Maria e la spinge a rifugiarsi nell'accomodante, protetta e rassicurante coniugalità di un matrimonio cattolico. Hans acconsente per amore ma "la casta dei cattolici" chiede di più: vogliono che i figli siano educati al cattolicesimo. Hans non ci sta, si rifiuta e Maria fa la sua scelta rassicurante. Hans il clown diventa la pecora nera; il capro espiatorio di una società distrutta dalla guerra che cerca di rifondarsi sul "mito" falsamente cattolico; un mito fondato sulle regole dei sacerdoti e non sull'amore cristiano.
L'attualità di questa divaricazione tra società reale e chiesa cattolica è confermata dal fatto che finalmente un Papa innovativo come Francesco ha convocato un Sinodo straordinario per trovare rimedio a situazioni balorde e ipocrite che non fanno che alimentare l'anticlericalismo mai sopito che, personalmente considero ormai svilito e anacronistico. Il matrimonio che cerca (e vive) Hans è puro; quello che gli offre Maria è corrotto e imbrattato di mondanità clericale. Il clown Hans abdica e si lascia uccidere nella moltitudine emarginata di una stazione. L'arrivo, la partenza, i treni, i viaggiatori, Maria, gli emarginati, i mendicanti, tutti si confondono nel movimento e svaniscono nel nulla assoluto.
l buio rassicurante del caos primordiale.
La necessità di rifondazione sociale che Boll descrive nel romanzo, fa emergere contraddizioni che ancora adesso caratterizzano la società evoluta del terzo millenio; contraddizioni che nessuna alchimia potrà mai ridurre a semplici convenzioni sociali. L'amore tra l'uomo e la donna non è scritto sui libri nè sui registri parrocchiali ma è quel secondo amore che Romano Guardini è riuscito a definire con chiarezza: un amore che prende linfa dalla realtà vissuta nella quotidianità coniugale. Un amore che piano piano accoglie e ama l'altro così com'è "nella buona e nella cattiva sorte" diceva una volta la formuletta del prete; quello che "univa due metà" in matrimonio; anzi due unità che il "secondo amore" guardiniano, piano piano potrà trasformare nelle due metà dell'unità coniugale.
Rileggendo e portando a mente quel che ha scritto Girard, ho trovato un possibile parallelo tra "coscienza infelice" e “promessa fallace”. Di seguito riporto le mie rapine girardiane.
Coscienza infelice e promessa fallace
La coscienza infelice è un approfondimento filosofico che può essere sviluppato partendo da tutte le situazioni triangolari del desiderio mimetico. Girard, in un capitolo (Gli uomini saranno dei) del suo libro “Menzogna romantica e verità romanzesca”, affronta l’argomento metafisico con le riflessioni dell’uomo del sottosuolo; parafrasando e tagliando qualcosa, riporto ciò che ha scritto Girard:
“Un uomo onesto e colto non può essere vanitoso che a condizione di essere infinitamente esigente per se stesso e di disprezzarsi fino all’odio”. (Dostoevskij – Le memorie del sottosuolo). Per essere così esigente verso se stessi, bisogna che la soggettività (che esige) abbia prestato fede a una promessa fallace proveniente dall’esterno. Agli occhi di Dostoevskij questa fallace promessa è essenzialmente promessa di autonomia metafisica. (…) Dio è morto, tocca all’uomo prendere il suo posto.
La tentazione dell’orgoglio è eterna ma diventa irresistibile nell’era moderna poiché è orchestrata e amplificata in maniera inaudita. La buona novella moderna è intesa da tutti.
Quanto più profondamente si scolpisce nel nostro cuore, tanto più violento è il contrasto tra questa meravigliosa promessa e la brutale smentita che le infligge l’esperienza. A mano a mano che si gonfiano le voci dell’orgoglio, la coscienza di esistere si fa più amara e solitaria. Eppure essa è comune a tutti gli uomini.
Perché questa illusione di solitudine che acuisce la pena? Perché gli uomini non possono alleviare le loro sofferenze condividendole con altri? Perché la verità di tutti è sepolta in fondo alla coscienza di ognuno?
Tutti gli uomini scoprono nella solitudine della loro coscienza che la promessa è fallace, ma nessuno è capace di universalizzare questa esperienza. La promessa rimane vera per gli altri.
Ciascuno si crede l’unico escluso dal retaggio divino e si sforza di nascondere la maledizione. Il peccato originale non è più la verità di tutti gli uomini come nell’universo religioso, ma il segreto di ciascun individuo, l’unico possesso della soggettività che ad alta voce proclama la sua onnipotenza e la sua padronanza radiosa: “Non sapevo”, osserva l’uomo del sottosuolo, “che gli uomini possono trovarsi nella stessa situazione, e per tutta la vita ho celato questa particolarità come un segreto.”
Ciascuno si crede solo nell’inferno e l’inferno è proprio questo. L’illusione è tanto più madornale quanto più è generale. E’ il lato buffonesco della vita sotterranea quello che si afferma nell’esclamazione de “l’anti eroe” dostoevskiano:
“Io sono solo, mentre loro sono tutti!”
Non so ancora se ci siano coerenze, interferenze, deferenze o contraddizioni con la coscienza infelice; ma il termine coscienza è senz’altro condiviso tra i due ragionamenti.
Riguardo alla discussione su "Opinioni di un Clown", la mia abitudine a scrivere di “pancia” mi ha indotto a saltare a piè pari la metafisica della coscienza infelice, appropriatamente proposta da Tiziano; invitato da Eloise a dare la mia "opinione" sull'argomento, ho riletto il brano "metafisico" di René Girard (Gli uomini saranno dei gli uni per gli altri); e ho potuto constatare che ci sono alcuni aspetti che invitano ad approfondire l'analisi sul "male di vivere" dell'uomo che i due concetti (coscienza infelice e promessa fallace) affrontano in maniera autonoma ma egualmente profonda.
L'analisi comparativa tra i due concetti metafisici ha maturato la mia convinzione che l'illusione di autonomia metafisica dell'uomo, che possiamo considerare come una promessa fallace, si scontra e si dissolve inesorabilmente con la concretezza della realtà quotidiana, portatrice esclusiva dell'unica verità; questa dissolvenza, questa disillusione metafisica, imbriglia e abbatte ogni speranza; senza speranza non si può cercare la felicità; questo stato d'impotenza disperata alimenta nell'uomo la consapevolezza di una immanente coscienza infelice di cui Tiziano ha dato notizia e nozione nella discussione.
Forum della rivista di filosofia ACTA PHILOSOPHICA
La verità “nel” testo: l’ermeneutica realista di René Girard
«Il romanzo è il luogo della più profonda verità esistenziale e sociale del XIX secolo»[1]. Questa perentoria affermazione mostra emblematicamente, a mio avviso, il peculiare approccio interpretativo che contraddistingue l’analisi girardiana dei testi letterari, dalla tragedia greca ai romanzi moderni, alla letteratura mitologica: un realismo ermeneutico non privo di implicazioni filosofiche. Come è noto, lo studioso franco-americano sostiene che i grandi letterati (Cervantes, Shakespeare, Sthendal, Flaubert, Dostoevskij, Proust) smentiscono l’illusione “romantica” dell’assoluta originalità e autonomia del desiderio umano e ne mostrano invece la natura mimetica.
Mentre l’appetito si rivolge ai beni necessari alla vita ed è immediato e rettilineo, il desiderio si rivolge in grande misura agli oggetti che gli altri desiderano o posseggono. In questo senso il desiderio è mediato, triangolare, è appunto imitativo: si desidera qualcosa perché si vuole essere come l’altro, cioè il parente, l’amico, il vicino, il collega, ecc. La convergenza dei due desideri (dell’imitatore e del modello) sullo stesso oggetto fa sì che il modello si trasformi quasi inevitabilmente in rivale. Sorgono così la competizione e la conflittualità che iniettano nelle relazioni sociali una miscela esplosiva di sentimenti e di atteggiamenti (invidia, gelosia, risentimento, emulazione), destinata a far scoppiare l’aggressività violenta dei singoli e delle comunità, come testimoniano ampiamente la storia e la cronaca.
Lungo tutto l’arco della sua ricerca, Girard ha privilegiato un approccio decisamente realistico, senza concedere eccessiva importanza alle distinzioni tra significati e significanti, tra denotazioni e connotazioni, per attingere direttamente il “referente” (la verità oggettuale): in questo caso una verità antropologica di portata universale, in grado di spiegare comportamenti come lo snobismo, la dipendenza dalle mode, i delitti passionali, o patologie psichiatriche come il sadismo, il masochismo, l’anoressia, la bulimia.
L’approccio di Girard contrastava nettamente con le teorie linguistiche della semiologia post-strutturalista, che negli anni Sessanta e Settanta furoreggiavano nell’ambito della critica letteraria, soffermando l’attenzione sulle funanboliche e proteiformi potenzialità semantiche del linguaggio, e disinteressandosi con scettica noncuranza della sua funzione referenziale-veritativa. “Il faut tuer le référent” dicevano scherzosamente Barthes ed Eco a metà degli anni Sessanta. In perfetta coerenza con questa “teoresi”, Eco diede forma letteraria, nel suo noto best-seller Il nome della rosa, a quello che Guido Sommavilla definì un “allegro nominalismo nichilistico”[2].
Con il suo robusto realismo ermeneutico Girard è entrato fin dall’inizio in rotta di collisione con la tendenza relativista e scettica della cosiddetta postmodernità filosofica, allergica alle istanze “veritative”, soprattutto se di genere metafisico e religioso. Specialmente in Francia, nelle ultime decadi del XX secolo, la filosofia analitica del linguaggio, l’ermeneutica heideggeriana, la semiologia post-strutturalista, le teorie psicanalitiche, sono confluite in una corrente filosofica che sembra attuare il progetto nichilistico abbozzato da Nietzsche in un celebre appunto del 1884, per la composizione della quarta parte dello Zarathustra: «Noi facciamo un esperimento con la verità! Forse l’umanità andrà perduta! Ebbene, così sia!»[4].
Nell’introduzione alla raccolta di saggi pubblicati con l’eloquente titolo La voce inascoltata della realtà, Girard tiene a precisare che i suoi scritti «non riflettono le mode chiassose dell’ultimo scorcio di secolo, le diverse reincarnazioni della cosiddetta French theory che, negli anni della loro composizione, dominava la scena delle università americane… Tutte queste teorie consistevano in una distruzione illusoria della realtà»[5].
Autori come Lyotard, Foucalt, Derrida, Baudrillard, Deleuze, Guattari, benché molto diversi per interessi tematici e proposte teoretiche, convergono nel problematizzare la presa conoscitiva del linguaggio e condividono una posizione filosofica antifondazionista. Ma anche fuori dalla Francia i “postmoderni”, ad esempio Rorty negli Stati Uniti e Vattimo in Italia, assegnano alla filosofia il compito di decostruire le pretenziose “metanarrazioni” dei pensieri “forti” del passato, per sostituirvi uno spazio retorico dove possano incontrarsi e coesistere tutte le differenze culturali: una sorta di conversazione dove la political correctness impone di sacrificare i giudizi di verità e di valore all’esigenza di trovare un consenso amichevole fra le parti. Come afferma Vattimo, contraddicendo Platone e Aristotele, “amica veritas, sed magis amicus Plato”.
Un’ulteriore provocazione allo scetticismo postmoderno è venuta dall’interpretazione girardiana del sacro arcaico come risoluzione della violenza mimetica e dalla sua conseguente teoria del religioso come origine della cultura e delle istituzioni sociali. Non per nulla l’accademico di Stanford tiene a ribadire che «da un punto di vista filosofico si dovrebbero sempre sottolineare gli aspetti realistici della mia teoria. L’intera prospettiva sulla mitologia contenuta nella mia teoria rappresenta una vera rivoluzione nell'atteggiamento verso il realismo tipico delle discipline umanistiche del XX secolo»[6].
Indagato infatti senza i pregiudizi e le eccessive cautele di derivazione relativista, il vasto universo mitologico ha potuto svelare nell’analisi girardiana una verità “storica” di fondamentale importanza, e cioè che l’ordine e l’organizzazione sociale delle primitive comunità umane traggono origine da una violenta crisi risolta per mezzo di un sacrificio. In una varietà straordinaria di forme narrative, le mitologie di ogni luogo del pianeta attestano con una sostanziale e ineludibile unanimità la vicenda davvero sconvolgente che nel caos primordiale, simboleggiato spesso nei miti dalla guerra tra gli dèi, la violenza di tutti contro tutti si risolve improvvisamente nella violenza di tutti contro uno.
Nel lento processo che in decine di migliaia di anni ha condotto dagli ominidi all’homo sapiens sapiens il meccanismo vittimario del caprio espiatorio servì da valvola di scarico o parafulmine della violenza. Quando le rivalità mimetiche spingevano i primitivi gruppi umani sull’orlo dell’autodistruzione violenta, il gruppo si coalizzava nell’identificazione di un colpevole, il cui successivo linciaggio riportava “miracolosamente” la pace e la concordia, con un tale beneficio per la comunità che la vittima sacrificale veniva poi divinizzata. È così che nei tempi remoti dell’umanità è sorta la dimensione sacrale, con la sua caratteristica ambiguità: violenta e pacificatrice, malefica e benefica.
Contro l’interpretazione puramente allegorica del mito, proposta nell’antichità dai filosofi greci, e soprattutto contro la lettura razionalista moderna che squalifica il mito come semplice fiction o come pensiero selvaggio e irrazionale, Girard dimostra che nei testi mitologici è nascosta la verità storica, reale, dell’omicidio fondatore. Poiché i narratori sono degli assassini “in buona fede”, il mito afferma la colpevolezza della vittima. Occorre “decostruire” il testo mitico per smascherare la menzogna.
Come si vede, il realismo ermeneutico di Girard non è sudditanza ingenua al testo: «Io non esito a contraddire il testo, come noi contraddiciamo i cacciatori di streghe quando ci assicurano che le loro vittime sono veramente colpevoli. Bisogna far saltare in aria il mito nello stesso senso con cui mandiamo all’aria i processi alle streghe. Bisogna far vedere che, dietro al mito, non c’è né il puro immaginario, né il puro avvenimento, ma un resoconto falsato dall’efficacia stessa del meccanismo vittimario».
La ricerca di Girard è approdata a una lettura “antropologica” della Bibbia che fa emergere dal “testo” lo smascheramento della menzogna vittimaria del sacro arcaico: a differenza di tutte le tradizioni mitiche, la Bibbia dichiara infatti, senza eccezioni, l’innocenza delle vittime sacrificali. Dall’uccisione di Abele alla crocifissione di Cristo la violenza umana viene denunciata in tutta la sua cruda verità persecutoria. In un Occidente che accusa il cristianesimo di etnocentrismo culturale, di colonialismo religioso, di intolleranza dogmatica, che ne fa insomma il capro espiatorio dei tempi moderni, la voce di Girard si è alzata con forza per dimostrare che è proprio dal Vangelo che scaturiscono gli atteggiamenti di cui oggi, pur in mezzo a tante contraddizioni, può andar fiero il mondo occidentale: la solidarietà con le vittime, il rispetto delle minoranze, l’apertura nei confronti del diverso, ecc.
La violenza umana non ha nulla a che vedere con la convinzione di verità propria della fede, ma nasce nel cuore dell’uomo che si lascia accecare dai desideri mimetici (o con terminologia biblica, dalla triplice concupiscenza) e la via più sicura per fronteggiarla passa per l’imitazione della kénosis di Cristo, «il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce»[7].
Il recente dibattito suscitato in Italia dalla pubblicazione del saggio di M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo[8], mostra che il disincanto scettico postmoderno comincia a dare qualche segno di estenuazione. C’è da augurarsi che le ragioni del realismo siano di nuovo ammesse nella discussione sul “caso serio” della fede, smettendola con il vezzo di “far ridere della verità”, come in parte aveva fatto lo stesso Ferraris sostenendo qualche anno fa che credere in Gesù sia più o meno equivalente a credere in Babbo Natale[9]. Senz’altro le opere di Girard contribuiranno ulteriormente a sdoganare la riflessione filosofica dall’impasse dello scetticismo relativista.
Disegni originali di Martina Fortunato
Note [1] R. Girard, Mensonge romantique et verité romanesque, Grasset, Paris 1961; trad.it., Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965, p. 97. [2] «La Civiltà Cattolica» 1981, III, pp. 502-506. [4] «– wir machen einen Versuch mit der Wahrheit! Vielleicht geht die Menschheit dran zu Grunde! Wohlan!» (Nietzsche Werke, ed. crit. a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VII/2, Nachgelassene Fragmente (Frühjahr bis Herbst 1884) Walter de Gruyter, Berlin-New York, 1974, p. 84 (25 [305]). [5] Adelphi, Milano 2006, p. 11 (l’originale francese è del 2002: La voix méconnue du réel). [6] R. Girard, Origine della cultura e fine della storia. Dialoghi con P. Antonello e J. C. de Castro Rocha, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 111. [7] Fil 2, 6-8. [8] M. Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012. [9] M. Ferraris, Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Bompiani, Milano 2006.
Da qualche tempo, cioè dalla soglia dei miei dodici lustri di vita, spesso mi sorprendo a rivisitare le mie radici nel racconto di un “me" che mi manca e non ho presente; forse spinto dal bisogno di recuperare quella parte d'identità che sonnecchia silenziosa dietro la paratia della quotidianità.
In uno di quei giorni di rivisitazione, mi capita tra le mani una cartolina anonima del paese in cui sono nato e ho vissuto il mio primo lustro di vita: Pozzallo. Un’immagine anonima, dozzinale, senza un cenno di originalità in grado di suscitare un richiamo di vita vissuta, una qualche epifania, un ricordo sopito; solo l’ostentazione di quei segni urbani e paesaggistici che caratterizzano un paese formato cartolina; segni che lasciano, comunque, immaginare tutte le possibili vite che lo hanno attraversato e lo consumano nelle memorie emigrate.
Guardo insistentemente quell’immagine anonima e inizio a costruire una sinfonia di ricordi, con rapsodie, fughe e cullanti barcarole. Mi viene la voglia di entrare in quell’immagine, di percorrere quelle strade, di sentire la sabbia pietrosa sotto i piedi nudi, di guardare il mare, le barche,... e poi, da quella spiaggia, volgere lo sguardo verso la strada alle mie spalle, ci sono alcune persone appollaiate, altre intente al passeggio, altre ancora perse nelle loro attività. Ecco, vedo una vecchina che sta attraversando la strada; lì, sulla destra del quadro, nel tratto sopraelevato della strada che confina con la spiaggia, dove un ponticello lascia scorrere un rigagnolo di acque reflue verso lo spiazzo di "pietre niure” fino a esserne inghiottito e confuso con tutte le pietre, in una melma sabbiosa.
C’è un uomo in bicicletta che smette di pedalare e comincia a zigzagare per non investire la vecchina che attraversa la strada a testa bassa; il ciclista forse è inesperto, non riesce a frenare, gesticola impacciato verso la vecchina togliendo la mano dal manubrio; la bicicletta ha un'improvviso cambio di direzione e s'indirizza lateralmente, verso il basso muretto di protezione del ponticello; l’uomo vola con tutta la bicicletta aldilà del muretto, si tiene ben stretto al manubrio di quella incompresa bicicletta; in quell'abbraccio strettissimo, quasi sensuale; l'uomo e la bici sembrano danzare, volteggiano nell'aria fino a baciarsi e perdersi sulle "pietre niure”, qualche metro più sotto; poi riprendono a volare più sù, fino a perdersi nel cielo, per sempre. Nei lustri successivi mi è stato detto, dal circolo parentale, che quell’improbabile ciclista era mio padre e che la seducente bicicletta era una gelosa ed esclusiva proprietà di un suo nipote.
Compro una scatola di acquerelli, una matita, una risma di carta ruvida e inizio a disegnare: le sagome delle case, la torre Cabrera, il porto, le barche, la spiaggia; poi impasticcio con acqua i colori del cielo e del mare; poi spalmo i colori della spiaggia, quello delle case, della strada e della vegetazione; poi ripasso a definire le ombre, le finestre e quello che mi capita con decise pennellate, veloci, interrotte e improvvise, come preso da raptus.
Nel progredire dell’opera mi rivengono in mente luoghi e situazioni; volti e persone dimenticate appaiono nel disegno, proprio nel momento in cui mi dedico a quella casa, a quell’angolo di strada, quel tratto di spiaggia; poi volti e persone scompaiono in dissolvenza e lasciare il posto a un flusso continuo e inesauribile di altri ricordi che, come un fiume in piena, vogliono fissarsi tutti sul quel foglio già imbrattato; mi fermo, mi allontano dal foglio indietreggiando di un passo, e osservo il capolavoro nascosto di un artista sconosciuto.
Ciò che osservo non mi pare molto fedele all'immagine della cartolina; ma non m’importa; perché quell’immagine sghemba e colorata la sento strettamente vincolata ai miei ricordi; e questo mi piace, mi soddisfa: la mia opera d'arte ha una sua orgogliosa personalità; la cartolina è diventata solo un pre-testo per il mio capolavoro.
Aggiungo la bicicletta e l’omino-padre spiattellati sulle "pietre niure” della spiaggia omonima; e chiudo l’opera con una firma; la rappresentazione del mio paese natio è completa; è lì, ben centrata sul foglio che si mostra inespressivo come la faccia visibile di una maschera teatrale che nasconde la verità al suo interno: la verità è oltre il segno e il di-segno. La folla dei miei ricordi è tutta lì, sopita e serena; nascosta nei tratti e nei colori impressi su quel foglio di carta ruvida.
Pozzallo - Pietre Niure - Acquerello
In dodici lustri di vita non avevo mai fatto un'opera così impertinente.