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Una simmetria meravigliosa
Letteratura e... straniamento

di Tiziano Gorini

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Platone e Aristotele sostengono che la filosofia, ovvero la conoscenza, nasce dalla meraviglia.

L’uno, nel Teeteto, afferma che

è proprio del filosofo di esser preso dalla meraviglia; né altro comunemente ha il filosofare che questo

l’altro, nella Metafisica,  che

La meraviglia, infatti, è stata cagione, che gli uomini, e ora e prima, cominciassero a filosofare, rimanendo da principio attoniti delle difficoltà più ovvie, e poi progredendo, così a poco a poco, e suscitando via via dei dubbi sempre maggiori, intorno alle condizioni della luna, per esempio, e a quelle del sole e agli astri e alla generazione del tutto. Ora, chi dubita e ammira, gli par di ignorare.

L’esperienza dell’incontro con qualcosa di strano, inaspettato o nuovo fa improvvisamente scaturire il dubbio e l’ammirazione: sorpresa, stupore, talvolta perfino timore (infatti la parola greca che traduciamo con “meraviglia” è thauma, parola che implica anche un senso di spavento), quindi il guardingo interrogarsi su ciò che ci appare ignoto e infine l’atto conclusivo e gratificante della conoscenza.
L’esempio aristotelico è indicativo di ciò che accade nella mente: l’essere umano scruta la volta celeste, l’immutabile e consueto sfondo della sua esistenza, finché si accorge che immutabile non è,  poiché vi sono stelle vaganti che mutano continuamente il notturno cielo, e dunque cessa anche d’esser consueto, diviene strano, meraviglioso, thaumatourghikós: un perturbante ignoto che partorisce il desiderio di comprendere, di conoscere.

Quando accade che qualcosa nel mondo ci sorprende e diventa irriconoscibile si verifica una crisi: ciò che prima era abituale e familiare ora ci diviene estraneo; è come se le cose e i fatti reali si allontanassero dall’ingenua abitudine cognitiva per sottrarsi alla sua indifferenza, per essere illuminate da un nuovo sguardo, da una nuova intelligenza; e da quella distanza in cui si pongono possano esser viste con una rinata consapevolezza. Perciò Giorgio Colli – riprendendo un’espressione nicciana -  individua come caratteristica essenziale del sapiente greco appunto il pathos della distanza e Martin Heidegger la modalità vorhanden degli oggetti, quando essi diventano cognitivamente remoti e problematici, che si oppone alla modalità zuhanden, quella della prossimità e della distratta familiarità che li rende di fatto invisibili. La meraviglia impone un mutamento paradigmatico della conoscenza.

Talvolta l’effetto meraviglioso è l’esito casuale di un contingente accadimento reale (tale ad esempio doveva parere ad una mente arcaica un’eclissi lunare) ma quasi sempre deriva da un processo cognitivo a cui lo psicologo Jerome Bruner ha dato il nome di effective surprise, “sorpresa produttiva”,  cioè l’atto intellettuale che trasgredisce gli schematismi percettivi ed ingiunge ad una mente inquieta un radicale ripensamento,  una ristrutturazione del giudizio. Essa  è un’euristica trasgressiva che conduce al di là dei modi comuni di esperire il mondo, aprendolo a nuove prospettive.

Un esempio: questi versi di Yeats tratti da Among School Children:

O body swayed to music,
O brightening glance,
How can we know
The dancer from the dance?

“O corpo abbandonato alla musica,/ O splendente luminosità,/ Chi di noi potrebbe distinguere/il danzatore dalla danza?” Come sempre la traduzione indebolisce l’espressività poetica, ma qui interessa quella conclusiva e allusiva domanda, che nell’immagine luminosa, armonica e graziosa  insinua lo sconcerto cognitivo, la meraviglia: che cos’è la danza che noi seguiamo affascinati se non la movenza del corpo? Quindi solo il corpo esiste, mentre la danza è una creazione della mente? E perché e come la crea? I versi di Yeats ci  inducono a rinunciare alla categorizzazione, a rifluire dall’astrazione alla concretezza, dalla mediazione percettiva all’immediatezza dell’esperienza, a scoprire che la fondamentale dicotomia soggetto-oggetto è una rappresentazione, utile ad orientarci nella vita ma infine fallace.

Quest’esempio, oltre che a spiegare l’effetto della meraviglia, ovvero della sorpresa produttiva, ci trasferisce nell’ambito letterario. Che il linguaggio letterario possa e debba provocare stupore è cosa palese e perfino teorizzata in epoca barocca: “E’ del poeta il fin la meraviglia” affermava allora Giovan Battista Marino; ma è nel ‘900, nell’ambito delle ricerche linguistiche e letterarie dei formalisti russi, che tale proprietà viene analizzata e giudicata un elemento fondamentale della produzione letteraria.

Fu Sklovskij ad individuare e descrivere la tecnica dello straniamento: poiché il fine dell’arte è “resuscitare la nostra percezione della vita” l’artista crea una differente ed insolita prospettiva della realtà, una realtà straniata, appunto, deformando le immagini, trasgredendo la lingua, dislocando l’espressione.
Leggiamo ad esempio la poesia di Andrea Zanzotto:

Ormai la primula e il calore
Ai piedi e il verde acume del mondo

I tappeti scoperti
Le logge vibrate dal vento e il sole
Tranquillo baco di spinosi boschi;
il mio male lontano, la sete distinta
come un’altra vita nel petto

Qui non resta  che cingersi intorno il paesaggio
Qui volgere le spalle.

Il testo sembra alludere al risveglio primaverile, ad un paesaggio che conforta e risana, ma  è irretito in un complesso intreccio metaforico; soprattutto è arduo comprendere l’espressione “il verde acume del mondo”, che pare l’effetto di un corto circuito tra sintassi e semantica: che relazione c’è tra il mondo e l’ acume e come è possibile definire tale proprietà astratta come di colore verde? Se, ad esempio, si dice: “il colore nero dell’inchiostro” l’enunciato, semanticamente coerente, consente il riferimento alla realtà, ma in questo caso il riferimento non può che essere ambiguo, enigmatico: quel “mondo” non è quello a cui comunemente pensiamo, poiché possiede proprietà inconsuete. E’ strano. Dunque in questo caso la metafora stravolge una prospettiva cognitiva. Questo effetto è stato rilevato nel linguaggio letterario dal formalista russo Sklovsky, che ne ha fatto il focus della sua teoria letteraria, per cui la letteratura è propriamente lo strumento che serve a mutare il modo di vedere il mondo, a “defamiliarizzare” la realtà. L’ovvietà dell’automatismo cognitivo fa perdere la capacità di stupirsi e quindi di riflettere sulla realtà; compito del testo letterario è di “rinfrescare” la nostra visione delle cose, di mutarne la percezione.

I modi con cui si realizza lo straniamento sono molteplici; tra essi c’è pure l’adozione di una particolare focalizzazione, la rappresentazione di un punto di vista inconsueto che delinea una prospettiva originale. Ad esempio: nella Galeria di Marino una poesia è dedicata ad Erasmo da Rotterdam; nei primi versi il poeta pone una domanda:

Dottor, o seduttor deggio appellarte?

Definire Erasmo dottore era ovvio, data la sua rinomata sapienza, ma ecco che Marino immediatamente muta la prospettiva e tramite l’antitesi insinua il dubbio che sia piuttosto un seduttore, obbligandoci quindi a riformulare e complicare il giudizio (magari ricordandoci che anche Gesù nel Talmud è accusato di seduzione), a vedere Erasmo con un altro sguardo.
Un altro esempio: nel De rerum natura Lucrezio così presenta il punto di vista del saggio riguardo la vita:

Soave, mari magno turbantibus aequora ventis e terra magnum alterius spectare laborem; non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.

Riprendendo l’immagine del viaggio per mare come metafora della vita Lucrezio sposta il punto di vista da quello del naufrago a quello dell’uomo che è lieto, poiché si trova in terra, di non correre lo stesso pericolo; in questo modo ci offre la valutazione di un diverso modello di vita.

Nello Zibaldone di Leopardi leggiamo queste note in cui una prospettiva idilliaca viene magistralmente stravolta dall’irrompere nella visuale di uno sguardo diverso, acuto e drammatico, tale da obbligarci a valutare la vita come come un’inesorabile condizione tragica:

Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.
Entrate in un giardino di piante, d'erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell'anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un'ape, nelle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell'albero è infestato da un formicaio, quell'altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e cruciato dall'aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici; quell'altro ha più foglie secche; quest'altro è róso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco; troppa luce, troppa ombra; troppo umido troppo secco. L'una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, nello stendersi; l'altra non trova dove appoggiarsi, o si affatica e stenta per arrivarvi. In tutto il giardino tu non trovi una pianticella sola in istato di sanità perfetta. Qua un ramicello è rotto o dal vento o dal suo proprio peso; là un zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta, staccata e strappata via. Intanto tu strazi le erbe co' tuoi passi; le stritoli, le ammacchi, ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi. Quella donzelletta sensibile e gentile va dolcemente sterpando e infrangendo steli. Il giardiniere va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro.

Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresí, possono durare a vivere qualche poco di tempo. Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci pare essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è trista e infelice, ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben piú deplorabile che un cemeterio), e se questi esseri sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere

Ma Leopardi è maestro in questo mutamento di prospettive, che si ritrova nel Canto notturno di un pastore errante del’Asia, dove è la Luna che guarda indifferente le sorti dell’essere umano, in La ginestra, in cui si alternano il presente e il passato, in molte operette morali, come Dialogo di un folletto e di uno gnomo, ironica rappresentazione del punto di vista di altri abitanti terrestri insofferenti degli umani; soprattutto però nell’Infinito, espressione dell’avventura del soggetto categoricamente determinato: io, qui, ora, che si perde nell’indeterminato sino a scomparire nel naufragio dell’essere privo di categorie.

Gli esempi di queste conflittualità prospettiche che provocano lo straniamento sono innumerevoli, tuttavia ce n’è una che è particolarmente ricorrente ed avvincente, probabilmente perché sembra rappresentare un fondamento o un destino della nostra condizione di esseri umani gettati nel mondo, che contemplano con quella meraviglia che Aristotele ha rappresentato: guardando in alto il Cielo, guardando in basso la Terra, in una sorta di rovesciamento che genera una simmetria etica e teoretica. O – inseguendo suggestioni heideggeriane – soggiornando nel Geviert, la Quadratura:


    cielo



    terra
   
divini



mortali

 

Il cielo, la terra, i divini e i mortali sono le dimensioni del mondo abitato dall’essere umano, che è mondo in quanto le quattro dimensioni costituiscono un’unità, devono tra loro interagire; per esplicare il modo di questa interazione Heidegger sceglie l’immagine del ponte, che è traccia, confine, strada che consente il passaggio e lo slancio trascendentale verso il cielo e i divini. In effetti si tratta d’una dialettica tra prospettive umane e disumane, lo sforzo di guardare alla terra e ai mortali con l’altro sguardo del cielo e dei divini. Montale commenterebbe ironicamente (in Qui e là):

Da millenni attendiamo che qualcuno
ci saluti dal proscenio con battimani
o anche con qualche fischio, non importa,
purché ci riconforti un «nous sommes là».
Purtroppo non pensiamo in francese e così
restiamo sempre al qui e mai al là.

Qui e là, basso e alto, il punto di vista umano e terrestre e quello divino e cosmico: è il contrapporsi di prospettive simmetriche che genera sorpresa e quindi senso.
In Marco Aurelio, ad esempio. Più volte nei suoi Ricordi l’imperatore filosofo medita sulla necessità di guardare e giudicare la vita dall’alto della volta celeste:

Colui che ragiona sugli uomini deve anche osservare le cose di quaggiù come da una altissima vetta: armenti, eserciti, lavori agresti, nozze, divorzi, nascite, morti, controversie di tribunali, regioni deserte, varietà di popoli barbari, feste, lutti, mercati e la miscela e l’ordine che si determina dall’unione di tutti questi contrasti.

In Dante, nel Paradiso:

L'aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci

Dante è salito con Beatrice nel cielo delle Stelle Fisse, si sta approssimando a Dio; perciò lei l’avverte di farsi attento, di aguzzare lo sguardo, ma lo invita anche a rivolgerlo prima verso il basso, per valutare il percorso compiuto; perciò il poeta osserva le sfere celesti e, infine, la Terra, che sprezzantemente definisce  “aiuola”, un minimo spazio insignificante, se visto da lassù, eppure  luogo in cui e per cui gli essere umani scatenano il loro egoismo e la loro crudeltà.

Analoga riflessione si trova nell’ Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam:

se tu potessi contemplare dall’alto della luna, come una volta Menippo, le agitazioni senza fine degli uomini, avresti l’impressione di veder nugoli di mosche o di pulci rissare, combattere, tendere insidie, rapinare, scherzare,folleggiare, nascere. Cadere, morire. E non si può nemmeno immaginare quali sollevazioni, quali tragedie susciti questo minuscolo animaluccio che è l’uomo. Destinato a sparire in un momento!

Di esempi se ne potrebbero addurre molti altri: la scoperta della  grandezza della Luna che invece appare piccola vista dalla Terra, così come la Terra appare piccola vista dalla Luna, nel viaggio di Astolfo che sulla Luna cerca il senno d’Orlando, nell’Orlando furioso; l’ironica protesta del Sole nell’operetta morale Il Copernico di Leopardi; l’altrettanto ironico strappo nel cielo di carta del teatro dei burattini in Il fu Mattia Pascal di Pirandello; ecc.; ma fra tutti il più suggestivo si trova nella poesia di Pascoli X Agosto:

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!

Il 10 Agosto è il giorno in cui, nel 1867, fu assassinato il padre di Pascoli ed la notte di San Lorenzo, quella in cui ogni anno si verifica il fenomeno delle stelle cadenti; perciò il poeta la trasforma nello scenario del suo dolore, con il cosmo che gli fa da partecipe testimone.

Il testo ha una struttura circolare, poiché inizia e termina con strofe in cui c’è l’evocazione della volta celeste, con la metafora del pianto di stelle; incorniciate tra loro la seconda e terza strofa raccontano della morte della rondine, con un evidente simbolismo cristiano: “ora è là, come in croce”; la quarta e la quinta, parallelamente, raccontano l’analoga sorta dell’uomo: “anche un uomo tornava al suo nido” (ovviamente il padre di Pascoli), con l’ulteriore riferimento a Cristo nella parola che pronuncia: “perdono”. La rondine, l’uomo, Gesù: vittime innocenti di un male che non è solo contingente, bensì universale consistenza, costituente del mondo; ecco quindi che il dramma individuale si trasforma, trascendendolo, in un dramma cosmico. Perciò piuttosto che circolare dovremmo definirne la struttura come spiraliforme, poiché il cielo sfavillante e piangente della prima strofa non è lo stesso dell’ultima, è mutato, è divenuto il Cielo, con l’iniziale maiuscola, ad indicare non più soltanto la volta celeste ma la divinità nella sua condizione iperuranica; e soprattutto è mutata la prospettiva, dato che all’inizio è il poeta che guarda in alto e suo il punto di vista: “io lo so”, mentre alla fine è Dio che guarda la Terra, che dal suo supremo punto di vista, “dall’alto dei mondi”, appare come  un “atomo” condensato di malignità (un immagine più moderna ed efficace ma che infine riecheggia la dantesca “aiuola che ci fa tanto feroci”).

Mi pare dunque che X Agosto sia la massima espressione di quella che ho definito una simmetria etica e teoretica, cioè un rovesciamento di prospettiva che impone l’esodo dalla dimensione umana, con le sue vanità e presunzioni,  le preoccupazioni e gli opportunismi, gli egoismi e le crudeltà, verso una ulteriore dimensione, trascendente e divina, che consente di percepire diversamente, oggettivamente, la vita e il destino dell’umanità. Una sorta di estasi, infine, di capacità di guardarci come se fossimo aleggianti fuori di noi.

Picture copyright: www.miguelclaro.com

Jurij Lotman, nella sua elaborazione di una semiotica della cultura, ne propose una descrizione basata su modelli spaziali che individuano un quadro del mondo, una weltanschauung (che tale weltanschauung si costruisca attraverso tratti spaziali la riteneva una probabile determinazione psichica, una proprietà della coscienza). Benché vi siano tanti quadri del mondo quante sono le culture sempre essi si rappresentano attraverso i tratti fondamentali e universali della partizione dello spazio, della dimensione delle parti e del loro orientamento. L’analisi dei testi rivela sempre la rappresentazione (cosmogonica, geografica, sociale, ecc.) di un mondo e l’attività dell’essere umano in questo mondo, che si esprime in un intreccio di eventi e, astrattamente, come una traiettoria che attraversa la frontiera interna al quadro del mondo. Si pensi ad esempio al mito di Orfeo, che dal mondo umano, spazio interno, discende nel mondo infero, spazio esterno dell’umanità. Dunque la rappresentazione più semplice di un modello culturale è questa:

Riservato: Esterno Interno

che si ritrova soggiacente a tutte le dicotomie culturali, quali sacro vs profano, cosmo vs caos, cultura vs barbarie, ecc. e può articolarsi in modi molteplici. In questo topologia spaziale l’essere umano si muove percorrendo un’avventurosa traiettoria, varca frontiere, introduce partizioni nuove, costruisce nuovi mondi, sia esso Ulisse che entra nel mondo dei morti, Dante che attraversa l’universo per giungere a Dio, Robinson che naufraga nell’isola o Cappuccetto Rosso che attraversa il bosco, ecc.

Dunque la simmetria meravigliosa di cui qui si è trattato altro non è che una variante dei modi con cui si rappresenta e giudica la vita, derivata da modi arcaici di pensiero e successivamente elaborata quando dal mondo mitico emerse l’immagine del cosmo, con la sua immensa ed armonica disumanità. Un topos letterario, infine, una tecnica argomentativa basata sul topos della qualità, che contrappone l’essenza all’esistenza, il macrocosmo al microcosmo, il superiore all’inferiore; eppure, al di là di questa gerarchia ontologica, retoricamente analizzabile, culturalmente contestualizzabile, logicamente discutibile, noi intravediamo il mistero della nostra umanità, nonché il conseguente sforzo etico e teoretico di compiere un’impresa impossibile: quella di guardarsi (quindi giudicarsi, valutarsi, emendarsi) non come fossimo davanti ad uno specchio che riflette la nostra immagine, bensì con uno sguardo impersonale ed oggettivo, uno sguardo da nessun luogo che può essere soltanto di un dio. Umile reverenza di fronte ad un fondamentale enigma o tracotante presunzione?

 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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