Sento e dimentico Vedo e ricordo Scrivo e capisco (proverbio cinese)
"Raccontando storie non parto da un’idea, tantomeno da un’ideologia; parto da un sentimento, da ricordi, suggestioni, personaggi che ho incontrato, nostalgie o presentimenti, cercando di vedere dove quel racconto vuole andare e, soprattutto, come vuole essere raccontato.” (Fellini)
Il ritrovamento
Era un libro dimenticato, perduto in una delle infinite e indefinite biblioteche casarecce a "mucchietto"; era uno tra i numerosi libri non letti, che si accatastano qua e là per casa, in attesa che qualcuno li resusciti; magari leggendoli, anche solo qualche pagina, o una frase, una parola.
Era lì, che faceva capolino, con il "Circo" di Joan Mirò che occhieggiava nella bianca copertina traslucida dell'Einaudi Tascabili; era lì, che si guardava intorno, pronto a cogliere uno sguardo peregrino e distratto. Era lì, pronto a farsi leggere da chiunque.
Finalmente, dopo anni di attesa, qualcuno ha avuto bisogno di lui; e il libro dimenticato si è sentito importante; qualcuno" lo ha preso tra le mani, lo ha aperto e, con curiosità, lo ha sfogliato; poi ha letto e riletto, con bramosia: qualche riga, qualche frase, qualche parola trovate qua e là alla rinfusa con salti di tempo e di spazio; infine, lo ha richiuso e gelosamente custodito e coccolato.
Finalmente qualcuno ha adottato quel libro dimenticato: "Zazie nel metrò" di Queneau, era il romanzo su cui si era aperta la discussione del gruppo di lettura: la lettura del romanzo gli avrebbe permesso di sbirciare la discussione e, se del caso, intervenire direttamente a dialogare e battibeccare con gli altri partecipanti.
Dopo essermi registrato ho eseguito l'accesso alla discussione, ho sbirciato gli interventi con curiosità interessata: sentivo il bisogno di valutare il grado di colloquialità e di preparazione dei partecipanti per poter entrare in gioco seguendo i principi di dialogo adottati dal gruppo. Non c'è voluto molto: dopo qualche intervento ho inserito il mio commento adeguandomi al tono generale della discussione.
Rileggendo gli interventi, ho notato che c'è stato un intervento-prefazione di Eloise che invitava a godere di una meravigliosa differenza.
La meravigliosa differenza
"Ma guardate la foto di Queneau messa accanto a quella dell'interprete di Zazie, nel film che ne è stato tratto. Che meravigliosa differenza!" (Eloise)
Eloise, con la sua apertura fuori contesto, (che ormai siamo soliti scrivere "off topic"), prima di ricevere tutte le risposte sulle impressioni a caldo; e prima ancora di dare lei stessa le sue impressioni, invita a guardare le immagini accostate di Queneau e della sua creatura letteraria in versione cinematografica: Zazie; esclama poi, in chiusura: Che meravigliosa differenza!
Questo intervento che, all'epoca della discussione, mi era sfuggito, per me è stato illuminante: ho percepito una spontaneità che ormai avevo dimenticato e relegato tra gli atteggiamenti infantili; una spontaneità che mi ha portato a meditare su quelle parole, pesarle e infine scoprire che esse esprimevano la gioia di chi, appena trovato un tesoro, sente un incontenibile desiderio di gridarlo al mondo per dare sfogo a quella felicità interiore che freme per farsi conoscere. E allora mi son detto sorridendo: viva la differenza! E sulla differenza c'è molto da dire.
La differenza tra le rovine di un mondo che, uscito da una guerra disastrosa, prova a ricostruirsi e rifondarsi, e il progetto di un nuovo mondo, una nuova società che, partendo dalle macerie di se stessa, nel parossismo dell'innovazione, si dirige caoticamente verso il suo futuro, incerto e confuso nell'alterità rassicurante dell'immaginazione; un sogno che si risolve in un delirio evanescente, sfuggente, inafferrabile e frustrante.
La differenza tra il mito (fondativo) e la storia (distruttrice), tra tradizione e innovazione; tra bambini e adulti, piccoli e grandi; tra uomo e donna, maschio e femmina; tra costrizione e liberazione, mortalità e immortalità, realtà e sogno, racconto e finzione, menzogna e verità.
Su queste differenze, menzogna e verità giocano a nascondersi, nelle vie e nei luoghi di una città immobile, statica, monumentale ed estranea; una città avvolta nelle nebbie di un sogno senza memoria; un sogno che si rivela sempre più il "delirio scritto a macchina da un romanziere idiota".
Anche nel procedere della nostra discussione, menzogna e verità spesso si sono nascoste e/o rincorse nei singoli interventi, dietro paraventi e formalismi letterari (ma non solo), resi con cuore e passione, da tutti i partecipanti: persone "sconosciute" (o conosciute solo on line) che mi hanno accolto e accompagnato nella mia prima e temeraria esternazione letteraria: un vero e proprio rito d'iniziazione che mi ha fatto scoprire e rivelato un "me stesso" sconosciuto.
La differenza è l'anima della cultura: il motore propulsivo di ogni relazione umana. Nel romanzo, su questa differenza, menzogna e verità si affrontano e si rincorrono nelle situazioni romanzate e nei linguaggi disarticolati e contratti di personaggi-marionette; scambi linguistici che s'inerpicano divertiti, in dialoghi tanto improbabili e dissacranti, quanto logici, teo-logici e accademici: un confronto, una lotta "corpo a corpo tra la "bellezza delle rovine" (Barthes) e la "meraviglia delle differenze" (Eloise).
Il metrò tanto desiderato dalla piccola, impertinente e spudorata Zazie, resta ad osservare, dalla sua misteriosa posizione di assenza non estranea; dal suo logos di un nulla che giustifica tutto; un nulla che si percepisce solo nei sogni, tra le pieghe nascoste di una sfuggente e incompresa realtà: sempre, comunque e ovunque presente e condizionante.
L'iniziazione
I riti di iniziazione segnano il passaggio dell'individuo alla maturità; essi permettono di legare l'individuo al gruppo, ma anche di strutturare la vita a tappe precise, che permettono la percezione dell'individuo nel suo rapporto con il tempo e con la morte.
Il rito ha dunque un ruolo relazionale importante tra l'individuo e il gruppo e la coesione del gruppo nel suo insieme. (wikipedia)
La discussione è già iniziata. Dopo la presentazione del romanzo, da parte di Eloise, c'è l'intervento comparativo di Tiziano che mette in tavola Tom Sawyer; accosta Tom a Zazie; entrambi i personaggi, infatti, possono essere accomunati al mito letterario del puer aeternus. Eppur son differenti: uno è maschio l'altro è femmina. Che meravigliosa differenza!
La comparazione, il richiamo al mito e la citazione in latino mi hanno generato un certo timore reverenziale; forse perché fin da piccolo non ho mai digerito la sindrome di Peter Pan: non sopportavo chi voleva rimanere piccolo perché io, invece, volevo apparire sempre più grande di quel che ero in realtà: mi percepivo come una realtà aumentata, gonfiata da un ego smisurato.
Incassato e interiorizzato il disagio, ho continuato a sbirciare la discussione, leggendo gli interventi che seguivano; volevo valutare eventuali reazioni all'intervento comparativo e mitico di Tiziano; e così, ho conosciuto nuove voci portate dai nomi di Ombra e Rosella; oltre alla già conosciuta, Eloise.
La prima a rispondere agli argomenti lanciati da Tiziano, è Eloise; in realtà la sua risposta è la seconda parte dell'intervento prefazione sulla "meravigliosa differenza" che ho già menzionato.
Eloise, dunque, si accompagna a Tiziano nel considerare Zazie alla stregua di Tom Sawyer e di altri puer aeternus, letterari; non senza però, aggiungere la sua, sulla nostra Zazie e "del suo abbassare al livello di commedia bambinesca il ruolo degli adulti, anche laddove questi si prendono sul serio.”; in chiusura, raddoppia con una intrigante domanda comparativa tra i romanzieri "creatori" di Zazie e Tom Sawyer:
"Chissà come avrebbe scritto il romanzo Mark Twain se si fosse permesso tutte le licenze linguistiche usate da Queneau?"
Quindi, per voce di Eloise, un nuovo argomento fa capolino nella discussione: le licenze linguistiche di Queneau.
Dopo aver letto l’intervento di Eloise rimango in standby sull’argomento del mito letterario, "latinato" in puer aeternus; un mito che, nonostante l’accoglienza favorevole di Eloise, continua a mettermi a disagio. D'altra parte, l’argomento delle licenze linguistiche non mi “intriga” più di tanto e rimando il mio intervento, in attesa di altri stimoli.
Ombra, dopo aver appoggiato Tiziano e Eloise sull’accostamento di Zazie a Tom Sawyer, riprende l’argomento delle licenze linguistiche di Queneau:
"Non riuscivo a capire il perché l'utilizzo di un linguaggio simile, caratterizzato dall'uso di parole volgari o dall'accostamento di frasi altisonanti a personaggi gretti ed ignoranti, potesse essere considerato massima espressione di virtuosismo letterario.”
Poi, si risponde da sola sul particolare significato che, per lei, giustifica quelle licenze linguistiche:
"Ho capito, infatti, che con la dissacrazione del linguaggio l'autore ci vuol fare entrare nel mondo di Zazie."
Con un salto mortale carpiato, degno di una campionessa di tuffi, Ombra riavvita al soggetto Zazie l’argomento della differenza, lanciato da Eloise (a cui in realtà, nella cronologia della discussione, aveva già risposto in un precedente intervento isolato). Ecco come e dove, Ombra, evidenzia la meravigliosa differenza:
"Un mondo in cui solo i bambini sembrano schietti (pur utilizzando un pessimo linguaggio colorito da parolacce) e non falsi e poco chiari come gli adulti (con il loro linguaggio infiocchettato e ampolloso e quindi incomprensibile per i più piccoli). Esempio di questo sono Zazie e lo zio Gabriel."
Zazie e Gabriel, piccoli e grandi, bambini e adulti, sono differenti; i loro linguaggi sono differenti: veri e autentici gli uni, falsi e ipocriti gli altri. È la meravigliosa differenza evidenziata da Eloise. È quella vitale differenza che fa girare il mondo; quella differenza che garantisce la gerarchia, l’ordine e il funzionamento sociale; che caratterizza la cultura e la giustizia sociale. È la meravigliosa differenza in cui si riflette perfettamente tutta l’umanità.
Marta-Ombra chiude il suo intervento illuminando la differenza tra la puer aeternus Zazie e il maturo e compassato zio Gabriel: il mondo surreale rappresentato da Zazie e le macerie borghesi rappresentate da Gabriel (e compagnia). Marta ha colto il fil rouge che lega tutto il romanzo: i due personaggi Zazie e Gabriel esprimono le due anime del romanziere, l'artista, il letterato Queneau: girardianamente: l'uomo e il suo doppio mostruoso.
Dopo Ombra si fa viva Rosella un’altra donna. Rosella, d'accordo con Ombra, si sofferma sull'imbarazzo iniziale provato nel leggere le grezze licenze linguistiche e i contenuti colti in bocca a personaggi che appaiono, nel loro agire, tutt'altro che colti. Un imbarazzo che pian piano si trasforma in sorriso per finire in risata piena e liberatoria.
Ho considerato che Rosella si è lasciata trasformare dalla lettura: ha superato il muro del pregiudizio "letterario", per entrare in piena empatia con i personaggi, le situazioni create dall'autore. Il suo intervento è il racconto dei suoi stati d'animo, del suo incontro con i personaggi, le loro battute e le situazioni in cui si muovono; mi son fatto l'idea di una lettrice attiva e interattiva: che interagisce cioè, con la letteratura e si lascia "educare" e trasformare dalle situazioni immaginate e descritte dall'autore; situazioni non vere ma verosimili e realiste: l'immaginario letterario diventa per lei, "mediatore" e regolatore della sua esistenza, la linfa necessaria della sua vita quotidiana. La lettura di Rosella è lettura pedagogica.
A questo punto c'è stato l'intervento (off topic) di una nuova lettrice, Lauretta, che, perduto il suo gruppo di lettura nel mondo reale, stava cercando di recuperare online questo suo spazio vitale. Ricevuto il nostro benvenuto, ci ha ringraziato, non senza mostrare una piccola incertezza sulla sua reale possibilità di poter entrare in discussione.
Chiusa questa parentesi, ormai avevo letto abbastanza interventi per organizzare e inserire le mie "impressioni a caldo"; non avevo più scuse dovevo intervenire. L'ho fatto driblando gli argomenti già evidenziati e inserendone uno nuovo che, a ben guardare, li comprendeva tutti: la verità. Una mossa che mi smarcava dal confronto diretto sul mito che mi metteva a disagio e sul linguaggio che non mi intrigava più di tanto:
Irriverente, esilarante, poetico, malinconico, realista; nonostante Queneau sentenziasse in una intervista:
« Parigi è solo un sogno, Gabriel è solo un'ombra, Zazie il sogno di un’ombra (o di un incubo) e tutta questa storia il sogno di un sogno, l'ombra di un’ombra, poco più di un delirio scritto a macchina da un romanziere idiota» (Raymond Queneau a proposito di Zazie nel metro).
Nella mia rilettura "a caldo" di questo romanzetto di Queneau ho trovato più "verità" che in tanti altri romanzi ipocritamente e pesantemente "canonici"; al punto da farmi ritenere emblematico il suo incipit:
"Doukipudonktan, se demanda Gabriel excédé. Pas possible, ils se nettoient jamais."
La citazione in francese che fa chic; l'argomento della verità che fa shok, "vestono" il mio primo intervento nella discussione.
Il rito di iniziazione è stato consumato. Sono diventato un membro del gruppo di lettura del forum di "Letteratour". Il dado è tratto: Zazie nel metrò di Raymond Queneau vola sulla tastiera del mio "mac".
Il secondo intervento, riferito alla discussione del Gruppo di lettura di Letteratour, "Il nazional socialismo in Germania", riguarda il primo capitolo del romanzo "Ognuno muore solo" di Hans Fallada; questo primo capitolo è la presentazione dei personaggi. Il compito di presentarli è affidato a una postina; la teutonica Eva deve consegnare la lettera in cui il responsabile nazista annuncia ai coniugi Quangel, la morte del figlio sul fronte francese. Eva Kluge ed Anna Quangel sono le due donne a cui Fallada affida il compito di introdurre il lettore in quelle "atmosfere fosche", da lui anticipate nella brevissima prefazione.
Annunciazione
annunciazione!
"La posta posta porta una cattiva notizia"
Incipit
"La postina Eva Kluge sale lentamente le scale del numero 55 della Jablonskistrasse. Sale lentamente non soltanto perché il suo giro quotidiano l'ha stancata, ma perché ha nella sua borsa una di quelle lettere che detesta recapitare e adesso, subito, due piani più su, la deve consegnare da Quangel."
Magistrale incipit, che richiama il tema dell’annunciazione e mette da subito il lettore in uno stato d'attesa.
Il titolo del capitolo: "la posta porta una cattiva notizia”, traccia l’argomento dell’annuncio; la postina Eva Kluge richiama l’angelo che porta la buona novella ad una vergine di nome Maria.
Quel "salire lentamente le scale”, sia per la stanchezza sia perché Eva Kluge detesta recapitare "una di quelle lettere” ai coniugi Quangel, richiama la salita del calvario con la croce sulle spalle. L’annuncio della morte diventa una metafora dell’annuncio della vita.
Il caos
"Prima ancora c'è la cartolina di convocazione per i Persicke, al piano di sotto. Persicke è un funzionario, o gerarca, o qualcosa di simile, nel partito - Eva Kluge confonde ancora sempre tutte queste cariche."
Alla prima frase segue una descrizione dei personaggi della famiglia Persicke; una breve descrizione che termina con una frase emblematica che richiama il caos sociale: "Eva Kluge confonde sempre tutte queste cariche”. Questo caos dà un senso all’attacco della frase “Prima ancora c’è”…. come dire biblicamente: "All’inizio era il caos” parafrasando “In principio Dio creò il cielo e la terra”, (prima era il caos). Prima dei Quangel ci sono i Persicke diventa: "Prima della vita c’è il caos”.
Eva Kluge: un personaggio in cerca d'autore.
"Lei non s'interessa di politica, è semplicemente una donna, e come donna trova che non si mettono al mondo figli per farseli ammazzare. E anche una famiglia, senza uomo, non vale nulla, e per il momento lei stessa non ha più nulla, nè figli, né uomo, né famiglia. Invece deve star zitta, essere molto prudente e recapitare schifose lettere della posta militare, scritte a macchina e non a mano, e che, come mittente, portano il nome dell'aiutante maggiore del reggimento."
Fallada apre il romanzo focalizzando l’attenzione su una donna: Eva Kluge. Venti righe per presentare alcuni personaggi attraverso i pensieri della postina Eva Kluge:
La postina Eva Kluge che sale lentamente le scale. La postina Eva Kluge detesta recapitare una di quelle lettere che ha nella borsa (ai Quangel). Eva Kluge confonde (ancora sempre) le cariche dei Persike nel partito: funzionario, gerarca, qualcosa di simile; Eva Kluge, dai Persike, sa che bisogna salutare con Heil Hitler e fare attenzione a quello che si dice. Eva Kluge sa che è raro incontrare qualcuno a cui possa dire quello che veramente pensa. Eva Kluge non s’interessa di politica, è semplicemente una donna. Eva Kluge come donna trova che non si mettono al mondo figli per farseli poi ammazzare. Eva Kluge come donna trova che una famiglia, senza un uomo, non vale nulla; Eva Kluge come donna trova che, per il momento lei stessa non ha più nulla; né figli, né uomo, né famiglia. Eva Kluge deve star zitta, essere molto prudente e recapitare schifose lettere della posta militare, scritte a macchina e non a mano, e che, come mittente, portano il nome dell’aiutante maggiore del reggimento.
Nella sua “apertura" Fallada mette la donna al centro del mondo; prima, attraverso il ruolo di “postina”, presenta i coniugi Quangel; “poi" nomina i Persike che, abitando al piano sotto, verrebbero “prima". Con questo piccolo stratagemma sintattico e/o lessicale, l'autore colloca i Quangel al di sopra dei Persike. Subito dopo esclude la politica dagli interessi di Eva Kluge e ne afferma invece il suo essere donna con tre caratteri essenziali: maternità, coniugalità e famiglia: la donna senza figli, senza uomo né famiglia, non ha più nulla.
L’esclusione della politica dagli interessi della donna Eva Kluge, è il segno che il romanzo non si interessa di politica ma dell’umanità ovvero dei sentimenti e dell’agire umano. Il romanzo "Ognuno muore solo” non tratta di politica ma di realtà relazionali.
"Tutti gli eroi del romanzo attendono dal possesso una metamorfosi radicale del loro essere." (René Girard)
Analisi girardiana
La donna senza figli, né uomo, né famiglia non ha più nulla. L’uso del verbo avere è importante perché lascia il margine esistenziale dell’essere. In altri termini maternità, coniugalità e famiglia non riguardano l’essere ma l’avere; con tutte le conseguenze che questa distinzione comporta: l'essere donna si concretizza nel desiderio di possesso.
Dunque Eva Kluge vuole avere un uomo, vuole avere un figlio; vuole avere una famiglia per essere veramente la donna del suo ideale immaginario. Eva Kluge vuole cambiare il suo misero stato; vuole una metamorfosi radicale del suo essere e, per arrivare a questo, desidera un vero uomo, un vero figlio, una vera famiglia. Ma il suo desiderio di possesso deve passare per una realtà che non corrisponde nella concretezza all'ideale immaginario; Eva Kluge sprofonda così ne suo misero ruolo di postina che annuncia la morte del figlio a un'altra donna a un'altra famiglia: i coniugi Quangel.
La presentazione di Eva Kluge, dunque, parte dal ruolo sociale (postina), per arrivare, attraverso i suoi pensieri, alla sua umanità e ripiombare mesta, nella realtà, nel ruolo di postina per sopravvivere nella storia; Eva Kluge è una donna che non è più nulla e che resta in possesso solo degli attributi sociali e nasconde nel sottosuolo il suo essere umanamente donna. Eva Kuge, unpersonaggio in cerca d'autore.
I Persike
Un bel "Heil Hitler" introduce il personaggio del vecchio ubriacone Persike. Altro stratagemma letterario per connotare o apparentare Hitler a un "vecchio ubriacone". Si passa subito a una tiritera del vecchio Persike rivolta alla postina per il mancato “trionfale annuncio” della capitolazione della Francia; un “trionfalismo di “regime” atto a persuadere gli ultimi disfattisti del regime nazista osannato daI Persike.
“Oggi si fa festa, non si lavora! oggi ci si sbronza un po’ e questo pomeriggio andiamo dalla vecchia ebrea del quarto piano, e la carogna ci darà caffè e torta! Lo dovrà fare, ve lo dico io, è ora di finirla con la compassione."
La "vecchia ebrea" è il personaggio "fuori scena” verso cui i Persike nutrono mire di "appropriazione” della merce accatastata nell’appartamento al quarto piano.
La lettera
La postina Eva Kluge sale dai Quangel con la lettera in mano; ha paura a consegnarla; è pronta a scappare subito appena consegnata la lettera; ma è fortunata: invece della signora, gentile e disponibile a qualche scambio di battute tra disperati, si presenta alla porta il marito:
"il marito dal viso tagliente di uccello, con la bocca stretta e gli occhi freddi; senza una parola prende la lettera e le chiude la porta sul naso, come se fosse una ladra da cui ci si deve guardare."
Ed ecco presentati i coniugi Quangel; nella più completa indifferenza, nella fredda insignificanza di due persone qualunque; con pochi tratti vengono presentati gli anomali eroi del romanzo.
Eva Kluge ritorna sui suoi passi, ripercorre le scale in discesa passa davanti alla porta dei Persike; fa qualche riflessione sulla quella sghemba famiglia, sulla notizia della vittoria sulla Francia, sui suoi figli partiti per la guerra, sulla nullità del suo inaffidabile marito cacciato di casa, sull’uomo dal viso d’uccello al quale ha consegnato la lettera, e pensa alla vecchia ebrea Rosenthal del quarto piano a cui la Gestapo ha portato via il marito da due settimane.
“Non hanno certamente mai fatto male a nessuno, quei due vecchi, hanno sempre venduto a credito anche a Eva Kluge, quando non aveva denaro per la biancheria dei bambini, e da Rosenthal la merce non era peggiore o più cara che negli altri negozi."
"No, non entrerà mai nella testa della signora Eva Kluge che un uomo come il vecchio Rosenthal sia peggiore dei Persike soltanto perché è ebreo. E ora la vecchia signora se ne sta sola come un cane, lassù nell’appartamento, e non si fida più di scendere in strada. Soltanto quando è buio va a far la spesa, con la stella ebraica puntata sul petto; probabilmente fa la fame. “No, - pensa Eva Kluge - anche se avessimo vinto dieci volte la Francia, da noi le cose non sono giuste”.
Eva Kluge esce di scena e lascia il posto ai due “eroi” del terzo piano.
I Quangel
"Anna ha aperto la lettera, per un momento il suo viso si illumina davvero, poi si spegne quando vede la scrittura a macchina. Legge con apprensione, sempre più lentamente, quasi avesse paura di ogni parola ancora da venire. L’uomo si è chinato in avanti e si è tolto le mani dalle tasche, si morde il labbro, presagisce una disgrazia. Si fa silenzio nella stanza. Il respiro della donna diventa affannoso. A un tratto grida, uno strano grido sommesso, che il marito non ha mai sentito. La testa le cade in avanti, batte prima contro i rocchetti di filo sulla macchina, poi si abbassa tra le pieghe della stoffa, coprendo la lettera fatale."
In questa successione di azioni c’è tutta la forza descrittiva fortemente realista di Fallada. La scena della lettura di quel fatale foglio dattiloscritto, si svolge in una sequenza inesorabile di azioni per culminare in uno strano grido sommesso e la caduta della testa in avanti fino a sbattere sui rocchetti di filo sulla macchina; per poi abbassarsi e finire la caduta sulle pieghe della stoffa, coprendo la lettera fatale. Una descrizione da sceneggiatura, quasi fotogramma per fotogramma; il lettore vive con Anna Quangel, quegli attimi strazianti della lettura che annuncia la morte del figlio, come fosse la sua, più che fosse la sua. Immagino che per una madre la morte del figlio, giovane e innocente, sia il più grande dolore dell’universo; un dolore che lacera il velo di una realtà che le diventa estranea e le fa scoprire l’abisso più oscuro e profondo dell'universo.
"In due passi Quangel è dietro di lei. … Sente che sua moglie trema in tutto il corpo. - Anna,- dice, - Anna per favore! Aspetta un momento - poi osa: - È capitato qualcosa a Otto? Ferito? Grave? Lei continua a tremare, ma nessun suono esce dalle sue labbra. Non accenna ad alzare la testa e a guardarlo in viso. Quangel guarda i capelli di lei, sono diventati così radi dal tempo che si sono sposati. Sono vecchi, ormai; se davvero è accaduto qualcosa a Otto, Anna non avrà mai più qualcuno da amare; soltanto lui, ed egli sente sempre che c’è molto poco da amare in lui. Non riesce mai, in nessun modo, a dirle quanto le sia affezionato. Persino ora non sa accarezzarla, essere un po’ più tenero con lei, consolarla. Posa soltanto la mano pesante sui suoi capelli radi e le solleva dolcemente la testa, appoggiandosela contro il viso, e dice a mezza voce: - Non vuoi dirmi, Anna, cosa ci scrivono?"
Quangel non pensa al figlio ma alla moglie, soffre per lei. Pensa al dolore della sua donna, all’inesorabile diradamento dei suoi capelli, alla quieta deriva della sua femminilità; è premuroso, impacciato; vorrebbe darle un po’ di tenerezza, di dolcezza; vorrebbe consolarla; lui è il suo uomo, suo marito; ma è consapevole che "c’è ben poco da amare in lui”.
Eppure nei suoi gesti impacciati si scorge l’estrema delicatezza che usa verso quella madre affranta dal dolore, quella donna ferita nelle viscere. Le prende la testa, ferita e sanguinante, appoggiandosela contro il suo viso; come a voler condividere “fisicamente" il dolore; fino a spezzare quell’intenso momento di condivisione, sussurrando a mezza voce, come fosse un effusione d’amore:
"Non vuoi dirmi, Anna, cosa ci scrivono? Ma benché gli occhi di lei siano ora vicinissimi ai suoi, Anna non lo guarda, li tiene semichiusi. Il suo viso è di un pallore giallognolo, i suoi freschi colori sono svaniti. Anche la carne sulle ossa sembra consumata, come se lo guardasse una testa di morto. Soltanto le guance e la bocca tremano, e tutto il corpo sussulta, scosso da un misterioso tremore interno."
Anna Quangel non risponde, non lo guarda; lei è ormai nell’abisso, tutto le è estraneo anche il marito. Il suo corpo acquista sembianze cadaveriche; il marito, che le tiene testa, ha l’impressione di tenere la testa di un cadavere: "come se lo guardasse una testa di morto”; soltanto il tremore delle guance e i sussulti del corpo indicano un residuo di vita “interno", misterioso e oscuro: é la ribellione del corpo all’angoscia della morte annunciata.
Quangel ha paura; una paura “ridicola di fronte al profondo dolore della moglie”: Quangel ha "paura che lei possa cominciare a gridare ancora più forte e più selvaggiamente di prima. Egli ha sempre amato il silenzio, nessuno in casa doveva accorgersi dei Quangel. E meno che mai dar sfogo ai propri sentimenti. Ma anche in mezzo a questa paura l’uomo non riesce a dire più di quello che ha detto prima: - Ma cosa hanno scritto? Dillo, Anna! … Cosa è successo al nostro piccolo Otto?"
Il vezzeggiativo del marito, riferito al figlio, ha il potere di richiamare in vita la donna che dopo aver deglutito un paio di volte apre gli occhi e mormora: - Otto, che cosa gli deve esser successo? Nulla, non c’è più il nostro piccolo Otto, ecco cosa è successo!
La notizia è resa e l’uomo trasale dice soltanto un “Oh” profondo e lontanissimo come se gli salisse dall’intimità più recondita del cuore. Stacca la sua attenzione dalla donna, lascia inavvertitamente la testa ferita della donna; e prende la lettera: resta imbambolato, fissa le parole sul foglio senza riuscire a leggere.
L’ira e la rabbia di Anna Quangel
La donna gli strappa di mano la lettera. Il suo umore è cambiato, lacera con ira il foglio in mille brandelli e inveisce contro il marito:
"- Ora ti metti a leggere questa porcheria, queste schifose bugie che scrivono a tutti? Che è morto da eroe, per il suo Fuhrer e per il suo popolo? Che era un modello si soldato e di camerata? Questo vuoi lasciarti contare da loro, quando sappiamo benissimo tutti e due che il nostro Otto amava soltanto trafficare intorno alle sue radio e che ha pianto quando gli è toccato andare soldato? Quanto spesso mi ha detto, quando era recluta, che avrebbe preferito sacrificare la sua mano destra pur di liberarsi di costoro! E adesso "un modello di soldato e un eroe”! Bugie, tutte bugie! Ma questo l’avete combinato voi, con la vostra sporca guerra, "tu e il tuo Fuhrer!"
Ecco il grimaldello, la frase fatidica che sblocca Quangel dal suo torpore assente. La chiave che apre la porta alla ribellione. Quangel non sopporta che la sua donna lo accusi di collaborare col Fuhrer; quel "tu e il tuo Fuhrer” lo sconvolge; sente l’ostilità dell’unica persona che lo conosce, che gli è stata sempre vicino e che ora lo accusa di essere amico del Fuhrer. No, Quangel non ci sta e in cuor suo già ha preso la decisione di opporsi e resistere quel regime che fino ad allora aveva sostenuto.
"Io e il mio Fuhrer? Mi dici perché, tutto a un tratto il Fuhrer è diventato il “mio" Fuhrer? Non sono mica nel partito, io, soltanto nel Fronte del Lavoro, e lì ci devono entrare tutti. Abbiamo votato una sola volta per lui, tutti e due. … Non capisce ancora come a sua moglie sia venuto in mente questo improvviso attacco contro di lui. Sono sempre stati della stessa idea...
Ma lei ribatte con violenza: - E tu sei l’uomo della casa e decidi ogni cosa e tutto deve andare secondo la tua testa e se io voglio un tramezzo per la provvista delle patate giù in cantina, bisogna farlo come vuoi tu, non come la penso io! E in una faccenda così importante hai sbagliato? Ma tu sei un sornione, vuoi soltanto la tua pace e non dar nell’occhio. Hai fatto quello che facevano tutti, e quando hanno gridato: “Fuhrer comanda, noi ti seguiremo”, gli sei andato dietro come una pecora e noi abbiamo dovuto seguirti. Ma ora il mio piccolo Otto è morto, e nessun Fuhrer del mondo e nemmeno tu potrete ridarmelo."
Stabat mater. Amen
Lo sfogo di una madre ferita dalla morte del figlio si articola con tutta la sua violenza contro l’uomo, il Fuhrer e il mondo. È un urlo di dolore che investe tutto e tutti. Non c’è consolazione possibile di fronte alla morte del suo "piccolo Otto”; suo e non nostro come aveva detto il padre; suo, solo suo e di nessun altro. Ma ormai è morto e la colpa è delle “pecore” come suo marito che hanno seguito il comando del Fuhrer “Fuhrer comanda, noi ti seguiremo”. Il Fuhrer ha comandato la guerra e i padri hanno mandato i loro figli a morire per il Fuhrer. Nulla può consolare Anna Quangel che ha perduto il suo piccolo Otto in una guerra comandata dal Fuhrer.
"Quangel ascoltò senza replicare. … Osservò soltanto, in risposta a queste accuse: - Bisognerà dirlo alla Trudel."
"La Trudel era la ragazza di Otto, quasi la sua fidanzata. … Veniva spesso da loro, la sera, anche adesso che Otto era al fronte, per fare due chiacchiere. Di giorno lavorava in una fabbrica di uniformi.
L’accenno alla Trudel cambiò il corso dei pensieri di Anna Quangel. Gettò uno sguardo al lucido orologio a pendolo alla parete e domandò: - Puoi arrivare da lei prima del tuo turno? - Oggi l’ho dall’una alle undici, - rispose lui. - Ce la farò. - Bene, - disse lei, - allora và e dille di venire qui, ma non dirle ancora niente di Otto. Gielo dirò io stessa. Il tuo pranzo sarà pronto a mezzogiorno."
Dopo lo sfogo di Anna, tutto tra i due sembra tornare nell’ordinarietà della vita quotidiana; ma nei loro pensieri tutto è cambiato. L’ultimo gesto di Anna è la raccolta dei pezzettini di carta della lettera fatale.
"Ripose con cura i brandelli di carta nella busta busta e li nascose nella sua raccolta di inni religiosi. Al pomeriggio, quando il marito era fuori, avrebbe avuto il tempo per ordinarli e incollarli insieme. Anche se erano tutte bugie, sporche bugie, erano pur sempre l’ultima cosa di Otto. L’avrebbe conservata nonostante tutto, e mostrata alla Trudel. Forse allora avrebbe potuto piangere, per il momento aveva ancora fiamme dentro al cuore. Le avrebbe fatto bene piangere. Scosse rabbiosamente la testa e andò al fornello."
La rabbia, dunque, è l'ultimo sentimento di Anna, con cui Fallada chiude il capitolo dell'annunciazione...una scena che Massimo Troisi e la Smorfia, ci restiuscono comicamente così:
Riflessioni di lettura dell'articolo di Mario Calabresi su La Repubblica del 26/7/2018, in memoria di Sergio Marchionne.
La libertà
Chagal - Crocifissione bianca
"Con questa intervista ho comprato la mia e la tua libertà.” (Sergio Marchionne)
Perché la scelta di questa frase? Per il fascino della parola "libertà". Sergio Marchionne l'ha pronunciata quasi in segno di vittoria, non tanto per lui, quanto per Mario Calabresi, il giornalista che lo ha intervistato.
Dal racconto del giornalista, traspare la soddisfazione e la gioia del manager per aver conquistato la libertà per il suo interlocutore oltre che per se stesso.
Il manager appare consapevole e sicuro della propria libertà ma, probabilmente, voleva che anche il suo interlocutore si affrancasse dalle possibili sudditanze politiche, economiche e aziendali che lo avrebbero costretto a inevitabili autocensure ovvero alle mezze verità e alla menzogna, privandolo della libertà; lo ha fatto semplicemente: comunicandogli una verità nascosta agli altri ma palese a lui, in quanto amministratore delegato della Fiat, fonte sorgente di quella verità: la Fiat non aveva alcun interesse per gli "incentivi alla rottamazione” proposti dal governo.
Con questa notizia-verità, in esclusiva personale, il manager ha costruito, forgiato e corazzato un canale comunicativo preferenziale con il giornalista; un canale sicuro e coeso verso il mondo esterno, verso il mercato; un canale unico a vantaggio sia della Fiat sia del giornale La Stampa. L'articolo commemorativo, di sapore "umano", scritto da quel giornalista in occasione della morte del manager, reso in forma di testimonianza, è la prova tangibile del rapporto umano che correva tra i due.
L'articolo
I due titoli, (prima e seconda pagina):
"Marchionne, l'orgoglio della fatica" "Marchionne, l’uomo che viveva di lavoro"
Due titoli “lapidari” per rispondere alla probabile domanda che qualche (o molti) ignaro lettore si sarà posto leggendoli, confuso dal turbinio di informazioni e notizie propinate a pioggia dai media: "Chi è questo Marchionne da meritare per giorni le prime pagine dei giornali?
I richiami dei due titoli sono emblematici: identità della persona, la sua umanità, la sua vita, la sua opera.
Due titoli concatenati, seppur a sé stanti in prima e seconda pagina; due frasi di poche parole; parole forti e chiare, che non lasciano spazio a fraintendimenti; parole che orientano il lettore verso una lettura formativa, educativa e pedagogica dell’articolo.
L'occhiello
L’occhiello dell’articolo è strutturato su alcune frasi (di cui una con citazione) che preannunciano gli argomenti trattati:
- L’azienda era la sua passione. - Aveva quella voglia di rivalsa e affermazione che nasce dalla fatica e dall’emigrazione. - Apprezzava Obama ma era certo dell’elezione di Trump: “Chi non lo capisce non capisce l’americano medio”. - La sua felicità quando stava ai box Ferrari
Queste frasi possono essere ridotte in termini generici, adatti cioè ad evidenziare possibili vizi e virtù di qualsiasi persona:
- Passione - Desiderio - Discernimento - Felicità
Desiderio, passione, discernimento e felicità, dunque, sono i capisaldi esistenziali sui quali Mario Calabresi incardina la personalità, la vita e le opere di Marchionne.
Su questi termini così generici, occorre fare un pò di chiarezza; per non confondermi e confondere ambiti che sono estranei agli argomenti che intendo trattare in questo lavoro.
Il desiderio va riferito al "desiderio mimetico" di René Girard ovvero al suo significato antropologico; un significato che può essere riformulato come "volontà di operare per ottenere un "bene oggettivo" che è l'oggetto del desiderio. Girard lo chiama desiderio mimetico perchè lo fa nascere dall'imitazione del desiderio di un altro:
"l'oggetto (del desiderio) non è che un mezzo per raggiungere il mediatore (l'altro). È all'essere del mediatore che mira il desiderio. Proust paragona alla sete questo desiderio di essere l'altro.(...) questo desiderio di assorbire l'essere del mediatore si presenta frequentemente in forma di desiderio di iniziazione a una nuova vita. L'improvviso prestigio di un modo di esistere sconosciuto è sempre connesso con l'incontro di un essere che risvegli il desiderio."
Il discernimento va inteso come la capacità di giudizio sulla realtà oggettiva; giudizio che permette e motiva le scelte per l’agire orientato al bene. La virtù cui fa riferimento è la prudenza.
La passione va intesa in senso estensivo come "una realtà che suscita interesse".
La felicità intesa come la compiuta esperienza di ogni appagamento.
La passione
Il testo
Come nasce una passione
L'iniziazione - "L'improvviso prestigio di un modo di esistere sconosciuto è sempre connesso con l'incontro di un essere che risvegli il desiderio." (Renè Girard)
“Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo. Sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava."
Sergio davanti alle ragazze resta paralizzato perché parla male l'inglese: non le capisce e non sa farsi capire.
Sergio non riesce a mettersi in gioco e a competere con gli altri ragazzi per conquistare le ragazze. L’imbarazzo di aprire la bocca lo paralizza.
Sergio desidera quelle ragazze, vuole assorbirle, vuole trasformarsi, essere come quei ragazzi che riescono ad parlare e scherzare con le ragazze.
Sergio vorrebbe capire quel che dicono i ragazzi e le ragazze della sua età ma non ci riesce: parlano un'altra lingua;
Sergio con le ragazze vorrebbe essere irresistibile, affascinarle, conquistarle. Ma non riesce a parlare, qualcuno lo schernisce;
Sergio si sente preso in giro perché non sa ascoltare, non sa parlare.
Sergio resta come paralizzato, schiva le compagnie, schiva le ragazze, si emargina nel sottosuolo esistenziale.
Sergio cova vendetta: è tormentato da un’atroce sete di vendetta: vuole diventare come gli altri senza cessare di essere se stesso. La tentazione dell’orgoglio è eterna ma per lui, per un immigrato diventa irresistibile poiché è orchestrata e amplificata in maniera inaudita in quella terra straniera, in quella selva oscura.
Sergio sente le voci dell’orgoglio, la coscienza d’essere un immigrato che deve vivere in una città che non conosce, che non lo ha cullato nell'infanzia, che non lo ha visto crescere, si fa più amara e solitaria e la solitudine acuisce la pena.
Sergio non può condividere con gli altri la sua sua sofferenza; lui è diverso, è solo, è un immigrato che non sa parlare. Lui è solo loro sono tutti.
"Sei anni persi con le ragazze”... quanta dolcezza, quanta nostalgia, quanto distacco in queste parole, dette da Sergio qualche decennio dopo, in una confessione; quando ormai si erano consumate le braci del suo desiderio di vendetta; quando ormai era diventato "Marchionne, l'uomo che viveva di lavoro".
Riflessioni
Mario Calabresi, ripercorrendo le tappe nella sua memoria affettiva, affida alle parole di Marchionne la presentazione di se stesso e l'apertura dell'articolo:
“Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo. Sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava."
È un incipit che segna il luogo, il tempo e il fatto in cui Marchionne stesso colloca la sua iniziazione da migrante: “Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni".
Un migrante che approda nel territorio sconosciuto del Canada, proveniente dalla fine di un mondo conosciuto: l'italico Abruzzo. Un migrante proveniente dalla fanciullezza che approda nell'adolescenza. Ma aveva un handicap comunicativo che lo imbarazzava; davanti alle ragazze restava paralizzato: "Sei anni persi con le ragazze. L'imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava".
Forse a 14 anni, davanti alle ragazze si può rimanere bloccati per svariate e molteplici ragioni; ma per Marchionne ce n'è stata una sola: la lingua non in senso anatomico, ma in quello linguistico; quello della parola, dell'espressione verbale: "Parlavo l'inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano".
Lo scarto culturale scopre la menzogna. Parlare in inglese e farsi scoprire italiano nasconde la menzogna di "cercare d'apparire per ciò che non sei". È il disagio pirandelliano dell'essere e dell'apparire; quello vissuto da Vitangelo Moscarda nel romanzo "Uno nessuno e centomila" (Discussione "Luigi Pirandello, "uno, nessuno, centomila"") . Marchionne lo ha vissuto come immigrato legale nell'Ontario, in Canada a 14 anni. In un paese straniero il migrante soffre di questo mal di comunicazione.
È una regola che vale per tutti i migranti; anche per quelli che muoiono inghiottiti dal mare. Un ragazzo di 14 anni, in un paese straniero, davanti a ragazze che parlano un'altra lingua...viene inghiottito dal mare dell'inadeguatezza, dell'impaccio, dell'imbarazzo. Per Marchionne è stato così.
Il desiderio di rivalsa
Da questo mare dell'inadeguatezza e della vergogna ci si può salvare. Nel mio taccuino di lettura, sotto il capitolo "La rivalsa" ho appuntato i tre passaggi per me più significativi dell'articolo. Il primo è riferito al cammino di salvezza che Calabresi sintetizza con poche parole:
"Ogni giorno, per oltre mezzo secolo, ha voluto dimostrare che non si sarebbe più lasciato paralizzare o mettere in un angolo da quelli più grossi di lui, anche per questo prese tre lauree."
Sergio Marchionne, offeso nell'amor proprio in un Paese straniero, decise di "vendicarsi" e affrancarsi da quelle situazioni imbarazzanti per vincere la sua battaglia di migrante italiano. Si laureò in filosofia presso l'Università di Toronto; in un'intervista dichiarò: «Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me».
Successivamente si laureò in giurisprudenza alla Osgoode Hall Law School della York University (Ontario, Canada) con il massimo dei voti, conseguendo poi presso la University of Windsor (Ontario, Canada) un Master in business administration. Esercitò quindi come commercialista, procuratore legale, avvocato ed esperto contabile diplomato. (wikipedia)
Ebbe la sua rivalsa combattendo con le sue armi (filosofia, giurisprudenza, business amministrazion) contro un avversario smisuratamente più grande; proprio come il bibblico pastorello Davide contro il gigante Golia. E qui entra in gioco il secondo passaggio appuntato sul mio taccuino:
"Il Golia da battere nell’ultimo decennio sono state le case automobilistiche tedesche e le pubblicità del Superbowl erano ogni anno il suo manifesto; (Eminem, Clint Eastwood e Bob Dylan… e il cruccio per non aver convinto Bruce Springsteen.)"
Il Golia tedesco e/o americano lo lascio da parte perchè è Davide che interessa in questa sede. E siamo al terzo passaggio appuntato nel mio taccuino di lettura:
"Una bambina afroamericana che raccontava una storia di rivincita con parole che sembravano scritte da lui; sembrava la sua biografia: - Siamo circondati da giganti, abbiamo dovuto imparare ad affrontarli e a batterli, siamo piccoli ma veloci e sappiamo che essere svegli è più importante che essere il ragazzo più grosso del quartiere -."
Calabresi ha colto nel segno: quella bambina afroamericana, che racconta la storia della sua rivincita, è Marchionne!
L'opera
"Poiché nell'opera consiste la bontà e perfezione dell'uomo." (Aristotele)
«Quando ho iniziato l’università, in Canada, ho scelto filosofia. L’ho fatto semplicemente perché sentivo che, in quel momento, era una cosa importante per me»
Sergio inizia il percorso universitario a Toronto; sceglie la facoltà di Filosofia semplicemente perché sentiva che, in quel momento, era una cosa importante. Probabilmente perché vedeva nello studio della filosofia la possibilità di iniziare la sua opera secondo l’assunto aristotelico di definir bene i prìncipi:
"Si metta ogni studio a definir bene i princìpi, avendo ciò una grandissima importanza per quel che viene dopo: poiché si può dire che il principio è più della metà del tutto, e per esso divien chiaro gran parte di quel che si cerca". (Aristotele - Etica Nicomachea)
In seguito si laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti, conseguendo un Master in Business Administration. Esercita quindi come commercialista, procuratore legale, avvocato ed esperto contabile diplomato.
Sergio, nel 2003 approda alla Fiat, dopo aver esercitato per 20 anni in Nord America e in Europa. La sua opera prende forma; è diventato un manager stimato in ambito internazionale. Parla con franchezza e professionalità, con i Presidenti USA Obama e Trump diversi nelle loro reciproche vision politiche ma egualmente attenti ed efficaci nelle decisioni da prendere per salvare dal caos l’industria automobilistica americana, ormai sull’orlo del baratro.
Procede con piglio e tenacia nell’opera di trasformazione dell’azienda facendola diventare un formidabile realtà produttiva globale, non un colosso ma un gruppo produttivo, agile, duttile, di grande valore strategico per il mercato mondiale dell'auto; razionalizza, accorpa, dismette, apre nuove vie; negozia con chiarezza di idee; immagina e prospetta il mercato del futuro e accompagna gli interlocutori nel prendere le decisioni più convenienti per tutti.
Con filosofia e professionalità manageriale è riuscito a definir bene il principio di un nuovo mercato globale, rispondendo al bisogno di chiarezza dei suoi interlocutori e dei compagni di strada, facendo "divenir chiaro gran parte di quel che si cerca.”
Sergio ormai parla in inglese con i colleghi, con i presidenti…
anche con quelle ragazze della sua adolescenza migrante;
Sergio parla una lingua universale che tutti possono capire e parlare;
Sergio ha ormai recuperato quei sei anni persi della sua adolescenza,
vissuta da migrante nelle strade di una città che non conosceva,
dove si parlava una lingua che non conosceva;
Sergio ha recuperato quei sei anni
da qui all'eternità.
Il riposo
“Adesso non vedo l’ora di risalire sull’aereo,
è piccolo e scomodo
ma devo dormire a tutti i costi.
Dormire sarà il mio modo di festeggiare.”
(Sergio Marchionne)
La felicità
Era felice ai box della Ferrari,
con le cuffie in testa,
quando cercava di azzeccare al millesimo
i tempi dei giri di prova.
Nel suo futuro forse
sarebbe stata la sua nuova vita
e ci era quasi riuscito.
(Mario Calabresi)
La memoria affettiva
La prima volta che l’ho incontrato
nella hall di un albergo
sul Central Park a New York.
quando stavo per essere nominato
direttore della Stampa,
non lo riconobbi,
aveva una sciarpona blu
che gli copriva anche il naso
e continuava a tossire.
Non mi chiese nulla di politica
e mi parlò della sua infanzia,
dell’idealizzazione dell’Italia
e delle nostalgie che aveva
di suo padre, di sua madre
e degli studi di filosofia.
Ma soprattutto
della sorella Luciana
che amava tantissimo,
morta a 32 anni di cancro.
Mi raccontò di quando accompagnò
per l’ultima volta
il figlio di lei all’ospedale
per salutare la mamma.
Si commosse
e smise di parlare per un po’;
poi cambiò discorso e ordinò
una bottiglia di vino e due bistecche.
(Mario Calabresi)
Sergio Marchionne
(Chieti, 17 giugno 1952 – Zurigo, 25 luglio 2018[1]) è stato un dirigente d'azienda italiano naturalizzato canadese.
È noto a livello internazionale per aver guidato il profondo rinnovamento della FIAT. Ha ricoperto ruoli importanti nel gruppo Fiat: è stato amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles N.V., FCA Italy e FCA US, di cui è stato anche presidente. È stato presidente anche di CNH Industrial N.V. e Ferrari N.V., oltre che Presidente e amministratore delegato di Ferrari S.p.A.
È stato inoltre vicepresidente di Exor S.p.A. e membro permanente della Fondazione Giovanni Agnelli, Presidente del CdA dell'ACEA (associazione costruttori) per l'anno 2012 e membro del CdA del Peterson Institute for International Economics, nonché co-presidente del Consiglio per le Relazioni tra Italia e Stati Uniti.
(wikipedia)
Mario Calabresi
(Milano, 17 febbraio 1970)
è un giornalista e scrittore italiano, direttore del quotidiano la Repubblica dal 15 gennaio 2016.
(wikipedia)
Appendici
1 - La memoria affettiva e il desiderio
Per definireil desiderio René Girard parla dell'effetto dissociante della memoria affettiva:
"La memoria dissocia gli elementi contraddittori del desiderio. Il sacro emana il suo profumo mentre l'intelligenza attenta e staccata può ora riconoscere l'ostacolo nel quale urtava; comprende la funzione del mediatore e ci svela il meccanismo infernale del desiderio.
La memoria affettiva reca dunque in sé la condanna del desiderio originale. I critici parlano a tale riguardo di contraddizione. Viene ripudiata l'esperienza che, a conti fatti, procura la felicità. E' vero. Ma la contraddizione non è nell'autore, è nel desiderio metafisico. Cogliere il desiderio significa in realtà cogliere il mediatore nella sua duplice funzione malefica e sacra. L'estasi del ricordo e la condanna del desiderio si implicano vicendevolmente come la lunghezza e la larghezza o il rovescio e il dritto. La psicologia aurorale è indisgiungibile dalla rivelazione mistica: ne è l'altra faccia. Non costituisce, come oggi si afferma, una seconda impresa letteraria di interesse alquanto mediocre.
La memoria affettiva è il giudizio universale dell'esistenza dell'autore. Essa separa il grano dal loglio, ma il loglio deve figurare nel romanzo perché il romanzo è il passato, è l'identità dell'autore. La memoria affettiva è il focolare di tutta l'opera dell'autore. E' fonte di verità e fonte di sacro; da essa scaturiscono le metafore religiose; essa svela la funzione divina e demoniaca del mediatore. Non bisogna limitarne gli effetti ai ricordi più antichi e più felici. Mai il vivo ricordo è più necessario che nei periodi di angoscia, perché dissipa la nebbia dell'odio. La memoria affettiva è in gioco in tutta la successione temporale. Chiarisce altrettanto bene l'inferno di Sodome et Gomorrhe quanto il paradiso di Combray.
La memoria è la salvezza dello scrittore e di Marcel Proust uomo. Noi indietreggiamo dinnanzi al messaggio trasparente del Temps retrouvè. Il nostro romanticismo tollera la salvezza soltanto se immaginaria; tollera la verità soltanto se disperante. La memoria affettiva è estasi, ma è anche conoscenza. Se trasfigurasse l'oggetto, come spesso viene ripetuto, il romanzo ci descriverebbe non tanto l'illusione vissuta al momento del desiderio, ma una nuova illusione, frutto di questa nuova trasfigurazione. Non vi sarebbe realismo nel desiderio."
2 - La felicità
Per definire la felicità Aristotele fa ricorso all'attività umana ovvero all'opera che è propria dell'uomo:
Il concetto della felicità ha da essere ricavato dal concetto dell'attività umana nella sua perfezione.
La felicità è il più grande dei beni. Questo verrà detto più chiaramente se si potrà cogliere l'opera che è propria dell'uomo. Poiché nell'opera consiste la bontà e perfezione dell'uomo.
L'opera propria dell'uomo è la vita in atto ovvero l'attività dell'anima secondo ragione o, almeno, non priva di ragione: in tutti i casi e senza eccezione, quando nell'operare si raggiunge la perfezione.
Se poniamo che l'opera dell'uomo è una certa vita e che questa non sia altro che attività dell'anima e azione congiunte con la ragione (l'agire), diremo che proprio dell'uomo eccellente è operare bene e bellamente.
La perfezione dell'agire umano è da riporre nell'attività dell'anima secondo virtù, e se più sono le virtù, in quella che è secondo la virtù ottima e perfettissima.
Aggiungi: in una vita perfetta. Perché, come in una sola rondine o in un sol giorno non fa primavera, così neppure un sol giorno né un picciol tempo fa l'uomo beato e felice." (Etica Nicomachea - Aristotele)
Ora lascio alle parole dell'articolo di Mario Calabresi, che ho sintetizzato e raggruppato in distinti punti di riflessione, l'arduo compito di accompagnare chi legge alla ricerca di sè e della verità. Buona lettura
3 - Appunti
(sintesi organizzata dell'articolo di Mario Calabresi) Marchionne, l'uomo che viveva di lavoro
La presentazione “Sono arrivato in Canada dall’Abruzzo che avevo 14 anni, parlavo l’inglese malissimo, con un marcatissimo accento italiano. Ci ho messo più di sei anni a perderlo. Sei anni persi con le ragazze. L’imbarazzo di aprire la bocca mi paralizzava."
La rivalsa
- Ogni giorno per oltre mezzo secolo ha voluto dimostrare che non si sarebbe più lasciato paralizzare o mettere in un angolo da quelli più grossi di lui, anche per questo prese tre lauree. - Il Golia da battere nell’ultimo decennio sono state le case automobilistiche tedesche e le pubblicità del Superbowl erano ogni anno il suo manifesto; (Eminem, Clint Eastwood e Bob Dylan… il cruccio per non aver convinto Bruce Springsteen). - Lo spot che amava di più. Maserati in America, 2014. Una bambina afroamericana che raccontava una storia di rivincita con parole che sembravano scritte da lui; sembrava la sua biografia: “Siamo circondati da giganti, abbiamo dovuto imparare ad affrontarli e a batterli, siamo piccoli ma veloci e sappiamo che essere svegli è più importante che essere il ragazzo più grosso del quartiere”.
La filosofia
- Comandare non significa solo decidere ma essere capobranco che non molla mai la presa e lavora più di tutti gli altri. - La fatica era la sua compagna di vita e la cartina tornasole con cui giudicava le biografie di chi incontrava. I suoi ritmi, per chi lavorava con lui, a volte erano insostenibili. Non ne faceva mistero e prendeva in giro quei manager che a Torino sparivano all’ora di pranzo: “Si mettono la protezione cinquanta per non farsi vedere abbronzati”. Qualche estate fa apparve abbronzato anche lui e raccontò di essere stato finalmente in vacanza: “Un fine settimana a Boston, per vedere da turista l’università di Harward e la Kennedy Library. Poi mi sono messo a leggere un libro su una panchina al sole e mi sono scottato”. - Era un uomo di poche raffinatezze, viaggiava con uno zainetto, molto spesso con due buste di plastica, una per le sigarette e il the freddo, l’altra per i caricatori dei tre cellulari: uno americano, uno svizzero e uno italiano. Da uno dei sacchetti faceva capolino una statuetta di Ganesh (divinità indiana con testa di elefante) il suo portafortuna. - L’amore per il metodo lo legava a John Elkann; spesso parlavano in inglese tra loro, per capirsi più in fretta; era fissato con la velocità: “La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei."
La politica italiana
- Allergico ai riti della politica italiana, per lui più soffocanti dell'odiata cravatta. - Rifiutava le dicerie sulla sua presunta incapacità di mediazione: “Ho riportato in Italia una produzione che era stata delocalizzata in Polonia, quella della Cinquecento, e trovano il modo per contestarmi. Ho rilanciato Pomigliano, una fabbrica del sud Italia, un luogo dove c’erano i cani randagi in giro per lo stabilimento, dove trovavi i loro peli sulla carrozzeria dopo la verniciatura”. - Gli piacque Renzi; gli sembrava diverso, più dinamico, non ingessato, diretto. Pensò che avrebbe cambiato l’Italia. Quando lo vide in difficoltà ragionò che aveva sbagliato a non scegliere i migliori, ma a circondarsi da una stretta cerchia di “amici” fiorentini.
La comunicazione
- Quando ero direttore di La Stampa (di proprietà Fiat), mi chiamò una sola volta per lamentarsi del giornale; in particolare riguardo a un titolo apparso sul sito in cui si diceva che "Er Batman” (Franco Fiorito) si era comprato una jeep con i soldi pubblici: “Non ha comprato una Jeep ma un fuoristrada, non si può usare il termine come se fosse generico perché è un marchio, soprattutto perché non facciamo automobili per politici ladri." - Durante il governo Berlusconi, mi propose un’intervista per dire che Fiat non aveva alcun interesse a chiedere incentivi per la rottamazione. Alla fine del colloquio si alzò e disse soddisfatto:”Con questa intervista ho comprato la mia e la tua libertà”. - Una volta l’anno chiedeva i conti dell’editoria e non sopportava il rosso, però di fronte a un piano serio di recupero, non fece problemi a investire: "Se perdete vi dobbiamo sovvenzionare ogni anno, allora finirete per essere l’Illustrato Fiat; ma a me la cosa non interessa: state in piedi da soli e questa sarà la migliore garanzia della libertà del giornale”. - All'Italia contestava l’incapacità di scommettere sui giovani, di dare spazio alle nuove generazioni, anche per questo rimase folgorato quando lo invitarono al Meeting di Rimini: “Ho visto l’energia dei ragazzi in un Paese che li soffoca”.
La politica americana
- Amò molto Obama di cui lodava la capacità di visione, di aver salvato Detroit, l’auto è un pezzo fondamentale della storia dell’industria americana; di aver aperto la porta agli italiani. Il rapporto tra i due era fortissimo. Ma questo non gli impedì una certa familiarità anche con Trump:
- “Chi non lo capisce, non capisce l’americano medio; che non è quello che vive a New York o a San Francisco, ma che sta nel mezzo. Quello che è orgoglioso di farti vedere quanto è grande il suo televisore o ti trascina in garage prima del barbecue per mostrarti la macchina nuova. Trump è esattamente quella cosa lì. Quando sono entrato alla Casa Bianca mi ha portato a fare il giro delle stanze per farmi vedere tutto quello che aveva cambiato, le sue aggiunte, dalle tv alle tende dorate. Poi mi ha dato una gran pacca sulla schiena. La rappresentazione perfetta dell’americano medio". - "Hillary aveva l’accordo con i leader sindacali, ma anche nelle nostre fabbriche gli operai hanno votato per Trump. Erano storici elettori democratici ma avevano trovato uno che per la prima volta parlava la loro lingua e diceva quello che volevano sentirsi dire: nessuno porterà più il lavoro fuori dai confini dell’America”.
La famiglia
- La prima volta che l’ho incontrato, a New York, non mi chiese nulla di politica e mi parlò della sua infanzia, dell’idealizzazione dell’Italia e delle nostalgie che aveva di suo padre, di sua madre e degli studi di filosofia. Ma soprattutto della sorella Luciana che amava tantissimo, morta a 32 anni di cancro. Mi raccontò di quando accompagnò per l’ultima volta il figlio di lei all’ospedale per salutare la mamma. Si commosse, smise di parlare per un po’, poi cambiò discorso e ortinò una bottiglia di vino e due bistecche.
La Ferrari
- Era felice ai box della Ferrari, con le cuffie in testa, quando cercava di azzeccare al millesimo i tempi dei giri di prova. Nel suo futuro forse sarebbe stata la sua nuova vita e ci era quasi riuscito.
La Chrysler
- Era stato appena firmato l’accordo tra Fiat e Chrysler. “Dovrò dividere il mio tempo e la mia vita tra l’Europa e gli Stati Uniti, ma certo dovrò alleggerire certe cose che facevo perché ho raggiunto i miei limiti fisici e di più non posso chiedere a me stesso. - Adesso non vedo l’ora di risalire sull’aereo, è piccolo e scomodo ma devo dormire a tutti i costi. - Dormire sarà il mio modo di festeggiare."
(da: Il Libro della Passione ñ di J. M. I. Langlois)
José Miguel Ibànez Langlois, nato a Santiago del Cile nel 1936 e sacerdote dal 1960, è stato membro della commissione teologica internazionale. Si è laureato in Lettere e filosofia presso l’università di Madrid e in Filosofia presso la Pontificia Università Lateranense, ricoprendo poi incarichi di docente universitario in Cile. Figura di spicco nella vita culturale latinoamericana - dal 1966 è critico letterario del principale quotidiano cileno, El Mercurio -, Ibanez Langlois accompagna a un’intensa attività di teologo una personalissima produzione poetica che, partendo dai Poemi dogmatici (1971), attraverso Futurologie (1980) e Storia della filosofia (1983), culmina con Il Libro della Passione” (@ Editorial Universitaria Santiago del Cile, 1986 - @ Edizioni Ares Milano, 2002)
Prologo
Gesù di Nazaret che pover'uomo fallimento fallimento completo unici discepoli pochi pescatori locali com’era prevedibile a quei tàngheri non ci fu verso di fargli capire ciò che intendeva e tuttavia vagò con loro per tutta la Giudea risvegliando tra le masse un’esaltazione sporadica e superficiale un breve starnazzare nella polvere dei casali come accade a quasi tutti i predicatori itineranti neppure i suoi parenti credevano in lui lo ritenevano pazzo e di certo non erano i soli
fu vinto da una cricca di politici e di teologi del suo paese i suoi discepoli lo abbandonarono a mezzanotte e tutti i galli di Gerusalemme cantavano a sproposito fu venduto per 30 dollari in contanti non una lira di più fu condannato come bestemmiatore menzognero e rivoluzionario dietro richiesta delle stesse folle che parevano dalla sua
ai piedi della croce dei suoi quasi nessuno solamente sua madre e un qualche imberbe seguace di quelli che non mancano neppure al più demente dei visionari soltanto un qualche imberbe a scacciare i cani che venivano a leccargli il sangue
persino la sua biancheria se la divisero i carnefici passò per il mondo come se non fosse passato nessuno
a poche ore dalla sua morte tutto restava identico nell'universo solo luccicava come insegna luminosa sul suo sangue l'INRI dura avvertenza per i pazzi che si credono re non ci fu uomo più morto di quest’uomo morto sulla croce
la sua morte a una semplice occhiata era profonda d'infinito Gesù oh che morto soprannaturale
le anime si arrendevano a lui morto la croce patibolare divenne il suo trionfo i morti uscivano dalla terra per amarlo fino all'adorazione
assiso sul sermone della montagna il suo sguardo cambiò il corso della storia affatto bruscamente facendola passare per i precipizi più incredibili
il cosiddetto corso della storia umana non fa che rigirargli intorno per i secoli non fa che precipitarsi nell’abisso del suo cuore
La sua voce pacata d’accento galileo risuonò come un tuono che ammutolisce i cesari e i filosofi e i saggi
la sua parola illuminò ogni cosa dall'interno fece tremare il pensiero umano col fulgore di una luce incognita che il corso dei secoli non è ancora riuscito a decifrare
Gesù di Nazaret oh che morto che morto risuscitato
dal suo respiro sgorgano a fiotti vite di santi dal fondo dei suoi occhi spiccano camminando trasparenti legioni di vergini confessori martiri che dopo esser passati dalle fiamme da tutte le croci camminando ritornano al fondo del suo cuore
vie di Damasco sgorgano dalle sue dita mistiche dalla polvere della terra sgorgano vie che conducono a lui
il suo spirito ha preso l’abitudine di giungere in lingue di fuoco sulle più umili parrocchie di taglialegna e di pubblici impiegati continuamente accade che s’impazzisca d’amore per lui
con una parabola lancia in volo tutti i sogni del genere umano con una parabola fonda il metodo scientifico sperimentale un gesto della sua fine mano crea tutti gli stili classici e romantici con un dito fa girare le settemila forme della bellezza pura
è capace di trarre gigli dalle ghiande di trarre il bene dal male col metodo di crocifiggersi nella carne più peccatrice e di seppellirsi in essa e di uscire dal sepolcro alla velocità della luce e di uscire dal sepolcro a rallentatore diffondendosi nell’aere glorioso ah che bellezza
chi chi racconterà la storia delle sue morti e risurrezioni non si può lottare contro un uomo simile battaglia che perde battaglia che vince per invisibili procedimenti con centrale in Roma e filiali negli angoli più remoti dell'universo
ah sempre le lacrime del pentimento gli appartengono tutte le lacrime di mezzanotte tutti tutti gli amori lavorano in incognito per lui
le piaghe sue antichissime non si chiudono mai quelle piaghe dicono io sono la via la verità la vita la sua tunica scarlatta oggi risuscitata fiammeggia ai quattro venti sì fiammeggia come un arcangelo che indica l’esatta direzione del paradiso
Gesù di Nazaret oh che morto che morto risuscitato.
Questo lavoro è il primo di una serie di interventi che prendono spunto dall'ultima a discussione del Gruppo di lettura del Forum di Letteratour, a cui è stato messo un titolo fortemente storico che, nella scelta dei testi, può rientrare anche nei classici canoni letterari: "Il nazional socialismo in Germania". La proposta di apertura della discussione, presenta infatti un romanzo:
Vorrei discutere su un argomento che mi sta a cuore: la dittatura nazista in Germania e la resistenza tedesca. Il romanzo che ho finito di leggere è "Ognuno muore da solo" di Hans Fallada, dal quale è stato tratto il film "Lettere da Berlino"
"Jeder stirbt für sich allein" (tradotto in italiano come: "Ognuno muore solo"), fu l'ultimo romanzo di Hans Fallada, dato alle stampe nel 1946, giudicato da Primo Levi come "uno dei più bei libri sulla resistenza tedesca contro il nazismo".
Nel risvolto di copertina dell'edizione Sellerio è scritto: "
Hans Fallada, massimo autore del neorealismo weimariano, ormai alcolizzato, dipendente da farmaci, ripetutamente richiuso in istituti psichiatrici, ricevette l'incartamento da autorità della ricostruzione e scrisse l'opera nel tardo 1946, in ventiquattro giorni, appena prima di morire.
Considerato che "il romanzo parla sempre del suo autore", con questo criterio, ho ritenuto utile approfondire la conoscenza dell'autore prima di leggere e interpretare le vicende narrate nel romanzo.
Chi era Hans Fallada? In questo lavoro, cerco di rispondere alla domanda analizzando, secondo il "desiderio mimetico" girardiano, quello che, per me, rappresenta l'evento iniziatico ovvero l'ante-opera del romanziere: il tentato suicidio di coppia mascherato da duello, ben descritto da Geoff Wilkes nella postfazione al romanzo edito da Sellerio.
Buona lettura
Nom de plume, Hans Fallada
dalla postfazione di Geoff Wilkes a "Ognuno muore solo"
Rudolf Ditzen,
Rudolf Ditzen
Il 17 ottobre 1911 il diciottenne Rudolf Ditzen e il suo amico Hans Dietrich von Necker aprirono il fuoco l’uno sull’altro, alla maniera dei duellanti. Ditzen e von Necker stentavano a conciliare sessualità e convenzioni sociali e fecero un patto suicida travestito da duello: difendere l’onore di una giovane fanciulla, onde salvaguardare la reputazione delle rispettive famiglie. L'esito del finto duello fu drammatico: Von Necker mancò il bersaglio ma fu ferito a morte da Ditzen, che adoperò l’arma dell’amico per spararsi al petto.
Miracolosamente Ditzen sopravvisse e fu incriminato per omicidio. Non processabile per problemi psicologici fu internato in una casa di cura per malati di mente, nel febbraio 1912. Dimesso nel settembre del 1913, fu indirizzato alla carriera di agronomo. Trascorse diversi anni lavorando principalmente in fattorie e aziende agricole. Un periodo caratterizzato da intermittente tossicodipendenza che segnerà tutta la sua vita adulta.
Nè i suoi problemi con la giustizia, né l’abbandono degli studi, né le ricorrenti crisi della tossicodipendenza, poterono spegnere l’interesse per la scrittura che Ditzen aveva mostrato già dagli anni della scuola.
Nel 1920 la casa editrice Ernst Rowohlt pubblicò il suo romanzo d’esordio: "Der munge Goedeschal", sulle tribolazioni sessuali e psicologiche dell’eponimo protagonista. Il padre Wilhem, giudice della Suprema Corte tedesca in pensione, lo aveva pregato di pubblicarlo sotto pseudonimo. Rudolf scelse il nom de plume Hans Fallada.
Il nom de plume prendeva lo spunto da due favole dei fratelli Grimm, La fortuna di Hans e La piccola guardiana d’oche.
Nella prima, Hans conserva il suo ingenuo ottimismo pur perdendo il frutto di sette anni di fatiche attraverso baratti con estranei dalla parlantina facile: da una pepita d’oro a due pietre, che fa cadere in un pozzo, per poi riprendere il suo cammino felice e contento. Nella seconda c’è un cavallo parlante di nome Falada che riscatta una principessa dal suo lavoro di guardiana d’oche, facendosi testimone della sua vera identità.
Lo pseudonimo riflette, tanto le sue continue difficoltà nell’affrontare la realtà circostante, quanto il suo convincimento che nonostante tutto, in qualche modo sarebbe riuscito a padroneggiarla. La difficoltà e il convincimento lo avrebbero accompagnato per tutta la vita e li ritroviamo nei personaggi dei suoi romanzi.
Il duello-suicidio
Considerazioni girardiane
17 ottobre 1917 - il duello di Rudolstat in Turingia -
Come molti altri giovani della Germania imperiale, Rudolf Ditzen e Hans Dietrich von Necker stentavano a conciliare sessualità e convenzioni sociali: quale via d’uscita avevano scelto un patto suicida travestito da duello (per difendere l’onore di una giovane fanciulla) onde salvaguardare la reputazione delle rispettive famiglie.
Il tentato suicidio mascherato da duello, a diciotto anni, fu la prima vera testimonianza, cioè, l’antefatto che alimenta il contenuto dell'opera omnia di Rudolf Ditzen, nom de piume Hans Fallada; un’esperienza vestita dalla menzogna, un tentato suicidio vestito da duello, un atto vile vestito da atto eroico; una menzogna vestita da verità, un doppio mostruoso che traccerà e orienterà tutta la vita del "finto" eroe.
È sulla motivazione che ha spinto la coppia di amici al suicidio mascherato, che si trova la chiave del girardiano desiderio mimetico dei due aspiranti "eroi", capri espiatori della società e vittime sacrificali della storia. Il loro auto-sacrificio congiunto è un atto di ribellione verso la società; un superamento divinatorio di una società ormai persa nell'ipocrisia delle convenzioni; una società in preda al parossismo vittimario dei perdenti, vessati nella miseria e nell’indigenza; una società in piena crisi identitaria che ha smarrito il senso della storia e ha azzerato tutte le differenze: una girardiana crisi di indifferenziazione dove è il caos che regna sovrano; dove tutti sono contro tutti.
Renè Girard su "La violenza e il sacro” descrive questo salto nel vuoto caotico, nella descrizione del carattere rituale delle feste:
“La promiscuità sessuale è tollerata, in certi casi richiesta. In talune società può spingersi sino all’incesto generalizzato. La trasgressione va inscritta nel quadro più vasto di un generale annullamento delle differenze: le gerarchie familiari e sociali sono temporaneamente soppresse o invertite. I figli non obbediscono più ai genitori, i domestici ai padroni, i vassalli ai signori. (…) Nel corso della festa sono provvisoriamente tollerati e incoraggiati i contatti più imprevedibili, le unioni contro natura.”
Qualcosa di simile al carattere rituale delle feste di cui parla Girard, si verifica anche quando un evento catastrofico, (come una guerra), scardina tutte le differenze, stravolgendo tutte le gerarchie in cui si articolava il vivere sociale della comunità. L’omosessualità trasgressiva univa i due amici-eroi aspiranti suicidi, ai loro rispettivi doppi mostruosi e divinatori; l'odio reciproco e l'amore per se stessi; il reciproco desiderio di essere l'altro e la conseguente rivalità per non rinunciare a se stessi; questo alternarsi di situazioni contraddittorie, incontrollate e incontrollabili, spinge i due amici al sacrificio liberatorio: il suicidio di coppia vestito da duello; un sacrificio che li avrebbe restituiti a Dioniso. Ma uno dei due sopravvisse e restò "solo" a giustificare la sua vita con la "morte nell'anima".
Il nascondimento dietro le convenzioni sociali: questa maschera necessaria, questo mentire a se stesso, fa vivere al sopravvissuto Rudolf Ditzen un disagio esistenziale che lo costringe in ogni occasione in una posizione di distacco, sia dalla società sia da se stesso; un distacco che gli permette di osservare, con occhio critico, la realtà oggettiva ma, nel contempo, lo relega in una solitudine affettiva senza appigli. Ma come il giovane Hans della fiaba pseudonomastica, Rudolf è convinto che ci sarà sempre "qualcosa" che lo farà vivere felice e contento.
Manicomi, penitenziari e periodi di confino in sperdute fattorie, diventano la sua casa il suo habitat. Scrittura, alcol e droghe sono le vie di fuga dalla misera realtà in cui é costretto a vivere: una realtà ai margini, una realtà di periferia; le fosche "periferie esistenziali" che troviamo ben rappresentate nel romanzo "Ognuno muore solo"; nelle rassegnate esistenze vissute da tutta la pleteora di personaggi che popolano la storia. L'autore stesso conclude la sua brevissima prefazione con una descrizione in chiave girardiana:
"Spesso l'autore si è rammaricato di dover tracciare un quadro così fosco; ma una maggior luce sarebbe stata una menzogna." (Berlino, ottobre 1946)
Ancora una volta la menzogna "romantica" veste la verità "romanzeca" e si avvinghia alla storia di un romanziere nazista-resistente.
nota di servizio
Il romanzo "Ognuno muore solo" di Hans Fallada è tra quelli letti e discussi dal Gruppo di lettura del Forum di Letteratour; assieme a molte altre letture che si sono aggiunte in corso di discussione. In calce
Da Dante a Boll, da Nemirovsky a Tolstoj, il bacio è protagonista della storia più antica del mondo: la storia che racconta dell'uomo e della donna e del loro instancabile, irriducibile e reciproco desiderio di amare ed essere amati.
Autori diversi, esempi e situazioni diverse nel tempo e nello spazio, che raccontano con arte poetica il meraviglioso, misterioso e unico desiderio, dell'uomo e della donna, di unirsi l'uno all'altra.
Il bacio di Paolo e Francesca
Il Canto V dell’Inferno è il canto di Paolo e Francesca. Interrogata da Dante Francesca risponde raccontando le circostanze del suo cedimento al bacio dell'amante.
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante
Il bacio giovanile
"Senza parlare, sorridendo, lei si lasciava baciare, come Solange Saint-Clair tra le braccia di Dominique Hèriot, come tutte le ragazze che Antoine aveva conosciuto. Senza amore, senza ancora immaginare il piacere, il presentimento dell’amore e del piacere dava a quelle carezze incompiute, ansimanti, un sapore che non avrebbero più ritrovato."
Continua la descrizione delle sensazioni giovanili che non lasciano spazio alla passione; tutto è sostenuto da un appagamento intimo di piacere sensuale e non passionale.
Traspare dalle parole dell'autrice un'intima consapevolezza di ri-vivere situazioni irripetibili.
L'autrice è ben consapevole - e si nota un suo intimo e mal celato compiacimento nella descrizione di quei momenti - che la morte è sempre pronta a falciare la sua vita; è lì, accanto a lei, allora come ora, nascosta, magari dietro l'angolo del piacere, o del tempo che fugge; questo è il suo vivere; la sua è una vita pro-fuga.
E allora, prendere tutto, non lasciar niente, perché il vivere è adesso.
Questo sarebbe il pensiero dell'autrice, ma il personaggio del romanzo non lo fa suo.
Quel "senza amore, senza ancora immaginare il piacere", fa trapelare lo sguardo a posteriori dell'autrice; la sua memoria affettiva colora il personaggio con una tinta di rosa pastello, dolce e malinconica; dolce per la delicatezza del gesto; malinconica per l'assenza di amore e di piacere; quasi a sottolineare il rammarico di un'occasione perduta, di una felicità che il bacio avrebbe potuto darle ma che la giovane protagonista lascia dormire nell'immaginario, senza abbandonarsi alla voluttà del momento, spinta da quella fretta giovanile di fare "tutto e subito"; senza essere consapevole dei tesori nascosti di quel piccolo e semplice gesto; tesori che solo una improbabile, dolce e lasciva lentezza potrebbe far emergere dallo scrigno serrato dell'abitudine; l'abitudine di fare ciò che si fà solo perché si deve fare.
Lorenzo Il Magnifico scrive, una manciata di secoli prima di Nemirovsky:
Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia, di doman non c'è certezza.
Il bacio passionale
"… quello che per Anna era un impossibile, orribile e tanto più incantevole sogno di felicità, quel desiderio era soddisfatto. Pallido con la mascella inferiore che gli tremava, egli stava ritto al di sopra di lei e la supplicava di calmarsi, non sapendo lui stesso di cosa e di come." (Lev Tolstoj, Anna Karenina)
In questo brano non c'è narrazione ma la descrizione dell’anima dei personaggi, confusi nella reciproca passione. E` la capitolazione delle loro personalità; sono perduti a loro stessi, avvinghiati i loro corpi nel vortice della passione non riescono a riconoscersi, non si guardano, nascondono i loro volti nelle pieghe oscure della passione.
"- Nemmeno una parola di più,- ella ripeté…"
La fine del desiderio di un possibile rapporto amoroso e l’inizio di una carnale passione. Non più il gioco, le schermaglie e il rincorrersi tra due persone che si desiderano ma il naufragio passionale e assassino; l'autore, infatti, descrive con la parola assassino e assassinato per indicare gli amanti. L’assassino che infierisce sul corpo della donna:
"E l’assassino si getta su questo corpo con rabbia, si direbbe con passione, e lo trascina, e lo taglia".
La passione è il lato oscuro dell'amore: il desiderio nel maschio si converte convulsamente in volontà di possesso della femmina.
Il desiderio di possesso
"Avevo ventun anni e lei diciannove quando una sera andai semplicemente nella sua stanza per fare con lei le cose che uomo e donna fanno insieme. Al pomeriggio l'avevo vista con Zupfner, mentre uscivano insieme dalla Casa della Gioventù; si tenevano per mano e sorridevano e ne avevo provato una fitta." (H. Boll - Opinioni di un clown)
Secondo lo schema triangolare del desiderio mimetico i personaggi nominati in questa frase sono:
Hans il clown soggetto che desidera
Zupfner mediatore - rivale
Lei (Maria) l'oggetto desiderato
Dei tre vertici del triangolo solo due sono identificati con un nome: Hans e Zupfner ovvero il soggetto e il suo mediatore-rivale. La donna non è nominata nel pensiero di clown Hans-Boll: c'è solo un piccolo pronome d'appoggio; quel "lei" sfuggevole che fa scivolare l'importanza del rapporto sull'interazione generalizzata tra un uomo e una donna:
"...fare con lei le cose che un uomo e una donna fanno insieme."
Quello che prova Hans per Maria non è amore ma desiderio di possesso; il desiderio di "avere" la donna di un altro svanisce con il possesso e, nella mente di Hans, lascia il posto al desiderio mimetico per il "mediatore" Zupfner: il soggetto vuole essere il suo mediatore; il suo idolo diventa il rivale per il "possesso" di Maria.
Normalmente questo desiderio lo chiamiamo "invidia"; Hans desidera "ciò" che desidera Zupfner perché in realtà desidera essere Zupfner.
Emulazione e invidia muovono l'agire dell'uomo nella relazione con gli altri. Quello di Hans non e' amore a prima vista, come in un primo momento potrebbe sembrare, ma desiderio di possesso. Il suo primo desiderio di avere Maria nasce perché un giorno qualsiasi, la vede mano nella mano con Zupfner, il suo mediatore e rivale.
Hans vede in Zupfner il modello da seguire che diventa rivale per il "possesso" esclusivo di Maria.