Il Blog di Rosario Frasca

Le opinioni di un Clown, ovvero: Il mito di Er

Resurrection

ago 032020

"…spingi un portone anacronistico, scosti una tenda, e pare di entrare in un altra realtà. Non senti più i rumori esterni, non c'é più la luce accecante, non più la polvere e lo sporco. Solo qualche raggio che filtra dal soffitto altissimo". (cit.)

 La maschera si colloca all’equivoco confine tra l’umano e il divino, tra l’ordine differenziato che sta disgregandosi e il suo aldilà indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un ordine rinnovato. Non c’è da interrogarsi sulla natura della maschera; è nella sua natura di non averne alcuna, poiché le ha tutte. (René Girard)

 

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Poco più di un anno è passato da quel giorno che ho accarezzato per l'ultima volta il volto di mia moglie; ora non ho più bisogno di accarezzare la carne perché lo spirito è perennemente presente in me e in tutto ciò che mi circonda e che vivo.

Quella notte, le accarezzavo la fronte con insistenza ossessiva, quasi a voler risucchiare in me tutta la sua persona; lei, come al solito, si lasciava accarezzare e si abbandonava alla mia ossessione tattile.

Volevo sentirla ancora, con il palmo della mano che lentamente le scivolava sulla sua fronte, percorrendola tutta, fino all'attaccatura dei capelli. Nell'accarezzarla, mi sentivo custodito e protetto in quel contatto fugace e, forte di questo, con la mente cercavo di carpire i suoi pensieri. Volevo mi raccontasse cosa vedeva e sentiva nell'intimità di quel momento; volevo sentire e conoscere con lei, il profumo dell'aldilà.

Ascoltavo il suo respiro. Tutta la nostra vita passava attraverso quelle ripetute carezze; il loro ritmo era accordato al soffio del respiro e scandiva inesorabile gli ultimi battiti del suo cuore pulsante; lei conosceva bene quelle carezze: le conosceva fin dalla fondazione del mondo; erano movimenti nell'anima, tramandati di generazione in generazione, fino a quell'ultimo letto che ospitava il suo corpo: le chiamava affettuosamente "le carezze nell'anima".

Ascoltavo il suo respiro: e sentivo con lei il profumo dell'aldilà. Mi cullavo con abbandono nei rivoli di un mondo sconosciuto e misterioso che tante volte aveva offerto rifugio e ai nostri pensieri peregrini; di quel mondo misterioso, ne gustavo intimamente il sapore divino trasmesso, incontaminato e incorrotto, in quelle silenziose carezze.

Gustavo il sapore dell'aldilà e osservavo il suo volto che sorgeva nitido e corposo, dalla massa informe e molle di un asettico e anonimo cuscino. Ho disegnato nella mia mente l'immagine di quel volto: era come disegnare la sua maschera ancestrale. Pian piano ho sentito montare in me, un prepotente bisogno di fissare quell’immagine su di un qualsiasi supporto, per conservarne traccia; ero in preda a un nebuloso timore di dimenticare.

Mi sono allontanato da lei per cercare qualcosa su cui abbozzare i contorni di quell’immagine, ormai ingombrante, che mi possedeva. Gettando lo sguardo intorno, ho fermato l’attenzione su un foglio di carta da imballaggio, ammucchiato e abbandonato sul tavolo d'appoggio della stanza-ripostiglio in cui ci avevano confinati; ne ho strappato un lembo; l’ho stirato e lisciato alla meno peggio per predisporlo a ricevere il mio disegno e, presa una matita tra i miei gingilli personali, mi sono riaccostato a lei per trovare il punto di osservazione corrispondente all'immagine che avevo in mente; i miei movimenti erano guardinghi e nascosti: non volevo importunare i parenti intorno a me: non volevo disturbare la loro situazione affettiva con lei, i loro pensieri, le memorie che galleggiavano nella loro mente. Il silenzio regnava in quella stanza ma, sicuramente, ciascuno aveva i suoi "rumori" interiori.

Ho tracciato velocemente e con molta approssimazione le poche righe essenziali e distintive di quella poderosa immagine, confidando nella mia memoria per poterla completare a tempo debito, in luogo deputato; senza interferenze estranee che avrebbero sminuito la potenza del ricordo ancora vivo e tranciante. Tracciata sul foglio, la bozza di quel volto dormiente, ho piegato accuratamente e riposto in tasca quel prezioso pezzo di carta, su cui era rimasta impressa la maschera ancestrale, a futura memoria di qualcuno.

 

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 La maschera ancestrale (Rosario Frasca)

 

Mi sono riaccostato a lei e ho alzato lo sguardo verso il monitor che, come un oracolo, restituiva inesorabile e impietoso, il lento processo di appiattimento delle residue funzioni vitali; ancora riuscivo ad ascoltare il soffio rantoloso del suo respiro. Per distogliermi da quell'incantesimo, ho scambiato qualche parola con qualcuno a me vicino, sulla sorprendente serenità che mi pervadeva e che acuiva la potenza titanica di quel transito di cui eravamo testimoni. Lei, mia moglie, la donna della mia vita, con il suo residuo soffio e con la sua maschera ancestrale, stava transitando da questo mondo all'altro mondo; dall'aldiqua all’aldilà; dall’ente apparente all’ente immateriale, spirituale e misterioso, in un aldilà sconosciuto.

Io ero con lei, disperso in lei; immersi in una placenta che ci univa; intorno a noi sentivamo un rumore osmotico, avvolgente, come il sussurro di una brezza leggera. Era la genesi della resurrezione, l'inizio di una nuova vita, uno dei miti della creazione

 

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Mammma (Martina Fortunato)

 

Il rito e la maschera 

Placenta. Diciotto racconti per piccoli e Grandi

Letteratura e... mito della creazione

La carezza nell'anima

 

Ratio imitarum naturam (I, 60, 5.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il viaggio nell'aldilà di Fellini

gen 242020

 

 

"Il viaggio di G. Mastorna", storia di uno che è morto ma non lo sa (Fellini)

 

boni operis
bene operandum

 

 

"In quei giorni mi sono convinto di poter morire di infarto anche perché ho temuto che l'impresa fosse sproporzionata alle mie forze. Liberare l'uomo dalla paura della morte. Come l'apprendista stregone che sfida la sfinge, l'abisso marino, e ci muore. È il mio film - ho pensato - che mi ammazza."(Federico Fellini, "Fare un film")

 

Fellini ricorre alla metafora dell'apprendista stregone per spiegare il suo senso di frustrazione nell'aver ideato, progettato e sceneggiato un film che non ha saputo o potuto o voluto realizzare: liberare l'uomo dalla paura della morte, per Fellini è rimasto un sogno, un proposito eroico, un'opera incompiuta.

L'apprendista stregone (in tedesco Der Zauberlehrling) è una ballata composta nel 1797 da Wolfgang Goethe, ispirata a un episodio del Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero "l'amante del falso") di Luciano di Samosata.[1]

Dall'opera letteraria, il compositore francese Paul Dukas ricavò l'impianto del suo poema sinfonico "L'apprendista stregone". Alla storia si sono ispirate diverse opere successive, la più famosa delle quali è un episodio del film d'animazione Disney Fantasia (1940) con protagonista Topolino.

La ballata di Goethe racconta di uno stregone che si assenta dal suo studio, raccomandando al giovane apprendista di fare le pulizie. Quest'ultimo si serve di un incantesimo del maestro per dare vita a una scopa affinché compia il lavoro al posto suo. La scopa continua a rovesciare acqua sul pavimento, come le è stato ordinato, fino ad allagare le stanze: quando si rende conto di non conoscere la parola magica per porre fine all'incantesimo, l'apprendista spezza la scopa in due con l'accetta, col solo risultato di raddoppiarla, perché entrambi i tronconi della scopa continuano il lavoro. Solo il ritorno del maestro stregone rimedierà al disastro. La morale della ballata è chiara: il limite delluomo di fronte al mistero, di fronte all'immensità di tutto ciò che non conosce. La conoscenza è come l'acqua della metafora: più ne togli, più ce n'è da togliere.

L'espressione è diventata proverbiale anche in italiano. Nel lessico letterario e giornalistico, l'apprendista stregone è una persona che ha la presunzione di avventurarsi in ambiti che non conosce, applicando metodi e tecniche che ancora non è in grado di padroneggiare, con l'alto rischio di provocare danni irreversibili per tutta la collettività. La figura dell'apprendista stregone si può inoltre considerare anticipatrice di quella dello scienziato pazzo, personaggio tipo della narrativa e del cinema popolare nel Novecento.

 

"Il viaggio di G. Mastorna", il film ideato, scritto e mai girato di Federico Fellini, rientra in pieno tra le opere riconducibili al mito letterario dell'apprendista stregone. L'ossessione di Fellini, per la parola "fine", che non voleva apparisse al termine del film, racchiude questo significato mitico dell'apprendista stregone:

 

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l'impotenza dell'uomo di fronte al mistero dell'aldilà

 

La realizzazione dell'aldilà onirico di Fellini, resta un'opera incompiuta; un logos sovrumano che l'artista non ha saputo e/o potuto e/o voluto rappresentare. Il grande regista, come l'apprendista stregone, sembra che si sia arreso al suo desiderio inappagato; ma, a ben guardare, la parola "FINE" al termine del suo film non è stata scritta. Questa sua irrequietezza di fronte alla parola "fine", è già un segno che connota il suo personale e problematico rapporto con la morte: il suo intimo rifiuto per quell'ultimo respiro, l'atto che per lui rappresentava la "fine" di tutto. Un pensiero che lo costringe nell'angoscia; al vuoto esistenziale di un uomo che si nega qualsiasi futuro: un uomo senza speranza.

 

 

 undefinedIl grande sipario si è chiuso inesorabilmente anche per lui; ma aldilà del sipario, il suo set resta pienamente operativo: la sua opera continua per sempre, in eterno, nei percorsi misteriosi dell'aldilà. "Il viaggio di G. Mastorna" non finirà mai. Il fastidio fobico di Fellini per la parola "fine" è superato: quella brutta, incombente e minacciosa parola, non è comparsa nei titoli di coda del suo film: la "fine" non ha corrotto il senso e la purezza del suo mondo onirico. In fondo, qualsiasi opera d'arte è, e resta, un'incompiuta d'autore: perchè comunque l'opera si perpetua e si sviluppa in chiunque la guardi, la legga e la interpreti, risuscitandola a nuova vita, nei secoli dei secoli.

 

L'opera omnia di Fellini altro non è che la rappresentazione onirica e della sua vita, filtrata e addolcita dalla memoria affettiva; il ricordo indulgente verso l'icona di un vissuto in un mondo di macerie, ruderi oscuri e fondali luminosi; terrificante e poetico; una realtà onirica che si rivela in tutti i suoi film, in tutte le sue stupefacenti e immaginifiche sceneggiature.

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Ogni personaggio dei suoi film è una maschera di se stesso; del vero Fellini che ci guarda sornione dallo schermo velato e rugoso di un cinema di periferia e ci dice: "Ecco, anche questo film serve a qualcosa. Io non lo so a che cosa serve… se uno sapesse tutto, quando si nasce, quando si muore, sarebbe Dio. Io non lo so a che cosa serve questo film, ma serve. Perché se non serve questo film, non servono neanche le stelle.." (cfr. Federico Fellini, La Strada).

 

 

 

 

L'opera incompiuta di Fellini ci rappresenta, insieme a tutte le nostre periferie esistenziali che cercano alloggio nei quartieri "incorrotti" e misteriosi di un aldilà onirico e purificante. La morte, ovvero la porta dell'aldilà, qualcuno ha voluto fissarla in immagini danzanti in note dolcissime.

 


 

 Dialogo dal finale di 8 e 1/2

(R) Luisa, mi sento come liberato; tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero.

Ah come vorrei sapermi spiegare, ma non so dire.

Ecco, tutto ritorna come prima, tutto di nuovo confuso; ma questa confusione sono io: io come sono e non come vorrei essere; e non mi fa più paura.

Dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato;

solo così mi sento vivo e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme.

Non so dirti altro Luisa, nè a te nè agli altri; accettami così come sono, se puoi; è l'unico modo per tentare di trovarci.


(L) Non so se quello che hai detto è giusto; ma posso provare ...se mi aiuti.

 

 

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Per correr miglior acqua alza le vele

ormai la navicella del mio ingegno,

che lascia dietro a sé mar sì crudele;

 

   e canterò di quel secondo regno,

dove l'umano spirito si purga

e di salire al ciel diventa degno.

(Purgatorio, Canto I - Dante Alighieri)

 

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