(Luca 22, 7-13) - Venne quindi il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi la Pasqua, perchè possiamo mangiare". Gli chiesero: "Dove vuoi che la prepariamo?". Ed egli rispose: "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua. Seguitelo nella casa dove entrerà e direte al padrone di casa: Il maestro ti dice: Dov'è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà una sala al piano superiore, grande e fornita di cuscini; là preparate". Essi andarono e trovarono tutto come aveva loro detto e prepararono la Pasqua.
Nota da: "LA BIBBIA DI NAVARRA"
L'episodio ha luogo il 14 di Nisan, giovedì. A ogni israelita erano ben noti i preparativi che la festa della Pasqua richiedeva. Si trattava di un rito che la tradizione giudaica, appoggiandosi alle prescrizioni divine della legge mosaica, aveva definito minuziosamente: i pani azzimi, le lattughe selvatiche, le coppe per il vino, e infine l'agnello, che bisognava sacrificare nell'atrio del tempio alle prime ore della sera. Pietro e Giovanni non hanno quindi alcun dubbio sui preparativi da fare. Chiedono solamente in quale luogo Gesù intenda celebrare la festa, e il Signore fornisce loro le indicazioni sufficienti a trovarlo. I discepoli ritengono che si tratti di preparare la cena pasquale secondo tradizione; Gesù pensa invece alla istituzione della sacra eucarestia e al sacrificio della Nuova Alleanza che avrebbe sostituito i sacrifici dell'Antico Testamento.
Notizie storico-critiche: L'incisione fa parte della serie di 52 tavole numerate, prive di frontespizio, realizzate da Orazio Borgianni nel 1615. Dell'intera serie si conoscono tre stati: un primo stato "ante litteram", un secondo stato caratterizzato dalla presenza di versetti biblici in margine ad alcune tavole, e un terzo stato con l'aggiunta dell'indirizzo dell'editore su parte dei fogli (cfr. Bernini Pezzini, Massari, Prosperi Valenti Rodinò 1985, p. 84). I fogli smarginati conservati presso il Gabinetto disegni e stampe dell'Accademia Carrara non permettono di stabilire a quale stato appartenga questa serie. I rami si conservano a Roma alla Calcografia Nazionale.
L'ULTIMO CONVEGNO - Romano Guardini
Così si concreta la decisione. Venerdì è il grande giorno di preparazione (parasceve), in cui si celebra il banchetto di Pesach. Gesù sa che non potrà più agire allora, così lo anticipa (al giovedì), poiché egli, che si è chiamato il Signore del sabato, è anche il Signore di Pesach.
Il racconto è colmo della stessa misteriosa tonalità profetica dominante in quello sull'entrata a Gerusalemme: vengono inviati dei messaggeri; è detto loro ciò che loro capiterà e che dovranno fare, parlano e replicano, e tutto così si combina. Per quanto concerne la casa, si supppne che sia appartenuta a colui che sarebbe stato poi l'evangelista Marco e sia stata quella medesima dove si radunarono i discepoli dopo la morte del Signore e dove ebbe luogo anche l'evento della Pentecoste.
A sera Gesù vi si reca con i Dodici; è dunque con i suoi soli discepoli più vicini. Qui vogliamo lasciare che operi su di noi l'atmosfera dominante, e, da essa ispirati, cercare di ottenere una prospettiva sul Signore stesso.
Per capire meglio la situazione, ricordiamoci (...) quale stretto rapporto, in quell'epoca, legasse l'insegnante con i suoi scolari, il maestro con i suoi discepoli, fosse un filosofo, o un dottore religioso, o chiunque raccogliesse intorno a sé uditori e seguaci. Il maestro viveva interamente con i suoi. Questi appartenevano da molti anni alla cerchia, si trovavano insieme spesso per tutta la giornata, mangiavano e abitavano e camminavano assieme. Vi era un legame in cui umano, spirituale, personale, religioso confluivano in una cosa sola. Se dunque Gesù con la più stretta cerchia dei supoi discepoli, i "Dodici", celebra nell'ora della più difficile decisione la sacra cena di Pasqua, certo noi a stento riusciamo a immaginarci l'intimità d'affetto e la ricchezza dell'ora.
Chi, giunto alla meta d’un pellegrinaggio lungamente nel pensiero vagheggiato, visita Roma ed ascende col fremito d’una pietosa curiosità la grande scalea del Vaticano, girato c’abbia lo sguardo sulle meraviglie di tutte le età e di tutti i paesi del mondo, raccolte quasi ad ospizio in quel magnifico plagio, si avviene in luogo che può dirsi santuario dell’arte cristiana, nelle Sale di Raffaello.
In una serie di affreschi storici e simbolici vi delineò quel pittore le glorie e i benefici del “Cattolicesimo”. Sia per la bellezza assoluta dell’argomento, sia per la felice esecuzione, in uno di quegli affreschi l’occhio si posa maggiormente ammirato.
Raffigurasi in esso il Santo Sacramento sopra di un altare eretto tra il cielo e la terra; il cielo, che s’apre, e di mezzo al suo splendore lascia vedere la divina Trinità, gli angeli e i santi; la terra, ed ivi un grande altare a cui fa corona una numerosa assemblea di pontefici e di dottori della Chiesa.
Tra i gruppi che formano l’assemblea, emerge distinta una figura notabile per la singolarità della sua espressione, con la testa non già recinta di tiara o di mitra, ma di una ghirlanda d’alloro, nobile a un tratto ed austera, né punto indegna di tale compagnia. Ove ben le si ponga mente, si ravvisa in essa Dante Alighieri.
Allora ne viene spontanea la domanda, per quale diritto l'immagine di tale personaggio fosse introdotta tra quelle de' venerabili testimoni della fede, da un pittore avvezzo alla scrupolosa osservanza delle tradizioni liturgiche, sotto l'occhio stesso dei Pontefici, nel seno della sede della ortodossia.
Nè troppo difficile è la risposta, la quale si offre nella considerazione degli onori quasi religiosi tributati da tutta Italia alla memoria di quest'uomo, e che in lui rivelano più che un poeta.
I pastori nei dintorni di Aquileia additano ancora oggidì in riva al Tolmino una rupe che essi dicono il seggio di Dante, dove ben espresso egli venne a ruminare i pensieri dell'esilio. A Verona siamo innanzi tutto condotti alla chiesa di S. Elena, dove pellegrino indugiavasi a difendere una publica tesi. All'ombra delle selvagge montagne di Gubbio, in un monastero di Camaldolesi, il busto di lui fedelmente conservato, ci ricorda ch'ei vi passò qualche mese nella solitudine e nel riposo.
Ma Firenze innanzi l'altre città ha circondato di un culto espiatorio checché avanza di lui, la casa che lo riparava, la pietra ancora dove egli soleva sedersi; e gli decretò una maniera di apoteosi, raffigurandolo per opera di Giotto, in veste trionfale, colla fronte incoronata, sotto di un portico della chiesa metropolitana, e quasi tra i santi tutelari della città.
Giotto - Ritratto di Dante
Influenza della poetica di Dante (Ozanam)
Gli ingegni più splendidi dell'Italia si abbassano dinanzi a questo grande ingegno fratello lor primogenito, e maggiore di loro: il Boccaccio, i Villani, Marsilio Ficino, Paolo Giovio, il Varchi, Il Gravina, il Tiraboschi salutarono Dante col nome di filosofo. E il giudizio universale formulandosi in un verso passato in adagio, lo ha proclamato il dottore delle divine verità, e il sapiente a cui nessuno delle umane cose era ignota: Theologus Dantes, nullius dogmatis expers.
A queste onorevoli voci rispose l'eco d'oltr'Alpi. Uno tra i primi traduttori francesi della Divina Commedia così favellava nella dedica ad Enrico IV: "Sire, io non tenerei affermare che questo sublime poema non deve per alcun modo collocarsi nel numero di molte composizioni che il divino Platone raffrontava agli orti del vago Adone, che d'improvviso e in un giorno solo sorti alla luce disseccano e muojono incontamente; in questo nobile poema egli si manifesta eccellente poema egli si manifesta eccellente poeta, profondo filosofo, e giudizioso teologo". (Abate Grangier)
La critica tedesca ha porta eguale sentenza. Il Brukero riconosceva in Dante "il primo tra i moderni, presso di cui le muse platoniche , esuli da settecento anni, aveano trovato un asilo; pensatore non secondo ai più chiari tra i suoi contemporanei; sapiente degno d'essere annoverato tra i riformatori della filosofia." (Brukner)
Ma siffatta è tra di noi, pellegrine creature che siamo, l'impotenza delle memorie, e la breve durata della gloria, che a mala pena di coloro per cui più venne d'onore all'antichità, ci arriva alla fine di alcuni secoli altra cosa che il nome. E questo, come avviene, il più delle volte passa alla immortalità, la mercè d'una ammirazione tradizionale ed ignara, somigliante al delfino della favola, che senza avvedersene portava traverso i mari ora un beffardo uccello, ed ora un poeta delle note divine.
Se per questi oziosi tributi della posterità avvantaggiano talora personaggi di scarso merito, più frequente è lo scapito che ne ricevono i sommi. Pare che alla giustizia siasi soddisfatto con un tributo di lodi volgari, mentre i loro titoli più preziosi restano ancora nella polvere ignorati. Che se di un tratto potessero sollevare la pietra delle loro tombe, non sappiamo quale sentimento più li agiterebbe, se lo sdegno di vedersi disconosciuti, o l'orgoglio di essere segno a tanti omaggi quantunque si abbia si poca conoscenza di loro.
Dante sperimentò queste singolari vicende dell'umana gloria. L'opera tanto sudata e tanto prediletta, alla quale fece sacrificio della sua vita, e per cui vinse la morte, la Divina Commedia, ci pervenne dopo il lasso di sei secoli, perdendo della sua virtù filosofica, nel che forse sta il suo merito principale.
Tra le persone che di colte hanno nome molte non conoscono dell'intero Poema che l'Inferno, e di questo l'Inscrizione della Porta, e la morte di Ugolino. E il cantore dei dolori noverati nel Purgatorio, e delle raggianti visioni del Paradiso, appare loro come una malaugurosa figura, come un altro spauracchio tra quelle tenebre favolose del secolo XIII già popolate di tanti fantasmi.
Altri più illuminati non adoperarono con più giustizia verso di lui. Così Voltaire vede soltanto nella Divina Comedia, "un'opera bizzarra, ma splendida di naturali bellezze, dove l'autore si eleva nelle diverse parti al di sopra del cattivo gusto del suo tempo e del suo argomento".
Se i critici d'oggidì si volsero a quella lettura con disposizioni più sode, alcuni non vi trovarono che una inspirazione piamente erotica, altri una rivelazione politica dettata dallo spirito di vendetta. Per essi i moltissimi luoghi dogmatici non sono altro a così dire, che la vegetazione d'uno spirito troppo fecondo, quasi la gramigna della scienza contemporanea, che metteva dappertutto le sue radici.
Infine gli storici della filosofia, rivendicando ciò che in quella vasta composizione ad essa appartiene, si accontentarono di stabilire la tesi senza entrare nella controversia dando a credere che non apprezzarono l'importanza della soluzione. E però ad essi, alle intelligenze pensanti, sottratte al contagio dell'errore, appellavasi il vecchio poeta quando nell'interrompere i suoi racconti, tristemente pensava a coloro che non lo avrebbero compreso; e d'una voce nobilmente supplichevole usciva a dire:
O voi, ch'avete gl'intelletti sani, Mirate la dottrina che s'ascende Sotto 'l velame de li versi strani!
Un elegante ed arabesco esempio di sacrificio(*) nei gesti quotidiani di Amina, la giovane sposa del sayyed Ahmad
Il brano è tratto dal romanzo "Tra i due palazzi” - primo romanzo della "Trilogia del Cairo" di Naghib Mafuz, Nobel 1988.
Questo breve racconto dell'ora consacrata al terrazzo della giovane sposa del sayyed Ahmad, può essere considerato un esempio di quella "varietà straordinaria di forme narrative, cui Marco Porta, nella sua relazione sull'ermeneutica realista di René Girard (vedi l'articolo René, il testo e la verità), riconduce le mitologie di ogni luogo del pianeta; narrazioni che attestano, con una sostanziale e ineludibile unanimità, la vicenda che nel caos primordiale la violenza di tutti contro tutti si risolve improvvisamente nella violenza di tutti contro uno.
Amava le galline
L'ora consacrata al terrazzo traboccava per lei d'amore e di gioia, poiché era una riserva inesauribile di cose di cui occuparsi, una fonte di divertimento e di allegria. Non c'è da meravigliarsi, poiché il terrazzo era il mondo nuovo, sconosciuto alla grande casa, prima che ella ne entrasse a far parte. L'aveva infatti ristrutturato a gusto suo, mentre la grande casa aveva mantenuto il medesimo aspetto con cui era stata costruita in epoca remota. In quelle gabbie, fissate ad alcuni muri, dal giorno in cui erano state istallate tubavano le colombe; in quei piccoli pollai di assi di legno, dal giorno della loro costruzione le galline chiocciavano.
La gioia s'impadroniva di lei quando gettava il grano o metteva a terra i recipienti con l'acqua verso i quali le galline si spingevano seguendo il gallo. I becchi si abbattevano allora sul grano, frettolosi e regolari come aghi di macchine da cucire, lasciando sulla terra polverosa minuscole cavità simili a quelle lasciate dalla pioggerella. Come esultava quando, guardandole, ne vedeva qualcuna alzare la testa e osservarla con occhi stretti e puri, curiosa e intrigante, chiocciante, in un sentimento d'affetto reciproco che le riempiva il cuore di tenerezza! Amava le galline e i piccioni come tutte le creature di Allah in generale. Faceva loro dei discorsi affettuosi credendoli capaci di comprendere e di recepire con emozione.
Un diritto accordato da Dio
La sua immaginazione riconosceva il privilegio di sentire e di capire agli animali e talora anche alle cose. Era praticamente convinta che queste creature cantassero la gloria del Signore, partecipi per motivi diversi al mondo dello spirito. Il suo universo, quindi, con la sua terra e il suo cielo, i suoi animali e le sue piante, era un universo vivo e intelligente. Inoltre, ella non vedeva le qualità particolari di questo universo solo nel canto della vita che da esso emanava, ma anche nel senso di adorazione che se ne sprigionava! Non era strano, pertanto, che lasciasse aumentare il numero dei vecchi galli e delle galline decrepite, adducendo questo o quel pretesto: che una era molto prolifica, l'altra buona ovaiola e che un gallo in particolare, era la sua sveglia mattutina!
Forse, se fosse dipeso solo da lei, non avrebbe mai accettato di usare su queste creature il coltello e, se le circostanze la obbligavano a sgozzarne qualcuna, sceglieva la gallina o il piccione con una sorta di malessere. Gli dava da bere, gli diceva "Dio abbia misericordia di te" invocava il nome del Signore implorandone il perdono. Poi sgozzava la bestia, avendo come unica consolazione il fatto di usufruire di un diritto accordato da Dio, il Benefattore, e da Lui esteso a tutto il genere umano.
Commento
La gallina sgozzata assume così le caratteristiche di vittima sacrificale; la violenza di tutti contro tutti del caos famigliare si risolve nella violenza di Amina, (in rappresentanza di tutta la famiglia), contro la gallina.
Emblematica la scelta di una vittima con una sorta di malessere ("se le circostanze la obbligavano a sgozzarne qualcuna, sceglieva la gallina o il piccione con una sorta di malessere") che avvalora la tesi del "sacrificio sostitutivo" di cui Renè Girard scrive nel suo lavoro "La violenza e il sacro".
Il ruolo di Amina è quello della sacerdotessa; il ruolo della gallina è quello "vittima"; il terrazzo è il "tempio".
Compiuto il sacrificio, la pace e l'amore che pervade Amina si trasmette e si effonde a tutta la famiglia. L'ora "consacrata" al terrazzo da Amina, assume tutto il valore di un rito sacrificiale ri-fondativo della piccola comunità famigliare.
Note
(*)
Sacrificio: atto rituale attraverso il quale si dedica un oggetto o un animale o un essere umano a un’entità sovrumana o divina, sottraendolo alla sfera quotidiana, come segno di devozione oppure per ottenere qualche beneficio. (Treccani)
Il sacrificio (Sacer-facere) é l'atto che rende sacro un tempo, uno spazio, un oggetto, che da quel momento é separato dalla realtà comune, la quale diviene perciò "profana"(pro-fanum, davanti o fuori dal tempo). (Marco Porta - L'enigma del sacro)
"Indagato senza i pregiudizi e le eccessive cautele di derivazione relativista, il vasto universo mitologico ha potuto svelare nell’analisi girardiana una verità “storica” di fondamentale importanza, e cioè che l’ordine e l’organizzazione sociale delle primitive comunità umane traggono origine da una violenta crisi risolta per mezzo di un sacrificio". (Marco Porta - La verità nel testo)
(racconto breve tratto da "La Tensione di Eva" di Giuliana Mangione")
In questo racconto breve di Giuliana Mangione, è trattato, con la particolare angolazione del sogno, il tema della "memoria affettiva" con cui Renè Girard spiega e sostiene le dinamiche antropologiche del desiderio mimetico.
Ho fatto un sogno.
Davanti a me una corda sottilissima scende dall’alto, una voce mi sprona a salire. “Dai vieni, ce la puoi fare se vuoi, non è così difficile.” E’ troppo sottile, non reggerà il peso, si spezzerà e mi schianterò a terra! Ma decido di provarci. Una mano dietro l’altra fino a raggiungere la cima, fino a raggiungere la voce.
Sorride la voce quando finalmente con il fiato corto e le mani sanguinanti le dico: “ciao, quanto tempo eh?! Sei sempre uguale”. “Anche tu… non è vero, volevo essere gentile ma devo dire che un po’, solo un pochino ma sei invecchiata!” Mi viene da ridere, certo che sono invecchiata. Quanti anni sono passati? Quindici, sedici quasi, chiaro che io sia invecchiata! Mi siedo, sono stanca. La voce mi guarda, poi inaspettatamente mi carezza il volto. Mi ritraggo istintivamente. Non sono abituata a ricevere né tanto meno a fare smancerie. Anzi, non che io non riceva o non faccia carezze, ma violento me stessa per farle e riceverle. Violento me stessa.
Ed è in questo momento, che dopo anni di pensieri logorroici, di domande senza risposte ho il coraggio di chiederle “perché era così difficile per te farmi una carezza? Intendo prima, prima che io crescessi del tutto, quando bambina imbronciata e battagliera cercavo di attirare l’attenzione senza fare la carina, troppo facile fare carezze alle bambine carine! Io non lo ero, anche da adolescente non ero carina. Ero provocatoria nei confronti del mondo, di quel mondo in cui non mi riconoscevo, in cui non mi riconosco tuttora.” Non è addolorata la voce quando guardandomi negli occhi risponde “ma tu sei proprio sicura che io non ti abbia mai fatto una carezza? Prova a pensare ai momenti passati assieme, dai prova."
E allora vado indietro nel tempo. Mi vedo accanto a lei seduta sul prato. Fumiamo una sigaretta e ci godiamo il sole. Bello il sole che ti scalda la pelle. Bello. Ho gli occhi chiusi. Un rumore strano e fastidioso me li fa riaprire. Sopra di noi una nuvola nera. Sono api che seguono il corteo nuziale della loro regina. Sono tantissime ed io ho il terrore delle api. Ma la voce mi tranquillizza, mi dice di cogliere la meraviglia del momento. Sarà difficile che capiti un’altra volta, è uno spettacolo da vedere e depositare nel cuore. In effetti, rimango affascinata, terrorizzata e affascinata.
Mi rivedo nel tempo ancora con lei. Ho in braccio mio figlio, sto cercando di addormentarlo con una ninna nanna che è solo nostra. La voce mi osserva e inizia a canticchiare “per te che di mattina svegli il tuo bambino e poi, lo alzi e lo accompagni a scuola e al tuo lavoro vai...” Battisti, come mai ti è venuta in mente questa canzone di Battisti?. “Ogni volta che l’ascolto mi fa venire in mente te. A quanto devi essere stanca dell’occuparti di tutto. Vero?” Vero.
Torno al presente, la voce sorride. Sorrido anch’io ora. Carezze. “Stai cercando di dirmi che quello era il tuo modo di carezzarmi?” Rifletto. Sì dopo tutto è anche il mio modo di fare carezze.
La voce, la tua voce che mi scalda il cuore che dice “non vi è un solo modo di abbracciare, baciare, accarezzare le persone a cui vuoi bene. Non vi è solo il gesto. Ci sono anche e soprattutto le carezze nell’anima. La carezza nell’anima è qualcosa di poco tangibile nell’immediato, ma rimane lì e torna a sfiorarti ogni volta che ricordi. Basta volerlo!” Sì, ricordare e volere.
Ora è tardi, devo scendere. Ma prima di andare voglio abbracciare la voce. Mi avvicino, la stringo forte forte, sento il suo profumo, poi le sussurro “grazie mamma di tutto quello che mi hai dato.” E mi porto dietro il suo sorriso, l’ultima carezza del nostro breve incontro.
Girardiana
La memoria affettiva
Le “cristallizzazioni" di immagini letterarie consolidate nel suo bagaglio culturale dell'autore, si riflettono nella narrazione. In alcuni esseri la vita metafisica prospera a tal punto da riapparire nelle circostanze più avverse. Essa peraltro può sfociare in forme alquanto mostruose." (Renè Girard - Menzogna romantica e verità romanzesca)
Già nell'incipit brevissimo, "Ho fatto un sogno.", l'autore si distacca dal soggetto del racconto, e assegna un particolare peso al tempo e all'immagine: due categorie che codificano il concetto di "memoria affettiva". Prepara così il lettore a ricevere immagini e situazioni che possono apparire assurde, surreali.
Davanti a me una corda sottilissima scende dall’alto, una voce mi sprona a salire. “Dai vieni, ce la puoi fare se vuoi, non è così difficile.” E’ troppo sottile, non reggerà il peso, si spezzerà e mi schianterò a terra! Ma decido di provarci. Una mano dietro l’altra fino a raggiungere la cima, fino a raggiungere la voce.
La nozione di trascendenza deviata verso l’umano illumina la poetica dello scrittore: gli permette di dissipare la confusione che sussiste nella reminiscenza del ricordo. Ciò che viene rivissuto, nel contatto sensibile con una reliquia del passato, è la qualità trascendente del desiderio di un tempo. Il ricordo attualizzato, non è più avvelenato, come lo era il desiderio, dal desiderio rivale. “Ogni persona che ci fa soffrire può essere da noi ricondotta a una divinità di cui è solo un riflesso frammentario… divinità (Idea) la cui contemplazione ci dà attualmente gioia, in cambio della sofferenza che avevamo un tempo.
La memoria affettiva ritrova lo slancio verso il sacro e tale slancio è puro godimento poiché non è più infranto dal mediatore-rivale, (divenuto rivale nel desiderio). La piccola madeleine simboleggia una vera e propria comunione; possiede tutte le virtù di un sacramento.
La memoria dissocia gli elementi contraddittori del desiderio. Il sacro emana il suo profumo mentre l’intelligenza, attenta e staccata, può ora riconoscere l’ostacolo nel quale urtava; ci fa comprendere la funzione del mediatore e ci svela il meccanismo infernale del desiderio.
La memoria affettiva reca dunque in sé la condanna del desiderio originale. I critici parlano a riguardo di contraddizione in quanto viene ripudiata l’esperienza che, a conti fatti, procura felicità. È vero. Ma la contraddizione non è nello scrittore, è insita nel desiderio metafisico. Cogliere il desiderio significa in realtà cogliere il mediatore nella sua duplice funzione malefica e sacra. L’estasi del ricordo e la condanna del desiderio di un tempo si implicano vicendevolmente come il rovescio e il diritto. La psicologia del romanziere è un tutt’uno indivisibile con la rivelazione mistica: ne è l’altra faccia. Non costituisce, come oggi si afferma, una seconda impresa letteraria di interesse alquanto mediocre.
La memoria affettiva è il Giudizio universale dell’esistenza dello scrittore. Essa separa il grano dal loglio; ma il loglio deve figurare nell’opera romanzata perché il romanzo è il passato. La memoria affettiva è il focolare di tutta l’opera dello scrittore. È fonte di verità e fonte di sacro; da essa scaturiscono le metafore religiose; essa svela la funzione divina e demoniaca del mediatore. Non bisogna limitarne gli effetti ai ricordi più antichi e felici. Mai il vivo ricordo è più necessario che nei periodi di angoscia, perché dissipa la nebbia dell’odio. La memoria affettiva è in gioco in tutta la successione temporale. Chiarisce altrettanto bene sia l’inferno che il paradiso.
La memoria è la salvezza dello scrittore e dell’uomo. Noi lettori indietreggiamo dinanzi al messaggio trasparente del romanzo salvifico dello scrittore. Il nostro romanticismo tollera la salvezza soltanto se immaginaria; tollera la verità soltanto se disperante. La memoria affettiva è estasi, ma è anche conoscenza. Se trasfigurasse l’oggetto, come spesso viene ripetuto, il romanzo ci descriverebbe non tanto l’illusione vissuta al momento del desiderio, ma una nuova illusione, frutto di questa trasfigurazione. Non vi sarebbe realismo del desiderio, né del desiderare.
"…spingi un portone anacronistico, scosti una tenda, e pare di entrare in un altra realtà. Non senti più i rumori esterni, non c'é più la luce accecante, non più la polvere e lo sporco. Solo qualche raggio che filtra dal soffitto altissimo". (cit.)
La maschera si colloca all’equivoco confine tra l’umano e il divino, tra l’ordine differenziato che sta disgregandosi e il suo aldilà indifferenziato che è anche la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un ordine rinnovato. Non c’è da interrogarsi sulla natura della maschera; è nella sua natura di non averne alcuna, poiché le ha tutte. (René Girard)
Poco più di un anno è passato da quel giorno che ho accarezzato per l'ultima volta il volto di mia moglie; ora non ho più bisogno di accarezzare la carne perché lo spirito è perennemente presente in me e in tutto ciò che mi circonda e che vivo.
Quella notte, le accarezzavo la fronte con insistenza ossessiva, quasi a voler risucchiare in me tutta la sua persona; lei, come al solito, si lasciava accarezzare e si abbandonava alla mia ossessione tattile.
Volevo sentirla ancora, con il palmo della mano che lentamente le scivolava sulla sua fronte, percorrendola tutta, fino all'attaccatura dei capelli. Nell'accarezzarla, mi sentivo custodito e protetto in quel contatto fugace e, forte di questo, con la mente cercavo di carpire i suoi pensieri. Volevo mi raccontasse cosa vedeva e sentiva nell'intimità di quel momento; volevo sentire e conoscere con lei, il profumo dell'aldilà.
Ascoltavo il suo respiro. Tutta la nostra vita passava attraverso quelle ripetute carezze; il loro ritmo era accordato al soffio del respiro e scandiva inesorabile gli ultimi battiti del suo cuore pulsante; lei conosceva bene quelle carezze: le conosceva fin dalla fondazione del mondo; erano movimenti nell'anima, tramandati di generazione in generazione, fino a quell'ultimo letto che ospitava il suo corpo: le chiamava affettuosamente "le carezze nell'anima".
Ascoltavo il suo respiro: e sentivo con lei il profumo dell'aldilà. Mi cullavo con abbandono nei rivoli di un mondo sconosciuto e misterioso che tante volte aveva offerto rifugio e ai nostri pensieri peregrini; di quel mondo misterioso, ne gustavo intimamente il sapore divino trasmesso, incontaminato e incorrotto, in quelle silenziose carezze.
Gustavo il sapore dell'aldilà e osservavo il suo volto che sorgeva nitido e corposo, dalla massa informe e molle di un asettico e anonimo cuscino. Ho disegnato nella mia mente l'immagine di quel volto: era come disegnare la sua maschera ancestrale. Pian piano ho sentito montare in me, un prepotente bisogno di fissare quell’immagine su di un qualsiasi supporto, per conservarne traccia; ero in preda a un nebuloso timore di dimenticare.
Mi sono allontanato da lei per cercare qualcosa su cui abbozzare i contorni di quell’immagine, ormai ingombrante, che mi possedeva. Gettando lo sguardo intorno, ho fermato l’attenzione su un foglio di carta da imballaggio, ammucchiato e abbandonato sul tavolo d'appoggio della stanza-ripostiglio in cui ci avevano confinati; ne ho strappato un lembo; l’ho stirato e lisciato alla meno peggio per predisporlo a ricevere il mio disegno e, presa una matita tra i miei gingilli personali, mi sono riaccostato a lei per trovare il punto di osservazione corrispondente all'immagine che avevo in mente; i miei movimenti erano guardinghi e nascosti: non volevo importunare i parenti intorno a me: non volevo disturbare la loro situazione affettiva con lei, i loro pensieri, le memorie che galleggiavano nella loro mente. Il silenzio regnava in quella stanza ma, sicuramente, ciascuno aveva i suoi "rumori" interiori.
Ho tracciato velocemente e con molta approssimazione le poche righe essenziali e distintive di quella poderosa immagine, confidando nella mia memoria per poterla completare a tempo debito, in luogo deputato; senza interferenze estranee che avrebbero sminuito la potenza del ricordo ancora vivo e tranciante. Tracciata sul foglio, la bozza di quel volto dormiente, ho piegato accuratamente e riposto in tasca quel prezioso pezzo di carta, su cui era rimasta impressa la maschera ancestrale, a futura memoria di qualcuno.
La maschera ancestrale (Rosario Frasca)
Mi sono riaccostato a lei e ho alzato lo sguardo verso il monitor che, come un oracolo, restituiva inesorabile e impietoso, il lento processo di appiattimento delle residue funzioni vitali; ancora riuscivo ad ascoltare il soffio rantoloso del suo respiro. Per distogliermi da quell'incantesimo, ho scambiato qualche parola con qualcuno a me vicino, sulla sorprendente serenità che mi pervadeva e che acuiva la potenza titanica di quel transito di cui eravamo testimoni. Lei, mia moglie, la donna della mia vita, con il suo residuo soffio e con la sua maschera ancestrale, stava transitando da questo mondo all'altro mondo; dall'aldiqua all’aldilà; dall’ente apparente all’ente immateriale, spirituale e misterioso, in un aldilà sconosciuto.
Io ero con lei, disperso in lei; immersi in una placenta che ci univa; intorno a noi sentivamo un rumore osmotico, avvolgente, come il sussurro di una brezza leggera. Era la genesi della resurrezione, l'inizio di una nuova vita, uno dei miti della creazione
In tempo di pandemia da coronavirus, sono venuto a conoscenza che era stato fatto il tampone a una coppia di nostri amici. La loro figlia più grandicella, probabilmente stimolata dalla straordinarietà dall'evento, ha voluto raccontare il suo punto di vista con una poesia, per dare testimonianza all'evento.
Ho rimurginato su questa bellissima voglia di poetare un dramma sociale, da parte di una bambina; e ho deciso di impegnarmi a leggere la poesia e trovare spunti di riflessione "socialmente stupidi"; potevo farlo, il tempo non mi sarebbe mancato.
Ho telefonato agli amici "tamponati", un po' per confortarli, un po' per avere notizie dirette e, soprattutto, per chiedere della poetessa bambina. Parlando con il papà al telefono, mi sono rasserenato sullo stato di salute della famiglia e gli ho chiesto se potevano farmi avere la poesia che aveva scritto la sua poetica bambina. Con i potenti mezzi di comunicazione, che stiamo tutti rivalutando in questi tempi di forzato isolamento, due minuti dopo ho ricevuto l'innocente e originale testimonianza poetica di una bambina di nove anni ai tempi del coronavirus.
Mercoledì 25 marzo
Sono preoccupata
Oggi mamma fa il tampone,
se è positiva che figurone!
Domani sapremo i risultati
Siamo tutti preoccupati.
Intanto cerco la speranza
di godermi questa vacanza.
Mi mancano molto gli insegnanti
E di giorni tristi ce ne sono tanti.
La situazione.
Mamma deve fare il tampone; certo se vien fuori che è positiva, sarebbe un dramma, però, con gli altri faremo un figurone: abbiamo fatto il tampone! Ma i risultati non ce li danno subito, li sapremo domani; questa attesa lascia sospesi, ci mette in ansia: l'ansia dell'attesa; l'ansia di non conoscere, di non sapere. Ecco, siamo preoccupati; ma a me non importa: stò con mamma e con papà e con loro sono al sicuro, non ho nulla da temere.
La metamorfosi
Nell'attesa, per non pensare alla mancanza dei risultati, provo a cercare un po' di speranza; per esempio, immagino di godermi una bella vacanza.
La catarsi
Già la vacanza; ma in vacanza non ci sono gli insegnanti! In questa situazione, a casa da sola, mi mancano molto gli insegnanti, i loro rimproveri, le lodi, le coccole, le interrogazioni, le punizioni... uffa, che faccio?... sono un po' triste; e di giorni tristi ce ne sono ancora tanti...
Sono preoccupata.
Commento
Ha nove anni, é leggera, educata, spiritosa, vivace, intelligente. Lei guarda il mondo intorno a sé, osserva e percepisce la preoccupazione della mamma, la precarietà della situazione, il sospetto di un contagio: che non sa cos'é ma mette in agitazione i suoi genitori; percepisce la loro paura, la metabolizza e muta il suo umore secondo quello che la situazione le suggerisce: cerca, immagina, attende, ricorda, sente, immagina ancora e si preoccupa.
Il poetare, é la sua via di fuga da una situazione precaria, verso una stabilità affettiva, verso una carezza, uno sguardo; verso una coccola dei suoi insegnanti di cui sente tanto la mancanza.
È ancora piccola per preoccuparsi e lo grida nel titolo della sua poesia.
...qualche giorno dopo aver scritto la poesia, la poetessa invia un messaggio di auguri alla sua maestra