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Il libro di carta e la vita spirituale

di Antonio Lagrasta

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Queste considerazioni non muovono da una pregiudiziale e anacronistica avversione per le nuove tecnologie ma da riflessioni sui pregi nascosti del “vecchio” libro.

Non sembrerebbe esserci cosa più vicina alla spiritualità della evanescenza della scrittura digitale. Fino a qualche tempo fa sarebbe stata considerata una ridondanza o addirittura un controsenso l’espressione “libro di carta” e infatti dicevamo “dammi quel libro” e basta. Avevano un senso invece nelle loro accezioni ironico-denigratorie le espressioni “tigre di carta”, “uomo di carta”, “castelli di carta” ecc.; probabilmente quando la rivoluzione tecnologica si sarà compiutamente dispiegata, il libro subirà la stessa sorte… La vita spirituale non è fatta di soli nobili e astratti pensieri: la complessità del suo svolgersi prevede operazioni umili che affondano negli stimoli psicofisici, nelle sensazioni (gli odori, i colori, la percezione dei segni che sono tracce materiali; mentre “gusto” e sapore – di un libro – hanno già il balzo a un livello superiore di metafora).

A un livello successivo (diciamo così per necessità di analisi), si verificano fenomeni legati alla vita ideopsichica (facciamo associazioni, ricordiamo, investiamo l’oggetto di quelle che Sant’Agostino chiamava affezioni, impressioni). E infine mettiamo in atto quelle strategie adatte alla comprensione di un testo per usi pratici, estetici, comunicativi. Ecco, appunto, che cosa può comunicarci un libro? Escludendo il caso del collezionista in cui, rispetto agli altri tipi di collezionismo, Benjamin vede “l’unico che non sia tenuto a sciogliere i suoi tesori dall’insieme delle loro connessioni funzionali”... un libro ci può ricordare un compleanno, i sacrifici fatti per comprare quel particolare libro, unico pezzo raro della nostra raccolta; un libro può evocare, nel solo aprirlo e toccarlo, tanti amori o tradimenti; gioie dello spirito nel comico e nel tragico delle libere creazioni degli autori per le “affezioni” che nell’oggetto fisico abbiamo investito; dolori vissuti per empatia oppure negli spasimi privati. Per non parlare del fatto che la sola vista dell’oggetto fisico col suo titolo può suscitare una serie di costellazioni associative di natura emozionale e teoretica, inserendoci in quella che chiamiamo la nostra personale rete culturale.

Un libro s’inserisce in una tradizione di stampa, aspetto non secondario, in quanto contribuisce a dare un colore particolare a ciascuna epoca.

E infine “un libro di carta” come mero oggetto fisico nelle sue stratificazioni di senso risveglia sempre sulla soglia della modernità o sullo sfondo dell’orizzonte culturale dell’umanità la figura di Johann Gutenberg per l’affinamento spirituale e l’avanzamento civile tra conquiste e persecuzioni. Tutto questo un libro digitalizzato non ci dà privandoci di una grossa fetta della nostra vita spirituale: innalzato a feticcio, pur rimanendo mero strumento.

Ed è un paradosso (e forse è un bene) che il “libro di carta” di cui abbiamo considerate “secondarie” le qualità fisico-evocative (un aspetto rilevante della vita dello spirito) rispetto al suo valore principale di strumento, debba essere apprezzato nella sua preziosità nell’epoca dell’evanescenza.

Una biblioteca contiene le impronte, le tracce, “i monumenti” della nostra vita spirituale e affettiva.

 

Antonio Lagrasta (Corato, 01/10/1940) è vissuto al nord e si è trasferito nel 1992 a Monterotondo. Laureato in filosofia, ha insegnato nelle scuole statali. Si occupa di narratologia e di critica letteraria e cinematografica. Per alcuni anni ha condotto corsi di scrittura creativa presso l'Università Popolare Eretina con la speranza di diffondere un maggior rispetto della lingua. Continua a collaborare con l'università affrontando temi come "Il mito e le sue riattualizzazioni", "Fare filosofia attraverso i film", "Un'idea dei Balcani".





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