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La macelleria è turchina 
              come la fata
              di Ankara che affetta i libri ed affida
              recensioni ad una postina bizantina.
              Uso l'inchiostro grasso e il macellaio
              dice: Oh! lardo grave e greve il suo!
              non si riveste con pelle di Leopardo.
              Che sia la rima brutta, ed a me sciocca,
              tuttavia mi disse faresti più poesia
              con la tua bocca, sebbene il professor
              scortese avesse già una gran corte
              di ranocchie dalle grandi orecchie
              volendo percepire il doppio. Oh il critico
              che critica! e diononvoglia imiti gli smettici
              che smettono i troppi abiti di cui hanno
              (finanche) una pessima opinione.
              Ma tu pocheta, su Giove! su Giove!
              Quante poesie con sedici lune
              o tutte perlomeno nuove.
Titolo e struttura:
La poesia non ha titolo, e si presenta immediatamente al lettore in un solo blocco di testo. È una poesia moderna, anche dal punto di vista tipografico, nel senso che probabilmente non è nata manoscritta ma è stata direttamente battuta a macchina (o al computer). Essa dà subito un'impressione visiva ben definita al lettore, e anche il fatto che non ha titolo accentua questo impatto: mentre di solito il primo sguardo del lettore si posa sul titolo di un testo, qui l'attenzione cade sulla formattazione del testo, sul suo essere giustificato centralmente. L'attenzione cade direttamente sul corpo della poesia.
Analisi passo per passo:
1. "La macelleria è turchina come la fata / di Ankara che affetta i libri ed affida / recensioni ad una postina bizantina."
L'argomento principale della prima frase 
              è una macelleria (non male come inizio di 
              una poesia!). Ci si può chiedere in che modo una macelleria 
              diventa l'oggetto di un testo poetico; certo non ha niente di poetico 
              in sé. Di questa macelleria non si sa niente, se non che 
              nella mente del poeta è una realtà definita (è 
              la macelleria, e non una macelleria qualunque), 
              e che è turchina. Di solito il colore associato alle macellerie 
              è il rosso, o perlomeno il rosso e il bianco. Questa, invece, 
              è blu, anzi turchina, quindi di un colore al contempo sereno, 
              vivace e smagliante.
              Ma perché è turchina? Perché assomiglia alla 
              fata di Ankara. Ovviamente, a una fata turchina, 
              personaggio conosciuto da tutti in tutto il mondo e a tutte le età, 
              quindi in un certo senso universale; ma qui la fata è di 
              Ankara. Ankara, città turca, è la città dell'angora, 
              e la mitologia vuole che sia stata fondata dal re Mida. Non è 
              facile capire perché il poeta aggiunge questa precisazione 
              geografica, e forse è solo per una questione fonica: 
              Ankara si lega infatti alla parte precedente della frase con una 
              assonanza in a (la fata 
              di Ankara) e 
              alla relativa successiva per la ripetizione del suono in k 
              (Ankara che).
              E cosa fa questa fata? Due cose. Innanzitutto "affetta i libri". 
              E' una macellaia dunque! La macelleria assomiglia alla fata perché 
              è turchina, ma viceversa la fata richiama la macelleria perché 
              affetta. È comunque una macellaia particolare, perché 
              non affetta della carne ma dei libri. Strano modo di trattare il 
              materiale cartaceo. Questi libri, comunque, sono molto probabilmente 
              libri di letteratura. Ecco dunque che la poesia rivela il suo argomento 
              principale: non si tratta di una macelleria, ma di qualcosa che 
              ha a che fare con la letteratura. Pensandoci bene, chi nella vita 
              reale tratta la letteratura, grosso modo, proprio come questa fata? 
              Gli scrittori no, perché anzi loro sono quelli che, con la 
              loro creatività, formano i libri. I lettori nemmeno; di solito 
              chi apre un libro lo fa per sfogliarlo, per ascoltarlo, per scorrerne 
              le pagine cercando di prenderne l'unità, e non di farlo a 
              pezzi. In realtà chi fa a pezzi la letteratura e 
              i libri sono i critici: anch'io, in questo momento, sto 
              facendo a pezzi questo testo poetico per analizzarlo. Sono una macellaia 
              come la fata turchina, e con me, in modo assai più proprio, 
              in generale tutta la critica letteraria istituzionale.
              Ecco che abbiamo trovato il vero soggetto della poesia: niente fate 
              o macellerie, ma la critica letteraria. Vediamo se il resto della 
              poesia ci conferma questa ipotesi.
              La fata, come ho detto, fa anche un'altra cosa: "affida recensioni 
              ad una postina bizantina". È davvero una fata particolare! 
              Assomiglia sempre più ai critici, effettivamente i soli a 
              scrivere recensioni. Queste recensioni sono affidate ad una 
              postina bizantina. Altro personaggio femminile bizzarro, ma 
              molto grazioso con la sua rima interna in -tina. La postina, nella 
              vita, ha una funzione ben precisa: portare un messaggio 
              scritto al suo destinatario. Il messaggio in questione 
              in questo caso è una recensione; la postina dunque è 
              colei che porta ad un certo destinatario il lavoro dei critici. 
              Si può pensare ad un giornale, sul quale vengono pubblicati, 
              appunto, le recensioni; in maniera più circoscritta, ad una 
              rivista letteraria. Ma ci sono comunque più possibilità: 
              l'istituzione universitaria è un altro ottimo esempio di 
              luogo in cui non solo si producono, ma anche si diffondono recensioni 
              o, più in generale, saggi critici. Un fatto comunque rimane: 
              si tratta pur sempre di qualcosa legato alla critica e alla pubblicazione 
              della critica. L'aggettivo bizantina, infine, richiama il nome di 
              Ankara: il tutto sembra essere ambientato in oriente.
2. "Uso l'inchiostro grasso e il macellaio / dice: Oh! lardo grave e greve il suo! / non si riveste con pelle di Leopardo."
La seconda frase introduce la voce parlante, 
              l'IO: "[io] uso l'inchiostro". Di nuovo qualcosa che ha 
              a che fare con la letteratura, o perlomeno con la scrittura: l'inchiostro. 
              L'io è dunque un io-scrivente: uno scrittore.
              L'inchiostro che egli usa è particolare: è grasso. 
              Il senso di questo aggettivo ci viene spiegato subito dopo, grazie 
              all'intromissione di un quarto personaggio*, il macellaio, 
              che si esprime direttamente dando un giudizio da intenditore sull'inchiostro 
              del poeta: è un "lardo grave e greve", cioè 
              qualcosa che lui conosce bene, che entra a far parte del mondo della 
              sua professione (il lardo).
              Secondo il vocabolario Oli-Devoto, "grave" è qualcosa 
              " di peso notevole e spesso implicante l'idea di ostilità 
              o intollerabilità", di "duro, faticoso, molesto", 
              "carico, pieno"; e "greve" qualcosa "che 
              procura una insopportabile e durevole molestia specialmente per 
              la pesantezza o la densità". Abbiamo qui molto materiale. 
              Il lardo è frutto dell'uso dell'inchiostro da parte dell'io 
              (in pratica è il risultato della scrittura del poeta, quindi 
              la stessa poesia), ed è qualcosa di pesante, di fastidioso, 
              di intollerabile agli occhi del macellaio. Perché? Chi è 
              questo macellaio? Egli è colui che lavora in macelleria, 
              è il marito di un personaggio che abbiamo già incontrato: 
              la macellaia (la fata), che, come abbiamo visto, in realtà 
              è la rappresentazione della critica letteraria. La macelleria 
              è l'officina dei macellai, il luogo dove si affettano i libri; 
              il macellaio è dunque anche lui coinvolto nel giro della 
              critica letteraria, anche lui è un critico. Ed egli, come 
              critico, critica appunto, e dà giudizi: "Oh! lardo grave 
              e greve il suo!" esclama. Il frutto dello scrittore per lui 
              è grave e greve, cioè intollerabilmente pesante e 
              denso. In che senso? Ciò evidentemente significa che quello 
              che è scritto dal poeta è, in senso figurato, pesante 
              da tollerare e denso di significato, perciò anche difficile 
              (da sopportare ma forse anche da capire).
              Il macellaio-critico aggiunge anche che il lardo in questione "non 
              si riveste con pelle di Leopardo". Questa frase è poco 
              chiara; di essa si può solo tentare una interpretazione, 
              se si vuole rimanere nel campo dell'evidenza. Vediamo di mettere 
              assieme ogni elemento a poco a poco. Il leopardo è un felino 
              conosciuto per la sua aggressività. La pelle di leopardo 
              è pregiata; se ne fanno tappeti lussuosi. Tra l'altro, sia 
              l'animale che, soprattutto, il carattere lussuoso dell'oggetto in 
              sé (la pelle del leopardo) richiamano il gusto orientale, 
              barocco e sontuoso. Il lardo, sembra voler dire il critico, non 
              si riveste con pelle di Leopardo proprio perché è 
              "grave e greve".
              Mettendo un po' insieme tutte queste cose si può pensare 
              che la poesia sembra al macellaio-critico tanto pesante (in tutti 
              i sensi) da non poter essere rivestita con la pelle lussuosa del 
              Leopardo. Quello che di solito viene rivestito, nel campo della 
              scrittura, è il libro, con la rilegatura. Difatti una rilegatura 
              in pelle è già di per sé lussuosa, figuriamoci 
              una rilegatura in pelle di leopardo! Sarebbe il massimo del lusso. 
              Le rilegature sontuose sono da sempre state riservate ai libri considerati 
              più importanti, alle Bibbie, alle opere classiche per eccellenza. 
              È chiaro che, invece, nel caso di opere letterarie pesanti 
              o addirittura intollerabili (gravi e grevi) non si prevede nessun 
              tipo di rilegatura particolare, quindi nessun tipo di attenzione 
              particolare.
3. "Che sia la rima brutta, ed a me sciocca, / tuttavia mi disse faresti più poesia / con la tua bocca, sebbene il professor / scortese avesse già una gran corte / di ranocchie dalle grandi orecchie / volendo percepire il doppio."
Il macellaio-critico continua a parlare 
              al poeta, e il senso delle sue parole, alla luce di quanto già 
              detto, è: "Se anche la tua poesia mi sembra brutta (scadente) 
              e sciocca (priva di valore letterario), secondo me faresti meglio 
              a non scriverne più, a limitarti a parlare solamente". 
              Perché, per il macellaio, il poeta non deve più scrivere 
              ma soltanto parlare? Forse perché secondo lui il poeta è 
              più bravo ad esprimersi quando parla normalmente che quando 
              tenta di scrivere poesie. La sua è quindi una esortazione 
              alla "normalità", ad abbandonare la vena 
              poetica.
              La seconda parte della frase è più anodina. Si introduce 
              la figura di un professor scortese, che non è così 
              fuori luogo se si pensa all'istituzione universitaria come prima 
              fonte di critiche e opere letterarie. La gran corte di ranocchie 
              dalle grandi orecchie è, con tutta evidenza, lo sciame 
              di studenti e ricercatori appesi alle labbra del professore, sommo 
              sacerdote della cultura e dispensatore dall'alto del proprio sapere.
              Ma quello che non si spiega è il nesso tra il macellaio e 
              il professore. Forse il macellaio vorrebbe indurre il poeta a prendere 
              parte alle lezioni impartite in aula dal professore, come a suggerire 
              che, prima di diventare poeta, è necessario conoscerne bene 
              il mestiere; ma, d'altro canto, al poeta appare l'incongruità 
              di una tale ingiuzione, dato che il professore ha già la 
              sua corte di ranocchie. Al professore non serve una rana in più, 
              e del resto al poeta non serve imparare a parlare, a criticare, 
              se ciò si riduce nell'imparare a gracchiare (come 
              fanno, appunto, le rane).
4. "Oh il critico / che critica! e diononvoglia imiti gli smettici / che smettono i troppi abiti di cui hanno / (finanche) una pessima opinione."
L'esclamazione è da attribuirsi 
              al poeta, che sbuffa sdegnato alle parole del macellaio-critico. 
              Secondo lui il macellaio, invece di criticare e basta, dovrebbe 
              stare attento a non cadere nello stesso errore degli smettici 
              che smettono i troppi abiti di cui hanno una pessima opinione. 
              Chi sono costoro? E quali sono gli abiti che smettono (che si tolgono)?
              Innanzitutto apprezziamo il nome di costoro: gli smettici 
              si chiamano così dall'azione che fanno. In altre parole, 
              essi si definiscono attraverso il gesto che fanno di smettere gli 
              abiti. Per capire chi sono è quindi fondamentale capire la 
              metafora dei vestiti tolti.
              A guidarci nell'interpretazione è lo stesso macellaio. Se 
              egli compie lo stesso errore degli smettici, vuol dire 
              che non si comporta in maniera del tutto diversa: gli smettici 
              hanno quindi anche loro qualcosa a che fare con la critica. E difatti 
              essi hanno, degli abiti, una opinione. Anzi: una pessima opinione. 
              Sono pure loro dei critici, in negativo. I troppi abiti potrebbero 
              essere gli oggetti della propria critica (le opere d'arte), oppure 
              i suoi strumenti (la retorica, le stesse critiche altrui). Forse, 
              effettivamente, gli abiti sono l'insieme delle nozioni acquisite 
              con lo studio, l'insieme delle ricerche bibliografiche che un buon 
              critico (secondo il sistema accademico) dovrebbe avere per poter 
              esercitare dignitosamente il proprio mestiere.
              Ma qualunque siano questi enigmatici abiti da smettere, l'essenza 
              della frase è da cogliere nel desiderio che la critica 
              non sia semplice critica d'imitazione e che non si riduca ad aspetti 
              puramente negativi, decostruttivi.
5. "Ma tu pocheta, su Giove! su Giove! / Quante poesie con sedici lune / o tutte perlomeno nuove"
L'espressione "Ma tu pocheta, su 
              Giove! su Giove!" non è facile da interpretare alla 
              lettera.
              Nel Dizionario dei simboli** si legge di Giove che è 
              il Dio supremo dei Romani, chiamato anche "Giove padre", 
              dove "rappresenta l'ordine autoritario imposto dall'esterno 
              che, certo del suo buon diritto e del suo potere di decisione, non 
              ricerca né il dialogo né la persuasione: tuona".
              Comunque sia, il finale ha chiaramente una funzione esortativa, 
              volta a spronare a continuare per la strada intrapresa. Ma chi è 
              il fruitore dell'esortazione? Qui il problema è delicato; 
              noi suggeriamo due possibilità altrettanto valide e pure 
              altrettanto ricche di significato:
- L'esortazione è rivolta allo stesso poeta: egli deve seguitare a scrivere poesie ignorando le critiche dei "macellai" o delle "ranocchie". L'immagine di chiusura, con le poesie dalle sedici lune, appare come l'unica a distogliersi dalle altre per ampiezza e portata: non si parla più del mondo crudele e materiale di una macelleria o di quello insulso e vuoto di un'aula universitaria, ma di una dimensione più elevata, non solo terrena o terrestre (vedi l'allusione a Giove, da intendere sia come dio che come pianeta, e alle lune, ai pianeti). Il poeta sprona se stesso a continuare ad elevarsi a una dimensione cosmica, che gli permetta di comporre poesie armoniose e autosufficienti come un sistema planetare, o perlomeno poesie nuove, non logorate dallo studio vano e dalle critiche inutili. Il verbo "pocheta" (da "pochetare"?) ha il significato di "continua a far roba da poco conto", continua a scrivere poesie considerate "da poco".
- L'esortazione è rivolta al macellaio o, peggio, al professor scortese. Questa interpretazione è forse più coerente col significato di Giove: come pianeta dagli innumerevoli satelliti, è la rappresentazione metaforica del professore attorniato dalla sua corte di studenti-ranocchie; come Dio-padre, è il principio dell'autorità accademica, indiscusso e col quale non si discute ma si ascolta soltanto (infatti le ranocchie sono dalle grandi orecchie volendo percepire il doppio). In questo caso "pocheta" sta per "continua a dire cose da poco conto", ma stavolta l'oggetto non sono le poesie ma le lezioni impartite in aula oppure i consigli critici del macellaio.
* Il primo personaggio è 
              la fata, il secondo la postina, il terzo l'io, il quarto (fino ad 
              ora) il macellaio.
              ** J. Chevalier, A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, 
              Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1999.
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