di Pierre Haski - Rue89 - Presseurop
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La superpotenza
culturale statunitense è più forte
che mai. L'Europa invece perde terreno e lascia il ruolo di antagonista
a paesi emergenti come Cina, India e Brasile. In Francia un libro invita
il vecchio continente a reagire.
"Se l'Europa non si sbriga a fare
qualcosa sarà emarginata. I
paesi emergenti sono agguerriti e pronti alla battaglia". Potremmo pensare
che Frédéric
Martel drammatizzi troppo la situazione, se non conoscessimo la sua
natura di instancabile viaggiatore e soprattutto se non avessimo letto
le 450 pagine di Mainstream, un libro consacrato allo sconvolgimento
dell'industria culturale nell'era digitale.
Mainstream è la
cultura per il grande pubblico, quella che "piace
proprio a tutti", come precisa il sottotitolo del saggio. La cultura
mainstream è alla base di un'industria che contribuisce sensibilmente
al Pil mondiale. Un terreno di scontro per enormi multinazionali globalizzate,
di grande importanza economica ma anche strategica. Fa parte infatti
del cosiddetto "soft power", il potere che non scaturisce dalle armi
ma dall'attrazione culturale.
Fascinazione globale
Frédéric Martel ha compiuto un lungo viaggio intorno al
mondo per analizzare le conseguenze della rivoluzione digitale, di due
decenni di globalizzazione e dell'emergere delle nuove potenze del sud.
Ricercatore e giornalista (France Culture, NonFiction.fr), ha attraversato
in lungo e in largo gli Stati Uniti, vera e propria mecca del Mainstream,
ma anche i territori della nuova frontiera: Mumbai, Shanghai, Seul e
Dubai. Tornato in patria, Martel ha tratto le sue conclusioni, non certo
sorprendenti: gli Stati Uniti restano i leader incontrastati del mercato
globale. O meglio, "gli Stati Uniti non si limitano a esportare prodotti
culturali.
Esportano un modello complesso. A Damasco come a Pechino,
a Hué come a Tokio, a Riyad e Caracas tutti i miei interlocutori
dimostravano una vera fascinazione nei confronti del modello americano
dell'intrattenimento. Le parole possono anche essere in hindi o mandarino,
ma la sintassi resta americana".
Gli altri vincitori nella redistribuzione
dei ruoli culturali sono chiaramente i paesi emergenti. La Cina, il Brasile,
l'India. Perfino gli stati del Golfo, che stanno costruendo la loro industria
culturale a suon di petrodollari. Nell'analisi di Martel ci sono due perdenti.
Da una parte l'Europa, dall'altra tutti gli "altri", ovvero i paesi in
via di sviluppo cui mancano i mezzi per competere e restano condannati
ad importare suoni e immagini dall'estero.
La quota di mercato dell'Europa
nell'esportazione mondiale di film, programmi televisivi e musica (l'editoria,
secondo Martel, tiene ancora) è calata
nell'ultimo decennio al ritmo dell'8 per cento annuo. Gli statunitensi
hanno continuato a crescere del 10 per cento annuo. Il vecchio continente
resta al secondo posto nel mondo, ma il trend al ribasso è evidente.
Gli handicap dell'Europa sono molti. Prima di tutto la frammentazione.
Anche se statisticamente si considera un mercato unico, la realtà è fatta
di 27 mercati nazionali "che dialogano poco tra loro". L'industria dell'intrattenimento,
inoltre, è vecchia: " la definizione europea di cultura è l'opposto
del mainstream. Si guarda ossessivamente al patrimonio storico e si insiste
su un sapere elitario. Nel frattempo perdiamo il passo della globalizzazione
e della frenesia digitale". La lista dei problemi della vecchia Europa
non finisce qui. Comprende anche una diffidenza dura a morire verso internet
e "il rifiuto delle sottoculture interne prodotte dagli immigrati e dai
loro figli.
La scomparsa di una cultura comune
L'ultimo problema, forse il più grave, è la
scomparsa di una cultura comune. In questo l'Europa è unica al
mondo, diversa dagli Stati Uniti ma anche dal mondo arabo, dall'Africa
e dall'Asia. Tutti i gli stati europei si impegnano a proteggere la propria
musica e la propria letteratura nazionale, e anche il cinema e i programmi
televisivi. Ma i contenuti non hanno più niente di nazionale,
sono sempre più americanizzati e sempre meno europei. Per parafrasare
una celebre formula di Thomas Jefferson, è come se ormai ogni
europeo portasse con sé due culture diverse, la propria e quella
americana".
L'analisi di Martel è spietata, in qualche modo opprimente.
Gli esteti faranno spallucce, ben felici di concedere il monopolio del
mainstream agli statunitensi e ai cinesi e concentrarsi sulla protezione
della cultura nazionale. Sarebbe però un grave errore, perchè l'indebolimento
dell'industria culturale europea si ripercuoterà in tutti i settori,
mettendo a repentaglio la possibilità stessa di produrre qualcosa
al di fuori del mainstream. Sarà difficile resistere a questo
magma omogeneo e inarrestabile.
Martel invita tutti gli europei a prendere
coscienza della situazione e reagire al più presto. Il suo libro "avrà raggiunto
il suo scopo se riuscirà a sensibilizzare i cittadini d'Europa
sull'importanza del 'soft power' e li spingerà migliorare la loro
posizione sullo scacchiere internazionale." La battaglia si annuncia
difficile, ma Mainstream ha il merito di aver aperto il dibattito.
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