di Irene Tinagli, La Stampa
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La proposta del ministro Sacconi
di abbassare l'obbligo scolastico da 16 a 15 anni nasce da un problema
reale: i tanti giovani che interrompono gli studi prima dei 16 anni e
che cadono nell'inattività o nel lavoro nero. Il problema quindi
esiste, ed è importante affrontarlo. Quello che lascia perplessi
però è il tipo di risposta, perché ha il sapore
di una sconfitta.
Una risposta che prende atto di un fallimento e si adegua al ribasso. Anziché pensare
a misure che stimolino e incentivino la frequenza della scuola, magari attraverso
sistemi di borse di studio e di coinvolgimento e supporto alle famiglie, o una
riorganizzazione vera dei sistemi di formazione lavoro, si lascia perdere. In
un certo senso si getta la spugna. Perché affidare i giovani di quindici
anni ai sistemi «formativi» extrascolastici significa lasciare soli,
vista la totale inconsistenza della formazione extrascolastica in Italia. È vero,
le imprese potranno beneficiare di un anno di manovalanza a basso costo e i giovani
avranno un anno di esperienza lavorativa (che, attenzione, è ben diversa
da vera «formazione»), ma tutto questo è un ripiego terribilmente
di breve periodo e poco lungimirante. È come chi si brucia la casa per
vendersi le ceneri. Oggi ci si guadagna un pochino, ma si perde un patrimonio
molto maggiore per il futuro.
Uno dei problemi più grandi del sistema economico e produttivo italiano è proprio
la scarsa qualificazione di tanti lavoratori, che entrati in azienda a quattordici
o quindici anni, hanno maturato degli skills talmente specifici a un certo tipo
di produzione, che poi diventa difficilissimo riconvertirli o sottoporli a nuova
formazione molti anni dopo. È per questo che quando chiude una fabbrica
si mettono in ginocchio intere economie locali. Un maggior livello di istruzione
serve a questo: a rendere il lavoratore più flessibile, e più ricettivo
a programmi di formazione futura.
Questo non significa che ci sia bisogno di avere tutti laureati o premi Nobel,
ma solo che occorre maggiore attenzione ai percorsi formativi e di avviamento
al lavoro delle nuove generazioni, per assicurarci che il giovane non venga semplicemente
abbandonato dietro una catena di montaggio. Perché un quindicenne che
oggi, nel 2010, lascia la scuola per mettersi dietro una macchina, si scontrerà prima
o poi con problemi che sarà poco attrezzato ad affrontare, e con lui la
società in cui vive. Altri Paesi si stanno ponendo questo problema. Come
l'Inghilterra, che negli ultimi dieci anni ha più che raddoppiato la spesa
per la formazione professionale dei giovani riorganizzandola pesantemente: sono
state create numerose «National Skills Academies», guidate da aziende
e datori di lavoro, che oltre a formare migliaia di ragazzi hanno stimolato le
aziende stesse ad investire di più, facendo lievitare a 38 milioni di
sterline (+16% in soli due anni) la spesa delle aziende in formazione giovanile.
Un intervento peraltro integrato da un programma di welfare per i giovani, un «New
Deal for Young People» che supporta ed incentiva la formazione e il lavoro,
di cui hanno già beneficiato un milione e trecentomila ragazzi tra i sedici
e i diciotto anni.
Ecco, la proposta di Sacconi ha il merito di affrontare un problema reale da
noi troppo spesso ignorato, per ignavia o ipocrisia, ma ha il limite di farlo
con uno spirito che trasmette una sensazione di rinuncia, che rischia di negare
una prospettiva ai figli dei più poveri che di fatto vedranno disegnarsi
di fronte a loro l'orizzonte di fine del percorso formativo alla scuola media,
una logica del «meglio di niente». Mentre oggi più che mai
il Paese avrebbe bisogno di una politica capace di dare segnali forti, che riconosca
i problemi, certo, ma anziché abbassare l'asticella l'alzi continuamente,
rilanciando con proposte innovative proprio sulle sfide più difficili.
Una politica che ci dica che possiamo fare meglio di così e puntare più in
alto.
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