Irène Némirovsky (Kiev, 11 febbraio 1903 – Auschwitz, 17 agosto 1942) è stata una scrittrice francese di origine ebraica, vittima dell'Olocausto.
Nata in Ucraina, di religione ebraica convertitasi poi al cattolicesimo nel 1939, ha vissuto e lavorato in Francia. Arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, Irène Némirovsky fu deportata nel luglio del 1942 ad Auschwitz, dove morì un mese più tardi di tifo. (Wikipedia)
Sandor Marai, altro profugo sopravvissuto alla guerra, in un suo romanzo, scrisse delle condizioni esistenziali di una profuga sua compagna di viaggio e di vita:
"Sono una profuga e comincio a capire che, quando si lascia una patria, si lasciano tutte le patrie possibili. Quello che noi profughi riceviamo per attestare la nostra identità, è solo un documento; di qua o di là, in qualsiasi angolo del mondo, la nostra identità è solo un documento. La spoliazione che subiamo non ci toglie di dosso soltanto la vera identità - non quella di un freddo e anonimo pezzo di carta - ma ci toglie anche tutto quello che gli uomini chiamano patria, in qualsiasi epoca. Lo capiamo solo lentamente." (Sandor Marai, "Il sangue di San Gennaro")
Nota
Le informazioni in premessa sono tratte dalla discussione,del gruppo di lettura fatta sul romanzo "Due" di Irene Nemirovsky e da "Suite francese" il romanzo postumo della stessa autrice; che ha riscosso un grande successo in tutta Europa ed è stato giudicato dai critici come il capolavoro di Irene Nemirovsky.
Premessa
Il nome Nemirovsky significa "colui che non conosce pace" e richiama i secoli di soprusi subiti dagli ebrei-russi di Nemirov, città della Russia.
Nel 1929 Bernard Grasset, entusiasta di David Golder, un manoscrtto arrivato per posta, decise di pubblicarlo immediatamente. Appena uscito, David Golder fu elogiato all'unanimità dalla critica, tanto che Irene Nemirovsky divenne subito celebre e fu lodata da scrittori di diversa estrazione, come Joseph Kessel, un ebreo, e Robert Brasillach, un monarchico di estrema destra e antisemita. Brasillach elogiò in particolare la purezza della prosa di quella nuova arrivata nel mondo letterario parigino.
Irene era nata a Kiev, ma aveva imparato il francese dalla governante fin dalla prima infanzia. Inoltre parlava correntemente il russo, il polacco, l'inglese, il basco e il finlandese, e capiva lo yiddish. La Nemirovsky si meravigliò perfino che si attribuisse tanta importanza a quel David Golder che lei stessa definiva un romanzetto.
Il padre, Leon Nemirovsky, aveva avuto la sventura di nascere nel 1868 nella città dalla quale doveva dilagare la grande ondata di pogrom contro gli ebrei russi, persecuzione che durò molti anni. Sul suo biglietto da visita si poteva leggere: "Lèon Nemirovsky, presidente del consiglio della banca commerciale di Voronez, Amministratore delegato della Banca Unione di Mosca, membro del consiglio della Banca Privata del Commercio di San Pietroburgo".
La madre, che si faceva chiamare Fanny, l'aveva messa al mondo unicamente per compiacere il ricco marito: per lei la nascita di quella figlia non rappresentava altro che il primo segno del declino della propria femminilità, e aveva lasciato la bambina alle cure della balia. Per dimostrare a se stessa di essere ancora giovane si ostinò a voler vedere Irene, divenuta adolescente, un eterna bambina, che obbligava a vestirsi e a pettinarsi come una scolaretta.
Irene, abbandonata a se stessa durante le ore di libertà della governante, si rifugiava nella lettura; cominciò a scrivere, e reagì alla disperazione sviluppando a sua volta nei confronti della madre un odio feroce.
In "Le vin de solitude" scrive dell'eroina: "Non diceva mai "mamma" articolando chiaramente le due sillabe; pronunciava "mam" in una sorta di rapido borbottio che si strappava dal cuore con sforzo e con una sorta di sordo e subdolo dolore. Il volto della madre, contratto dall'ira, si avvicinò al suo, e lei vide brillare gli occhi che odiava, le pupille dilatate dalla collera e dalla paura … Dio ha detto: "Mia sarà la vendetta…"
Con sorpresa la vendetta continua a governare la storia delle nostre eroine. L'esergo premesso da Tolstoj in Anna Karenina parla chiaro: “Mihi vindicta: ego retribuan".
Irene Nemirovsky apprende senz'altro da Tolstoj uno stile narrativo leggero ed elegante per scrivere delle atrocità della guerra nel suo capolavoro postumo.
1903 - nata a Kiev (11 febbraio) 1918 - fuga in Finlandia; 1919 - approdo a Rouen e arrivo a Parigi; 1939 - conversione al cristianesimo; 1942 - deportata ed eliminata ad Auschwitz;
Dalla Russia con amore, alla Francia con stupore, fino ad Auschwitz per morire.
Questo il percorso di Irene Nemirovsky: ebrea, nata in Ucraina, profuga in Francia, morta in Germania.
Suite francese
(Némirovsky, Irène. I capolavori (eNewton Classici) (Italian Edition) (p.1832). Newton Compton Editori. Edizione del Kindle.)
Nota - Il brano riportato è l'incipit del romanzo; e rende bene lo stile elegante della prosa e l'assoluto realismo delle descrizioni narrative; un realismo romanzesco che non concede nulla al sentimento e all'eroismo romantico. Le situazioni descritte le abbiamo ben presenti oggi negli angosciosi e freddi report giornalistici che arrivano dall'Ucraina martoriata dalla guerra.
1. La guerra
Fa caldo, pensavano i parigini. Aria di primavera. Una notte di guerra, l’allarme. Ma la notte svanisce, la guerra è lontana. Quelli che erano svegli, i malati a letto, le madri che avevano i figli al fronte, le donne innamorate con gli occhi sciupati dal pianto coglievano il primo respiro della sirena. All’inizio non era che un ansito profondo simile al soffio di un petto in costrizione.
Bastarono pochi istanti, poi tutto il cielo fu riempito dal rumore. Veniva da lontano, da oltre l’orizzonte, sembrava quasi senza fretta! I dormienti sognavano il mare che sospinge in avanti le onde e i ciottoli, la tempesta che scuote le cime degli alberi a marzo, una mandria di buoi in corsa sotto i cui zoccoli la terra trema sordamente, finché il sonno era interrotto e l’uomo mormorava aprendo appena gli occhi. «C’è l’allarme?».
Più nervose, più attente, le donne erano già in piedi. Alcune, chiuse le finestre e gli scuri, tornavano a letto. Il giorno prima, lunedì 3 giugno, per la prima volta dall’inizio della guerra, delle bombe erano state sganciate su Parigi; la popolazione era però rimasta tranquilla. Le notizie tuttavia non erano buone. Ma non ci si credeva. Come peraltro non si sarebbe prestato fede all’annuncio di una vittoria. «Non ci si capisce niente», diceva la gente.
Servendosi di una pila tascabile, si rivestivano i bambini. Le mamme sollevavano nelle braccia i piccoli corpi abbandonati e tiepidi: «Vieni, non aver paura, non piangere», c’è l’allarme. Tutte le luci si spegnevano, ma nel dorato e trasparente cielo di giugno, ogni casa, ogni strada era visibile.
Il fiume sembrava accogliere tutte le luci, riflettendole e moltiplicandole come uno specchio sfaccettato. Le finestre oscurate non completamente, i tetti che luccicavano nell’ombra lieve, le borchie metalliche dei portoni di cui ogni sporgenza emetteva un debole scintillio, qualche semaforo che restava acceso più a lungo degli altri, inspiegabilmente, era il fiume ad attirarli, a imprigionarli e farli giocare tra i suoi flutti.
Dall’alto doveva apparire bianco, scorrere come un flusso di latte. Alcuni pensavano che potesse servire da riferimento per gli aerei nemici. Altri dicevano che era impossibile. In realtà non si sapeva nulla. «Io me ne resto a letto», mormoravano voci insonnolite, «Non ho paura». «Ad ogni modo, una sola volta basta», replicavano i più prudenti.
Oltre le vetrate che coprivano le scale di servizio delle nuove costruzioni, si vedevano scendere una, due, tre piccole luci. Gli inquilini del sesto piano abbandonavano le zone più elevate; tenevano davanti a sé le torce elettriche accese a dispetto dei regolamenti. «Preferisco non scassarmi la testa sulle scale, vieni Emilio?» Istintivamente si parlava a voce bassa come se si fosse circondati da sguardi eorecchie nemici. Una dopo l’altra si sentiva lo sbattere di porte racchiuse di colpo.undefinedNei quartieri popolari la gente si assiepava nelle stazioni del métro, nei rifugi dall’odore stantio mentre i ricchi si limitavano a scendere giù nelle portinerie, l’occhio teso verso gli scoppi e le esplosioni che avrebbero annunciato la caduta delle bombe, attenti, i corpi tesi come bestie inquiete nei boschi quando si avvicina la notte della caccia; i poveri non erano più paurosi dei ricchi; non erano maggiormente attaccati alla vita, ma avevano più di loro lo spirito del gregge, avevano bisogno gli uni degli altri, bisogno di stare a contatto di gomito, di piangere o di ridere insieme.
Il sole stava per sorgere; un riflesso pervinca e argenteo si rifletteva sul selciato, sui parapetti del lungo Senna, sulle torri di Notre-Dame. Sacchetti di sabbia, accatastati attorno agli edifici principali sino a mezza altezza, imprigionavano le danzatrici di Carpeaux sulla facciata dell’Opéra, soffocavano l’urlo della Marseilleuse sull’Arco di Trionfo.
Ancora piuttosto lontano rimbombavano colpi di cannone, poi si facevano più vicini e i vetri tremavano in risposta. Bambini nascevano in camere troppo calde dove erano state tappate tutte le fessure delle finestre affinché non trapelasse all’esterno il minimo raggio di luce, e il pianto dei neonati faceva dimenticare alle donne il rumore delle sirene e la guerra. Alle orecchie dei moribondi i colpi di cannone giungevano deboli e privi di significato, un ulteriore suono che si mescolava al sinistro e indefinito rumore che accoglie l’agonizzante come un gorgo. I piccoli, accucciati contro il fianco caldo della mamma, dormivano quieti e facevano con le labbra dei piccoli schiocchi leggeri, come di un agnellino che succhia il latte.
Abbandonate al momento dell’allarme, alcune carrette di ortolani, cariche di fiori freschi, erano buttate in mezzo alla strada. Il sole, ancora rosseggiante, saliva nel cielo limpido. Venne tirato un colpo di cannone, questa volta tanto vicino alla città che gli uccelli sfrecciarono in volo dalla sommità dei monumenti. Dall’alto planavano grandi uccelli neri, mai visti prima, spiegavano sotto il sole le ali satinate di rosa, poi si levavano in volo i bei piccioni grassi tubando e le rondini, i passeri saltellavano tranquillamente nelle strade deserte. Sulle rive del fiume, sui rami dei pioppi, grappoli di piccoli uccelli scuri cantavano alto. In fondo alle cantine giunse finalmente un suono lontano, attutito dalla distanza, una specie di fanfara su tre toni.
Cosa accadrà quando le loro vite si incontreranno?
(cit.)
Definizioni (Dizionario mac) chat ~ Servizio offerto da Internet, che permette mediante apposito software una ‘conversazione’ fra più interlocutori costituita da uno scambio di messaggi scritti che appaiono in tempo reale sul monitor di ciascun partecipante.
ETIMOLOGIA Propr. “conversazione” DATA sec. XX.
desiderio - Sentimento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del conseguimento o dell'attuazione di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti: provare il d. di qualcosa; soddisfare i propri d.
• Quanto ne costituisce l'oggetto: quella donna è il mio unico d. • Pio desiderio, oggetto di vane speranze • Voglia sessuale: nell'impeto del desiderio; essere oggetto di d.
ETIMOLOGIA Dal lat. desiderium, der. di desiderare ‘desiderare’ DATA fine sec. XIII.
Comunicazione, virtualità e virtù
In questo mondo virtuale che ci sta travolgendo possono accadere cose strane come ad esempio comunicare con le chat; vengono scritte e lette cose che non riusciamo a comprendere; perché l'immediatezza dei messaggi nega la mediazione riflessiva; ciò che viene scritto, per essere compreso con sufficiente padronanza, ha bisogno di rilettura riflessiva e meditata. Quel che scriviamo è corrotto dal desiderio di farsi conoscere; quel che leggiamo è corrotto dal desiderio di conoscenza. I messaggi brevi che si scrivono due persone che non si conoscono, come opera letteraria, nasce e muore lì, nella parola, nella chat. Il discorso amoroso è frammentato, (frammenti di un discorso amoroso), giocato tutto sull'immediatezza delle parole, sui tempi di risposta, sull'immaginazione, i sogni, le frustrazioni, le illusioni della solitudine dei dialoganti.
Le rispettive memorie affettive non hanno tempo d'intervenire, dare sostanza, motivare il contenuto umano, letterario, romantico e romanzesco di un rapporto amoroso che viene espresso, con parole troncate, nei brevi e farfugliati messaggi caratteristici delle chat. E spesso, quando cresce il desiderio di conoscenza, corporale e sensitiva, l'immagine si trasforma in illusione ossessiva e/o ammaliante, come un miraggio nel deserto e/o le innumerevoli Fate Morgane che popolano il nostro immaginario.
Il desiderio ha bisogno del corpo e dei sensi; ha bisogno di toccare, vedere, ascoltare, gustare, odorare: il desiderio ha bisogno dei sogni, del gioco poetico, dell'essere e del non essere; ha bisogno del mistero e della realtà: ha bisogno di umanità e divinità intese e comprese separatamente ma radicalmente coesistenti nella mente umana: biunivocamente unite nella loro eterna alterità.
L'opera nel gesto
- Ogni gesto umano è un gesto divino. Nell'uomo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. L'uomo ideale è Dio fatto uomo che, nella sua umanità, ci fa conoscere la divinità. (San Josémaria Escrivà)
- Nella scienza o nella letteratura o nell'arte, appena toccata, nell'opera, una compiutezza, una perfezione; appena svelato compiutamente un segreto; appena data perfetta forma, e cioè rivelazione, a un mistero - nell'ordine della conoscenza o, della bellezza - ...appena dopo è la morte. (Leonardo Sciascia)
La chat, come tutte le opere letterarie, se non seguita da una ricaduta concreta nella realtà quotidiana, è la tomba del desiderio. In altri termini: il desiderio virtuale, in se stesso, non è desiderio vero e proprio ma illusione: è desiderare un qualcosa che non esiste, una vacuità impalpabile e volatile: è desiderare il nulla assoluto, in senso oggettivo.
Il gesto di scrivere e di leggere un testo letterario equivale al dire e ascoltare una testimonianza verbale. In questa logica dell'equivalenza va intesa la lettura della chat che segue, scritta da due persone in cui tutti possiamo identificarci.
La maschera
Nella chat, sono riportati i passaggi verbali di una conoscenza virtuale e della sua ineluttabile morte nella vacuità quotidiana. È taciuta tutta la prima fase del dialogo, fatta di saluti e convenevoli di presentazione che, seppur importanti per i dialoganti, nulla aggiungono all'argomento qui trattato: ho estrapolato solo il corpo centrale e la fase di sospensione finale, del dialogo "amoroso". Nel susseguirsi dei brevi messaggi si evidenziano necessità, bisogni e menzogne che, secondo un'interpretazione del tutto personale, ho cercato di sintetizzare nei titoli introduttivi delle varie fasi, ordinate in sequenza temporale.
Da un punto di vista educativo, la trascrizione della chat è solo un esempio, uno dei tanti modelli comunicativi di una classica "bidonata" (come la chiamerebbe Gabriel, lo zio di "Zazie nel metrò") in cui necessità e bisogni dichiarati, mascherano e nascondono una realtà che si rivelerà - teatralmente inaspettata - diversa da quanto dichiarato come verità nei messaggi. In fin dei conti, qualsiasi chat è una maschera comunicativa.
In un certo modo, i due dialoganti chatt-attori interpretano un ruolo: è il gioco shakesperiano tra l'essere e il non essere, o quello pirandelliano tra l'essere e l'apparire; un gioco in cui gli attori riflettono perfettamente loro stessi, le loro personalità; e agiscono entro le dinamiche del desiderio mimetico girardiano, dove la menzogna romantica delle parole viene puntualmente smascherata dalla verità romanzesca dei fatti. Un ultima stranezza coincidente è rappresentata dalla data: 25 dicembre: sarà forse la nascita di un amore... virtuale?
La chat
Nota di lettura: la lettura chat potrà rusultare difficoltosa perchè l'interlocutrice (o l'interlocutore) non è italiana/o e, probabilmente, usa un programma di traduzione non esperto del linguaggio italiano. I miei interventi sono scritti in corsivo.
L'inizio
Lei [25/12, 20:08]:
ok buona sera tesoro, buon viaggio a te; hai fatto un lungo viaggio; e poi c'erano ingorghi che ti hanno impedito di andare veloce.
Lui:
Buonasera, sei anche tu a casa?
Lei [25/12, 20:12]:
si tesoro, com'è andata la festa con i bambini?
Lui:
Bene, molto bene. Erano felici e rapiti dalle magiche atmosfere di Babbo Natale....e dai regali
L'invito
Lei [25/12, 20:16]:
ok tesoro, è fantastico ma non ho nessuno che mi inviti in un ristorante per un caffè; sogno che un giorno sarai tu tesoro
Lui:
Non sei mai stata invitata in un ristorante per un caffè? Come è possibile? quanti anni hai? Quando lavoravi come cuoca, non hai mai ricevuto inviti?
La famiglia
Lei [25/12, 20:33]:
quando ero con il mio ex tesoro andavamo spesso al ristorante per prendere un po' di caffè; tu mi conosci, sto cercando un uomo che mi amerà per quello che sono, perché io voglio amare un uomo per quello che è e non per quello che ha. Sai, nella mia vita ho sempre avuto qualcosa in mente, ho sempre pensato che il il vero lusso è avere una famiglia felice.
Lui:
E tu non ci vai più in Francia? Sei sempre a Roma? Magari vai in giro per il mondo e dimentichi ogni tanto di fermarti, di riposare e respirare la vita vera, la famiglia, l'amore. Certo, sei bella ma si deve essere belli anche dentro per scoprire l'amore e non lasciarsi intristire dalla solitudine.
Lei [25/12, 20:54]:
Dicono che sono bella ma vorrei sedurre un uomo con il mio cuore più che con la mia bellezza; la vera bellezza conta ma il cuore è la cosa più importante; e penso che, se ami qualcuno per quello che ha, la relazione non durerà; e quando vuoi amare devi amare e... questo: non guardare l'altro ma guardare con lui nella stessa direzione.
Lui:
Si, hai ragione il tuo sorriso è autentico e vero; non dubito della tua bellezza interiore, ma il vortice degli impegni di lavoro può causare, nella solitudine, vuoti interiori e desiderio di pienezza che non troverai mai nei soldi e nel successo. La pienezza interiore si raggiunge con l'umiltà, la purezza, la serenità, l'abbandono all'abbraccio di un uomo. Proprio come tu hai scritto in qualche post precedente.
La verità
Lei [25/12, 21:00]:
So che ti sarà difficile capirmi o credermi ma questa la verità, quella che ti dico io; sono bella, forse, ma sappi che sono ancora più bella dentro di me e su questo che conto di trovare l'uomo della mia vita; sai che la fiducia in se stessi è il primo segreto del successo; e io ho fiducia in me stessa, nel carattere che ho, che potrei avere l'uomo con cui vivere con lui per eternity e per la vita; anche se quest'uomo è il più povero del mondo, anche se non può farmi dare figli e saperlo nutrire famiglia con questi elementi essenziali.
Lui:
La fiducia in se stessi è importante e necessaria per poter credere che la vita ha una destino nell'eternità, è infinita; solo così ha un senso irremovibile nel tempo e sicurezza nell'indicare all'altro il cammino dell'amore.
Il perdono
Lei [25/12, 21:29]:
perchè anche se ci sono problemi va sistemato tra due e non bisogna andare ognuno per la sua strada perchè la coppia non va più; ma anzi bisogna sedersi a discutere; e aspettare di riprendere in mano la vita insieme; e penso che è così che la coppia sarebbe ancora più solida sai che può esserci infedeltà ma in amore devi saper perdonare.
Lui:
Non ho mai incontrato una donna così pragmatica e sicura; e hai ragione mi trovo d'accordo in tutto quello che scrivi...e non è così scontato per il mio carattere; sono sempre molto attento a quel che si dice perché ho il gusto di contraddire e smontare i sogni di gloria che, di solito, sono castelli di carta che al primo soffio volano via.
L'eroismo
Lei [25/12, 21:40]:
Ecco perché ho deciso di dimenticare tutto e ora prendi il controllo della vita; qualunque sia la tua situazione, di' a te stesso che un giorno troverai quello che vuoi nella vita perché i nostri sogni siamo noi che li realizziamo e non dobbiamo sederci e aspettare che si avvera da solo ma devi lottare per realizzare il sogno di te stesso.. mi capisci spero.
Lui:
Si, ti capisco benissimo. In fin dei conti è un concetto antico come il mondo che ho sempre perseguito e predicato: devi essere sempre pronto a perdere tutto e ricominciare da zero. "Aspettando Godot" consumi la vita nell'attesa del nulla.
La fede
Lei [25/12, 22:03]:
Sai che sono qui in rete lo so perché perché mi dico che l'amore è ovunque dov'è e continuo a sperare di trovare un uomo che potrei conoscere e se ci fa piacere penso che verrà a prendermi o che io vado al suo posto; perché per me quando amiamo vogliamo e quando vogliamo possiamo fare di tutto per ottenerlo quindi credo nell'amore in queste cose incredibili che lui crea perché per me è sacro
Lui:
"L'amore è ovunque dov'è" - "Continuo a sperare" - "credo nell'amore" e in "queste cose incredibili che lui crea"- "Per me l'amore è sacro". Carissima più scrivi e più mi piaci.
L'amore
Lei [25/12, 22:21]:
perché non c'è niente di più bello che amare quando si deve amare; questi verissimi amori sono cose più belle ma anche peggiori quando ti si tradisce; qui sai un po' di più della mia vita e spero di conoscere te e chi lo sa perchè se la fortuna ci ha fatto incontrare penso che dobbiamo aspettare che il tempo faccia anche per lui così nessuno questa o quella fortuna sorriderà.
Lui:
Il tradimento nasce sempre dalla falsità (dall'illusione). Tradire è voltare le spalle all'eternità; è voler vivere il presente solo per sé stesso senza un senso, una direzione uno scopo (eterno). Hai parlato di fedeltà ma la fedeltà non ammette il tradimento perché fedeltà è per eternità: non solo per il presente. Dichiarare amore eterno vuol dire avere fede e speranza. Purtroppo molti non credono nell'eterno quindi molti sono pronti a tradire. Saper riconoscere la verità e l'ipocrisia: è essenziale per vivere l'amore....ma non è facile, specialmente per chi ama senza se e senza ma.
La speranza
Lei [25/12, 22:57]:
qui spero che tu sia una persona sincera e seria il resto verrà con il tempo.
So cucinare molto bene; anche io sò molto di cucina; sono una donna molto seria, sincera, onesta, gentile, ma penso che non spetta a me dirtelo ma spetta a te saperlo questo il momento; vado spesso all'orfanotrofio per andare ad aiutare i cuochi lì perchè è una passione per me amo i bambini e se avessi i mezzi penso che li aiuterei perchè sono così simpatici ma ehi questi già bene cosa L'ho fatto perché li imparo bcp.
L'attesa
Lei:[3/1, 10:26]
ok non preoccuparti ma sai che non sono da sola la mia connessione internet sono sulla connessione del vicino.
Lui:
ok
Lei [3/1, 10:27] :
per favore invia 100 € ricaricherò la mia connessione internet tesoro
Lui:
No. Se vuoi e puoi chattare, bene; altrimenti, aspetta Godot
Lei: [3/1, 10:37]:
non mi mandi niente voglio ricaricare la mia connessione internet per poter chattare con te tutto il tempo.
Non lo conoscevo, non avevo letto niente di lui, non sapevo che era uno scrittore. Poi, un giorno, mi è stato proposto di partecipare a una discussione* su una sua opera e ho cominciato a cercarlo e a conoscerlo.
Nel museo di Reims, l'opera che mi era stata proposta alla lettura, il romanzo breve (o racconto) di Daniele Del Giudice, non l'ho trovato. Nei scaffali, sui piani e ripiani di diverse librerie che ho visitato, non c'era, non era nei magazzini e non era previsto che arrivasse. Ho provato a cercare on-line e l'unica edizione disponibile era quella digitale; ho scaricato il file sul mio PowerBook e l'ho letto; ma la lettura in digitale non mi piace, non mi soddisfa, non mi dà modo di approfondire, compendiare e comprendere il romanzo. Insomma cercavo un libro e volevo il libro, o almeno un'edizione su supporto cartaceo; desideravo sfogliare e sentire le pagine tra le dita: volevo il "mio" libro, le "mie" pagine di carta, pregiata in quanto materia corposa, eco della realtà oggettiva.
Ho cercato nelle biblioteche e ho chiesto la disponibilità di questo fantomatico libro assente nelle librerie. Mi è bastata una telefonata; in poco tempo ho ricevuto la notizia che appagava la mia smania di possesso: una voce femminile, entusiasta e gioiosa, mi ha comunicato che aveva trovato quel che cercavo e che era disponibile in biblioteca. Sono andato in biblioteca e la voce vestita di donna, dopo le formalità amministrative, mi ha dato un libro ma era diverso da quello che cercavo: la donna, nel suo ruolo di bibliotecaria, riprende la scena e mi dice con suadente gentilezza che il libro che avevo chiesto non era nel catalogo della biblioteca; però il titolo, Nel museo di Reims , era riportato nell'indice di quella raccolta di Racconti che avevo tra le mani.
Dunque, la ricerca di una sua opera, assente dagli scaffali delle librerie, è stato il mio incontro di conoscenza con l'autore, Daniele Del Giudice.
La conoscenza
L'incontro è conoscenza di due anime, autore e lettore che nella lettura s'incontrano; si specchiano e si riconoscono nell'eroe del romanzo.
Nell'eroe romanzato brilla il riflesso della loro rispettiva maschera ancestrale spesso dimenticata, fin dalla fondazione del mondo. Ma è proprio lì, nell'atto originale, che vaga fluttuante quella maschera, pronta a posarsi e aderire con forza sul volto di chi la cerca; è proprio lì, nell'atto primordiale, che autore e lettore possono trovare e riconoscere il loro vero essere: il nocciolo, il nervo e il verbo della loro irriducibile umanità.
La memoria
La memoria dissocia gli elementi contraddittori del desiderio. Il sacro emana il suo profumo mentre l'intelligenza attenta e staccata può ora riconoscere l'ostacolo contro il quale urtava; comprende la funzione del mediatore e ci svela il meccanismo infernale del desiderio. (René Girard - MRVR)
Il battesimo è l'incontro tra due memorie, l'abbraccio di due anime, la stretta di mano tra due persone nascoste e forse perdute nel sottosuolo del mondo. Due anime che cercano, vogliono conoscere; e lo possono fare solo togliendo quella maschera che le costringe a un ruolo che non capiscono, non comprendono e non sanno interpretare; perché da sempre sono concentrate nella loro soggettiva diversità e vogliono mostrarsi per come sono veramente; vogliono mostrare la vera presenza, l'essenza; vogliono esseree non solo apparire; vogliono conoscere la vera realtà perché quella che appare la sentono virtuale e sfuggente...come una lettura dell'edizione digitale di un libro.
(La via che mi ha portato a comprendere il grande poema)
1- Dante esisteva e avevo un dovere
L'incontro con l'opera grande è decisivo quanto al rapporto con la creazione spirituale. Ma un simile incontro richiede una concentrazione di energia, ed anche una specie di adeguamento dell'esistenza che, con il crescente numero delle opere, si fa sempre più difficile. Eppure è necessario.
Com'è possibile capire intimamente che cosa è l'arte se non si è conosciuta la grande opera d'arte?
Anche qui come in tutti i problemi decisivi, l'autentico non si determina dal basso verso l'alto, ma viceversa. È difficile comprendere la forma grande, appunto perché è grande. L'incontro con essa può essere quindi solo il frutto di una lunga preparazione. Prima che si conceda bisogna a lungo spendersi per conquistarla. Bisogna prima cercare di intuire quale poesia sia quella che ci è destinata: se di Omero o di Shakespeare, di Virgilio o di Goethe. Bisogna simpatizzare con essa pur anche se ci rimane ancora in qualche modo chiusa.gli incontri e gli eventi della vita ci devono dare indicazioni sull'opera per la cui conquista siamo fatti, finché verrà il momento in cui essa ci si rivelerà.
Parlo per esperienza e vorrei raccontare come ho trovato l'accesso alla Divina Commedia di Dante.
Esattamente venticinque anni fa (cioè nel 1909) - ero ancora studente - uno dei miei professori mi chiese se avessi letto Dante, e poiché dovetti rispondere negativamente, mi disse sorridendo che studiare teologia, parlare italiano e non aver letto Dante, era quasi un peccato. Disse "quasi un peccato veniale", poiché era insegnante di teologia morale e amava la precisione. Non ricordo più se ho cercato di fare quanto mi si suggeriva, ma in ogni caso non vi sono riuscito. Ma una cosa era certa: Dante esisteva e avevo un dovere nei suoi riguardi.
2 - La Vita Nuova
Passarono alcuni anni, avevo terminato gli esami, ero stato in cura d'anime, e mi trovavo di nuovo all'università per abilitarmi. Fu in Friburgo, e il tema della mia dissertazione verteva sulla dottrina della redenzione in San Bonaventura. In Quel tempo cercai di nuovo di avvicinarmi a Dante, e precisamente alla Vita Nuova, ma essa mi rimase chiusa. Non seppi entrare nella potenza di quell'esperienza interiore che, venendo dal cuore, irradiava nello spirito e al tempo stesso sconvolgeva l'esistenza fisica. Mi sembrava irreale e perciò puramente letteraria.
Per caso - tutti gli incontri sono casuali - conobbi una persona. Divenimmo confidenti e un giorno mi parlò di sé. Stetti ad ascoltarla attentamente, e un lampo interiore mi disse: questa è esattamente l'esperienza della Vita Nuova! Non voglio con ciò mettere a pari i due livelli, sarebbe far torto all'uno e all'altro. Ma la fecondità della conoscenza dipende in buona parte dal fatto che, attraverso la somiglianza qualitativa, si impara a trovare l'accesso ad un fenomeno maggiore movendo da uno minore.
Ormai sapevo una cosa: che l'evento interiore della Vita Nuova corrisponde a un'esatta verità e che la Divina Commedia di Dante rimane impenetrabile finché non si è compresa l'anima vitale della sua opera giovanile. Ma francamente non giunsi ancora al capolavoro.
3 - La luce in Engandina
Il mio lavoro di allora mi insegnò molte cose utili alla comprensione di Dante, come scorta per così dire. Prima di tutto imparai che cosa significhi per il medioevo conoscenza: non ricerca nel senso moderno, ma contemplativa penetrazione del mondo e costruzione dell'immagine dell'esistenza.
Poi che cosa significhi il concetto, più esattamente, il fenomeno della luce spirituale, quale emerge da una determinata esperienza intellettuale e contemplativa. Questa intuizione rimase dapprima teorica; ma intuivo che doveva esservi dell'altro, finché, circa quindici anni dopo, andai in Engandina e notai la sua luce. Forse un giorno mi sarà concesso di esporre in forma più circostanziata quanto là imparai - specialmente quando, quasi a chiarirmi quella elevata chiarezza vi si aggiunse la dolce luce ottobrina dell'Allgau e poi ancora quell'oro caldo che dalle colline del veneto è defluito nei quadri di Tiziano.
Ad ogni modo compresi allora qualcosa di Platone che non si trova in alcun libro, tranne che nei suoi propri; ma anche in essi lo si nota solo dopo aver visto la chiara luce di cui parlo e il cuore ne è rimasto sopraffatto - ciò che nel cuore è al tempo stesso la parte più intima dello spirito. Compresi pure qualcosa di Plotino e di Agostino, poiché quella chiarità vive anche in essi, sebbene in modo diverso. E quando vidi come una simile luce si posava attorno agli alberi, alle foglie, ai rami, alle loro forme; come trasfigurava i monti nel tardo pomeriggio, quando tutto cambia, allora ho presentito quale affinità ci sta tra la luce e la dottrina della trasfigurazione.
Tutto questo mirava a Dante, ma stava ancora fermo e aspettava, poiché egli continuava ad essere per me esigenza e promessa, non partecipazione.
4 - La realtà nell'Assoluto
Il pensiero dell'uno e dell'altro cammina per molte diverse vie. C'è chi muove dalla realtà e penetra a grado a grado nell'universale. Altri devono seguire la direzione opposta, e a questi io appartengo. Soltanto nel corso di molti anni ho potuto arrivare dalle idee alle cose, all'uomo concreto, alla storia; ma certamente tutto questo fu allora raggiunto in una profondità particolare.
Finché finalmente ho scoperto la meraviglia del reale di fatto: di ciò per cui non esiste motivo per cui debba essere, ma che è, e si afferma davanti alla possibilità sempre incombente di potere non essere. E bisognava inoltre vedere in tale realtà là esistente, che è "fortuita" - ma l'espressione è profana; si deve dire: che è "dono", che è "data" dalla libera munificenza del Dio vivente - può irradiare l'autentico. Non al di sopra, non al di fuori di essa, ma in essa.
5 - Il libro di Erich Auerbach
Poi un giorno mi si parlò del libro di Erich Auerbach. (Viaggi nel Testo - Autori della letteratura Italiana - Dante Alighieri) Già il titolo era eccitante: "Dante poeta del mondo terreno". Ma il suo contenuto fu ancora superiore all'aspettativa. Dante vi era designato come il poeta cristiano nel senso più profondo. Si intendeva per cristiano una mentalità che non identifica il concreto con il puramente empirico, ma lo vincola all'Assoluto-Eterno; E d'altro canto non risolve l'esistenza nell'ideale, ma la conserva nella storia. Presupposto a tutto c'è l'Incarnazione di Dio; e ciò che decide della qualità cristiana di un pensiero è che esso accolga in sé questo fatto - veramente factum, insieme azione e verità. - come sua norma. Allora mi apparve chiaro come Dante sia il poeta che porta nell'eterno l'uomo, il mondo, la storia, l'esistenza tutte, ma senza che la forma finita venga dissolta. Essa si trasforma, ma rimane conservata.
Il libro mi apriva la porta, ma non varcai ancora la soglia. Giacchè quando ripresi a leggere - quale vigoria plastica, quale precisione di contorni, quale risolutezza di forma! - Era magnifico, vibravano fin le fibre del mio corpo - ma proprio in questo consisteva la difficoltà, poiché si trattava di aldilà, di un altro mondo, della sfera santa dell'aperta presenza di Dio! Questa sfera non voleva rivelarsi; proprio la concreta densità delle forme lo impediva.
6 - L'immagine visionaria
Poi un giorno lessi che il pellegrino è pieno d'angoscia nel bosco senza uscita; che vuol salire sul monte illuminato da tutte le speranze, ma non può perché la selva lo trattiene. Gli animali infernali lo aggrediscono, la lupa della cupidigia di qui a un attimo gli sarà alla gola, ma tutto questo non accade! La fiera si lancia e non arriva alla preda, e l'orrore è proprio qui. Dove è possibile? mi domandavo. Nel sogno! Là ogni cosa è ciò che è, eppure è diversa, afferrabile eppure arcana e straniera! Ma poi il pensiero corse avanti: No, non è il sogno, ma la visione!
Era la condizione previa, il punto da cui si doveva guardare, sentire: dal modo di vedere della visione. Le forme mantenevano tutti i loro contorni esatti, ma entravano nell'atmosfera di un altro stato. Tutto era chiaro, eppure apparteneva all'aldilà.
In uno scambio di vedute con una persona che viveva tutta per Dante - ebbi anche questo incontro che portò ad una serie di discorsi pieni dello stesso amore ed entusiasmo - nell'accogliere i suoi pensieri e nel riflettervi, questa premessa psicologica si estese fino a divenire un principio per la comprensione dell'opera. Dante dice: ho visto. Questa parola è impegnativa. Il suo poema deve essere considerato come contemplato, come un'immagine visionaria che nasce da una immensa esperienza.
7 - La sintesi
Allora si unirono tutti i fattori in attesa, accumulati nel corso di tanti anni. La totalità particolare dell'esperienza della persona di cui ho detto, il fenomeno della luce alta, la concretezza terrena conservata nell'Assoluto e il libro di Auerbach, l'elemento visionario come presupposto psicologico e oggettivo: tutti questi elementi entrano in sintesi.
Potrei menzionare altre cose ancora: la conoscenza, acquisita dinanzi all'altare di Isenheim del Grunewald, della natura propria dell'arte che nasce dall'esperienza mistica. Di riscontro l'idea che l'esperienza religiosa più pura può sfociare nell'azione storica, anzi politica: in un Bernardo di Chiaravalle e in modo ancor più straordinario in una Caterina da Siena. Il mistero di quell'amore che è nello stesso tempo luce e ardore, in modo che il cuore è spirito e lo spirito pulsa nel sangue: in Francesco d'Assisi esistenza viva, in Agostino pensiero possente, in Pascal esperienza dei valori in una coscienza critica, philosophia e theologia cordis. E altro ancora.
Tutto ciò crebbe fino a formare uno spazio vivo, una sintesi di forme interpretative, in cui ora la Divina Commedia ha il suo luogo e che si schiude sempre più, rivelando una ricchezza sempre più profonda, e la capacità di accogliere le esperienze che la vita ancora dona.
(Luca 22, 7-13) - Venne quindi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi la Pasqua, perchè possiamo mangiare". Gli chiesero: "Dove vuoi che la prepariamo?". Ed egli rispose: "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: Il maestro ti dice: Dov'è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e fornita di cuscini; là preparate". Essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto e prepararono la Pasqua.
Nota da: "LA BIBBIA DI NAVARRA"
L'episodio ha luogo il 14 di Nisan, giovedì. A ogni israelita erano ben noti i preparativi che la festa della Pasqua richiedeva. Si trattava di un rito che la tradizione giudaica, appoggiandosi alle prescrizioni divine della legge mosaica, aveva definito minuziosamente: i pani azzimi, le lattughe selvatiche, le coppe per il vino, e infine l'agnello, che bisognava sacrificare nell'atrio del tempio alle prime ore della sera. Pietro e Giovanni non hanno quindi alcun dubbio sui preparativi da fare. Chiedono solamente in quale luogo Gesù intenda celebrare la festa, e il Signore fornisce loro le indicazioni sufficienti a trovarlo. I discepoli ritengono che si tratti di preparare la cena pasquale secondo tradizione; Gesù pensa invece alla istituzione della sacra eucarestia e al sacrificio della Nuova Alleanza che avrebbe sostituito i sacrifici dell'Antico Testamento.
Notizie storico-critiche: L'incisione fa parte della serie di 52 tavole numerate, prive di frontespizio, realizzate da Orazio Borgianni nel 1615. Dell'intera serie si conoscono tre stati: un primo stato "ante litteram", un secondo stato caratterizzato dalla presenza di versetti biblici in margine ad alcune tavole, e un terzo stato con l'aggiunta dell'indirizzo dell'editore su parte dei fogli (cfr. Bernini Pezzini, Massari, Prosperi Valenti Rodinò 1985, p. 84). I fogli smarginati conservati presso il Gabinetto disegni e stampe dell'Accademia Carrara non permettono di stabilire a quale stato appartenga questa serie. I rami si conservano a Roma alla Calcografia Nazionale.
L'ULTIMO CONVEGNO - Romano Guardini
Così si concreta la decisione. Venerdì è il grande giorno di preparazione (parasceve), in cui si celebra il banchetto di Pesach. Gesù sa che non potrà più agire allora, così lo anticipa (al giovedì), poiché egli, che si è chiamato il Signore del sabato, è anche il Signore di Pesach.
Il racconto è colmo della stessa misteriosa tonalità profetica dominante in quello sull'entrata a Gerusalemme: vengono inviati dei messaggeri; è detto loro ciò che loro capiterà e che dovranno fare, parlano e replicano, e tutto così si combina. Per quanto concerne la casa, si supppne che sia appartenuta a colui che sarebbe stato poi l'evangelista Marco e sia stata quella medesima dove si radunarono i discepoli dopo la morte del Signore e dove ebbe luogo anche l'evento della Pentecoste.
A sera Gesù vi si reca con i Dodici; è dunque con i suoi soli discepoli più vicini. Qui vogliamo lasciare che operi su di noi l'atmosfera dominante, e, da essa ispirati, cercare di ottenere una prospettiva sul Signore stesso.
Per capire meglio la situazione, ricordiamoci (...) quale stretto rapporto, in quell'epoca, legasse l'insegnante con i suoi scolari, il maestro con i suoi discepoli, fosse un filosofo, o un dottore religioso, o chiunque raccogliesse intorno a sé uditori e seguaci. Il maestro viveva interamente con i suoi. Questi appartenevano da molti anni alla cerchia, si trovavano insieme spesso per tutta la giornata, mangiavano e abitavano e camminavano assieme. Vi era un legame in cui umano, spirituale, personale, religioso confluivano in una cosa sola. Se dunque Gesù con la più stretta cerchia dei supoi discepoli, i "Dodici", celebra nell'ora della più difficile decisione la sacra cena di Pasqua, certo noi a stento riusciamo a immaginarci l'intimità d'affetto e la ricchezza dell'ora.
Chi, giunto alla meta d’un pellegrinaggio lungamente nel pensiero vagheggiato, visita Roma ed ascende col fremito d’una pietosa curiosità la grande scalea del Vaticano, girato c’abbia lo sguardo sulle meraviglie di tutte le età e di tutti i paesi del mondo, raccolte quasi ad ospizio in quel magnifico plagio, si avviene in luogo che può dirsi santuario dell’arte cristiana, nelle Sale di Raffaello.
In una serie di affreschi storici e simbolici vi delineò quel pittore le glorie e i benefici del “Cattolicesimo”. Sia per la bellezza assoluta dell’argomento, sia per la felice esecuzione, in uno di quegli affreschi l’occhio si posa maggiormente ammirato.
Raffigurasi in esso il Santo Sacramento sopra di un altare eretto tra il cielo e la terra; il cielo, che s’apre, e di mezzo al suo splendore lascia vedere la divina Trinità, gli angeli e i santi; la terra, ed ivi un grande altare a cui fa corona una numerosa assemblea di pontefici e di dottori della Chiesa.
Tra i gruppi che formano l’assemblea, emerge distinta una figura notabile per la singolarità della sua espressione, con la testa non già recinta di tiara o di mitra, ma di una ghirlanda d’alloro, nobile a un tratto ed austera, né punto indegna di tale compagnia. Ove ben le si ponga mente, si ravvisa in essa Dante Alighieri.
Allora ne viene spontanea la domanda, per quale diritto l'immagine di tale personaggio fosse introdotta tra quelle de' venerabili testimoni della fede, da un pittore avvezzo alla scrupolosa osservanza delle tradizioni liturgiche, sotto l'occhio stesso dei Pontefici, nel seno della sede della ortodossia.
Nè troppo difficile è la risposta, la quale si offre nella considerazione degli onori quasi religiosi tributati da tutta Italia alla memoria di quest'uomo, e che in lui rivelano più che un poeta.
I pastori nei dintorni di Aquileia additano ancora oggidì in riva al Tolmino una rupe che essi dicono il seggio di Dante, dove ben espresso egli venne a ruminare i pensieri dell'esilio. A Verona siamo innanzi tutto condotti alla chiesa di S. Elena, dove pellegrino indugiavasi a difendere una publica tesi. All'ombra delle selvagge montagne di Gubbio, in un monastero di Camaldolesi, il busto di lui fedelmente conservato, ci ricorda ch'ei vi passò qualche mese nella solitudine e nel riposo.
Ma Firenze innanzi l'altre città ha circondato di un culto espiatorio checché avanza di lui, la casa che lo riparava, la pietra ancora dove egli soleva sedersi; e gli decretò una maniera di apoteosi, raffigurandolo per opera di Giotto, in veste trionfale, colla fronte incoronata, sotto di un portico della chiesa metropolitana, e quasi tra i santi tutelari della città.
Giotto - Ritratto di Dante
Influenza della poetica di Dante (Ozanam)
Gli ingegni più splendidi dell'Italia si abbassano dinanzi a questo grande ingegno fratello lor primogenito, e maggiore di loro: il Boccaccio, i Villani, Marsilio Ficino, Paolo Giovio, il Varchi, Il Gravina, il Tiraboschi salutarono Dante col nome di filosofo. E il giudizio universale formulandosi in un verso passato in adagio, lo ha proclamato il dottore delle divine verità, e il sapiente a cui nessuno delle umane cose era ignota: Theologus Dantes, nullius dogmatis expers.
A queste onorevoli voci rispose l'eco d'oltr'Alpi. Uno tra i primi traduttori francesi della Divina Commedia così favellava nella dedica ad Enrico IV: "Sire, io non tenerei affermare che questo sublime poema non deve per alcun modo collocarsi nel numero di molte composizioni che il divino Platone raffrontava agli orti del vago Adone, che d'improvviso e in un giorno solo sorti alla luce disseccano e muojono incontamente; in questo nobile poema egli si manifesta eccellente poema egli si manifesta eccellente poeta, profondo filosofo, e giudizioso teologo". (Abate Grangier)
La critica tedesca ha porta eguale sentenza. Il Brukero riconosceva in Dante "il primo tra i moderni, presso di cui le muse platoniche , esuli da settecento anni, aveano trovato un asilo; pensatore non secondo ai più chiari tra i suoi contemporanei; sapiente degno d'essere annoverato tra i riformatori della filosofia." (Brukner)
Ma siffatta è tra di noi, pellegrine creature che siamo, l'impotenza delle memorie, e la breve durata della gloria, che a mala pena di coloro per cui più venne d'onore all'antichità, ci arriva alla fine di alcuni secoli altra cosa che il nome. E questo, come avviene, il più delle volte passa alla immortalità, la mercè d'una ammirazione tradizionale ed ignara, somigliante al delfino della favola, che senza avvedersene portava traverso i mari ora un beffardo uccello, ed ora un poeta delle note divine.
Se per questi oziosi tributi della posterità avvantaggiano talora personaggi di scarso merito, più frequente è lo scapito che ne ricevono i sommi. Pare che alla giustizia siasi soddisfatto con un tributo di lodi volgari, mentre i loro titoli più preziosi restano ancora nella polvere ignorati. Che se di un tratto potessero sollevare la pietra delle loro tombe, non sappiamo quale sentimento più li agiterebbe, se lo sdegno di vedersi disconosciuti, o l'orgoglio di essere segno a tanti omaggi quantunque si abbia si poca conoscenza di loro.
Dante sperimentò queste singolari vicende dell'umana gloria. L'opera tanto sudata e tanto prediletta, alla quale fece sacrificio della sua vita, e per cui vinse la morte, la Divina Commedia, ci pervenne dopo il lasso di sei secoli, perdendo della sua virtù filosofica, nel che forse sta il suo merito principale.
Tra le persone che di colte hanno nome molte non conoscono dell'intero Poema che l'Inferno, e di questo l'Inscrizione della Porta, e la morte di Ugolino. E il cantore dei dolori noverati nel Purgatorio, e delle raggianti visioni del Paradiso, appare loro come una malaugurosa figura, come un altro spauracchio tra quelle tenebre favolose del secolo XIII già popolate di tanti fantasmi.
Altri più illuminati non adoperarono con più giustizia verso di lui. Così Voltaire vede soltanto nella Divina Comedia, "un'opera bizzarra, ma splendida di naturali bellezze, dove l'autore si eleva nelle diverse parti al di sopra del cattivo gusto del suo tempo e del suo argomento".
Se i critici d'oggidì si volsero a quella lettura con disposizioni più sode, alcuni non vi trovarono che una inspirazione piamente erotica, altri una rivelazione politica dettata dallo spirito di vendetta. Per essi i moltissimi luoghi dogmatici non sono altro a così dire, che la vegetazione d'uno spirito troppo fecondo, quasi la gramigna della scienza contemporanea, che metteva dappertutto le sue radici.
Infine gli storici della filosofia, rivendicando ciò che in quella vasta composizione ad essa appartiene, si accontentarono di stabilire la tesi senza entrare nella controversia dando a credere che non apprezzarono l'importanza della soluzione. E però ad essi, alle intelligenze pensanti, sottratte al contagio dell'errore, appellavasi il vecchio poeta quando nell'interrompere i suoi racconti, tristemente pensava a coloro che non lo avrebbero compreso; e d'una voce nobilmente supplichevole usciva a dire:
O voi, ch'avete gl'intelletti sani, Mirate la dottrina che s'ascende Sotto 'l velame de li versi strani!