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Il Minotauro. Altre versioni del mito

di Tiziano Gorini

Nella categoria: HOME | Letture stravaganti

 

nelle storie cretesi, all’inizio c’è un toro, alla fine c’è un toro (…)
I tori e i loro uccisori sembrano darsi perennemente il cambio 
(Roberto Calasso)

 

Il mito è un incunabolo dell’umanità, l’eco di arcaici pensieri la cui espressione rimanda ai fondamenti del nostro divenire nel tempo e nella storia; perciò il suo racconto non si dissolve mai anzi, quando una civiltà avverte l’esigenza di un ripensamento di se stessa, di una riconfigurazione ideologica, torna sempre a propagarsi nello spirito, acquistando nuovi sensi attraverso la voce dei poeti e dei narratori. Come brace sotto la cenere pronta a ravvivare la fiamma, il nucleo narrativo del mito alimenta la letteratura e coi suoi molteplici significati si rende disponibile per nuove versioni che lo conducono a noi esseri umani attuali, consentendoci di sondare i nostri abissi spirituali.
Come accade con la mostruosa figura del Minotauro, uno dei molti ibridi che si trovano nella mitologia greca: un raccapricciante incrocio tra uomo e toro, frutto di un amplesso bestiale, la cui storia non finisce mai, poiché torna a ridestare intime paure.

Timoroso che la sua sovranità sia ritenuta illegittima il re di Creta Minosse chiede a Poseidone un segno di approvazione che possa convincere i suoi sudditi, segno che il dio del mare gli concede nella forma di un bianco ed imponente toro che avrebbe dovuto essergli sacrificato; tuttavia Minosse, ammirando la bellezza di quello splendido animale non lo sacrifica, tentando vanamente di ingannare il dio, che invece lo punisce suscitando in sua moglie Pasifae un’insana passione per quel toro, della cui esecrabile soddisfazione l’effetto fu il parto del Minotauro, mostruosa creatura, terribile e temibile nella sua feroce inumanità. Per difendersene Minosse lo fa rinchiudere nel Labirinto costruito da Dedalo, dove sarà per sempre prigioniero, nutrito con la carne di giovani ateniesi che Atene ogni anno è obbligata a consegnare a Creta, per espiare la colpa di aver fatto morire il figlio di Minosse, Androgeo. Ma Teseo, l’eroe figlio del re di Atene Egeo, affronta il Minotauro uccidendolo e riuscendo ad uscire dal Labirinto grazie ad un gomitolo di filo srotolato nel suo cammino, gomitolo che gli aveva dato Arianna, figlia di Minosse, innamorata di lui.

Questo il mito, in sintesi, perché in realtà, come tutti i miti, è una stratificazione di tradizioni eterogenee e sovrapposte, un complesso intreccio di storie e temi che si includono e riverberano tra loro (ad esempio la latente corrispondenza tra il Minotauro e il dio Dioniso, che raccoglierà Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso); perciò l’analisi mitologica impegna sempre in un’ardua ermeneutica che deve decifrare enigmi, districare temi eziologici, epici, etici, etnici e, infine, storici, quando nel mito si intravedono materie che in qualche modo evocano eventi reali. Infatti, senza dubbio, la vicenda del Minotauro è connessa al culto del toro arcaicamente diffuso nel bacino del Mediterraneo ed oltre, quando dallo sfondo spirituale dell’animismo emergono divinità raffigurate talvolta in sembianze animalesche; il toro quindi fu considerato animale sacro, simbolicamente associato alla Luna o al Sole, alla fertilità, alla sovranità regale; culti taurini erano complemento di molte tradizioni religiose e si ritrovano in Anatolia (dove una loro prima testimonianza archeologica risale all’VIII sec. a.C, nel villaggio neolitico di Çatal Hüyük), in Mesopotamia, in Egitto, in Oriente. A Creta, probabilmente popolata in età neolitica da migranti anatolici, il culto del toro fu influente, tant’è che è esibito in numerosi affreschi raffiguranti scene di giochi e combattimenti coi tori, il più famoso dei quali è quello della taurocatapsia di Cnosso.

Il culto greco del toro era connesso ai riti sacrificali, che spesso avevano luogo all’interno di grotte; il toro era identificato con un dio, Dioniso, Zeus o Poseidone, la sua uccisione simboleggiava la morte e la successiva rinascita della divinità, per cui è probabile che il mito del Minotauro sia infine una rappresentazione di un cruento sacrificio, eco di arcaiche esperienze sciamaniche e numinose affioranti dallo sfondo feroce di una religiosità primordiale. Tuttavia, al di là di ipotizzabili e plausibili corrispondenze storiche che possono far risorgere un affascinante mondo antico, la configurazione di questo racconto, la scena enigmatica del Labirinto, la drammaticità di un duello mortale tra l’umano e il mostruoso, la complessità delle relazioni sentimentali tra i suoi personaggi (ad esempio il tradimento di Arianna da parte di Teseo, che forse tradisce anche il padre Egeo, il ruolo di Dioniso e di Fedra nella vicenda), lo rendono uno dei miti più intensi della mitologia greca, così simbolicamente pregnante ed emotivamente suggestivo da travalicare la propria origine e replicarsi nell’immaginario antico e moderno, nell’arte e nella letteratura.

  

L’arte l’ha più volte rappresentato, ad esempio con Canova, Klimt e Picasso, che negli anni tra il 1933 e 1935 ne è stato affascinato, dedicandogli molti disegni, tra cui l’enigmatica acquaforte Minotauromachia:

 

Pablo Picasso, Museo of Modern Art - New York

 

William Blake e Gustavo Doré l’hanno dipinto come illustrazione del XII Canto dell’Inferno, in cui Dante mette il Minotauro a guardia del cerchio dei violenti:

Gustavo Doré
William Blake

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa

che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca.

Lo savio mio inver’ lui gridò: "Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?

Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene".

Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,

vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: "Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale”

Basterebbero questi versi danteschi che ancora replicano l’immagine classica di una creatura mostruosa a dimostrare la presenza del mito del Minotauro nella letteratura, tuttavia bisogna pur rilevare che è proprio nel ‘900 che il mito si ridesta e acquista una nuova pregnanza di senso, tentando di comprenderne il perché.

Molti sono gli scrittori che hanno ripreso il mito o comunque vi hanno fatto riferimento nelle loro opere, ad esempio Kazantzakis in Kouros e Gide in Teseo, ma credo che soprattutto si debba considerarne quattro: Jorge Luis Borges, Julio Cortazar, Marguerite Yourcenar, Friedrich Dürrenmatt. I testi di Borges, La casa di Asterione, e Dürrenmatt, Il minotauro, sono racconti; quelli di Cortazar, I re, e Yourcenar, Chi non ha il suo Minotauro?,  pièces teatrali.
Forse è soltanto una coincidenza o forse fu l’effetto dell’interesse che il Surrealismo suscitò per quel mito (l’importante rivista dei surrealisti francesi s’intitolava Minotaure; il titolo fu scelto da Georges Bataille e la copertina del primo numero fu disegnata da Picasso) o forse ancora se ne intuiva una qualche corrispondenza con quei malefici tempi di odio e di guerra, comunque è da rilevare che, ad eccezione del testo di Dürrenmatt, del 1985, tutti gli altri furono scritti tra il 1939 e il 1947 (ed il Teseo di Gide è del 1946); addirittura nel 1947 I re fu pubblicato pochi mesi dopo La casa di Asterione, sulla stessa rivista di Buenos Aires.

Minotaure
n. 1, 1933

 

Nella novella di Borges Asterione (altro nome del Minotauro), io narrante, è un recluso intrappolato in un mondo incomprensibile, vittima della propria alterità, che vaga solitario in una sterminata teoria di sale e corridoi, in attesa che qualcuno venga a liberarlo dalla sua vita dolente. Infatti Teseo, uscito dal Labirinto, dirà ad Arianna: «Lo crederesti Arianna? Il Minotauro non s’è quasi difeso». Eppure da quel Labirinto è possibile uscire, il Minotauro una volta ne uscì, ma solo per scoprire, mentre tutti timorosi lo fuggivano, che il mondo non ne è altro che un’espansione, o una replica, in cui “tutto esiste infinite volte, solo il Sole e Asterione esistono una sola volta”, come si trattasse di una polarità che regge l’universo (difatti il nome Asterione nella sua etimologia rimanda al cielo stellato, dunque alla notte) e che lui malinconicamente accetta, nuovamente rintanandosi nel luogo che gli è destinato, reietto nella propria sofferenza. Finché non giungerà un eroe, redentore dell’umanità, che la sua natura mostruosa oltraggia, a porre fine al suo dolore.

Cortazar disfa e altera il mito, trasformando il Minotauro in una sorta d’ingenuo sognatore, libero nella sua labirintica prigione di immaginarsi amato da quei giovani che vi accoglie e con cui gioca e danza (infatti quando lo incontrerà di  Teseo rimprovera il disprezzo: «qui ero specie e individuo, cessava la mia mostruosa discrepanza. Ritorno alla mia duplice condizione animale solo quando mi guardi»); ma sarà vittima dell’alleanza tra un re tirannico, Minosse, che nel re ateniese vede il modo di liberarsi finalmente del mostro, e un puerile Teseo, bramoso di azione e fama. Solo Arianna lo ama, prova per lui un segreto e intenso sentimento; perciò chiede a Teseo ragione della sua ambizione omicida: «Perché lo temi? È mio fratello», ricevendone la sprezzante risposta: «Un mostro non ha fratelli», ovvero non può recare in sé germi di umanità. Proverà a salvarlo, ingannando Teseo: infatti il gomitolo che gli consegna non deve servire a lui bensì al Minotauro, che dopo averlo ucciso potrà così finalmente uscire dal Labirinto; ma non sa che il fratello accetterà di morire, senza difendersi, senza combattere, poiché questo è il modo di affermare la propria verità, che Teseo non può comprendere ma neanche distruggere:

sembra come se tu guardassi attraverso di me. Non mi vedi con i tuoi occhi. Non è con gli occhi che si affrontano i miti. Neppure la tua spada mi si addice. Dovresti colpire con una formula, un salmo: con un altro racconto …. guarda, c’è solo un mezzo per uccidere i mostri: accettarli.

Chi non ha il suo labirinto? della Yourcenar è un testo complesso, che oscilla tra la forma della farsa, tant’è che Antolico, il compagno di Teseo, pare svolgervi la funzione comica del servo astuto che asseconda inganni ed equivoci, e la messa in scena di un caso clinico, dove il Labirinto è il luogo dell’inconscio; il personaggio di Teseo è un eroe degradato, traditore di Arianna e del padre, più confuso che determinato all’azione, intento soprattutto ad ingannare una sdegnosa Arianna che lo rifiuta, consapevole che un dio, Dioniso, l’attende, per realizzare il suo destino sovrumano (d’altronde nel mito ella è ben più che una giovane donna, perché vi traluce la sua identificazione con l’omerica potnia theron, la divina Signora del Labirinto). Il Minotauro è soprattutto il segno di un’assenza, l’abisso in cui riverbera la propria interiorità; perché nel Minotauro Teseo incontra se stesso, in un grottesco percorso tra le mura labirintiche che è piuttosto un angoscioso smarrimento nella memoria, tra lacerti di passato e voci premonitrici, ombrosi ricordi e paure. Quel che dentro il Labirinto è successo svanisce infine nell’ellissi narrativa: c’è stato un duello? È morto il Minotauro? Tutto è confuso, Teseo è ansioso di tornare ad Atene per farsi re, liberarsi di Arianna, prendersi Fedra; non ha veramente compreso l’accaduto, cioè che nel Labirinto, come dirà Bacco ad Arianna, «Teseo ha visto Teseo».

Il Minotauro di Dürrenmatt è un bruto innocente, privo di pensiero astratto, inconsapevole della propria bestialità: un mostro con la mente di un bambino; e come un bambino, recluso in un labirinto di specchi che all’infinito riverberano la sua immagine, egli non sa riconoscerla, perso nell’illusione d’essere eguale tra eguali, credendo di non essere solo, giocando con le sue illusioni e per gioco uccidendo le sue vittime, senza ragione e senza malvagità, «perché non sapeva cos’era la vita e cos’era la morte». È in questa sorta di mise in abyme claustrofobica che avviene l’incontro con Teseo, che indossa una testa di toro per ingannarlo, per farsi credere simile mentre è al contrario proprio la funesta alterità che dissolve nella morte la gioia del Minotauro, ancora una volta disposto a giocare e invece costretto a soccombere nella rabbia e nel dolore, con l’ultimo disperato desiderio d’essere un uomo. Ma è proprio questo il sogno impossibile, il riflesso della sua necessaria colpa:

l’esistenza di uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto, per ricadere nel caos da cui era scaturito.

Benché ognuno di questi autori abbia rielaborato il mitema del Minotauro inseguendo una propria fascinazione, quindi secondo differenti prospettive, antropica, metafisica e psicoanalitica (la più diffusa, che del Minotauro fa una metafora dell’inconscio e della sua morte una vittoria dell’Ego sull’Es) le loro riscritture tuttavia esprimono alcuni punti in comune: il mostro non è davvero un mostro, bensì una vittima, il capro espiatorio di altrui passioni, paure ed egoismi; i mostri sono altri, e tra gli altri il primo è Teseo, eroe svilito inutilmente eroico, poiché il Minotauro non offende né si difende (in Dürrenmatt perché è innocente, in Borges perché è inerme, in Cortazar perché è un essere intellettualmente superiore, in Yourcenar perché è assente); Arianna invece assume un ruolo primario, sia per la sua intermediazione col mondo divino, sia per la sua capacità di comprendere ciò che supera le apparenze; infine i quattro autori, implicitamente o esplicitamente, rappresentano l’incontro col Minotauro come un fenomeno anamorfico, uno specchiarsi in lui che deformando la nostra immagine ci fa riconoscere per quel che veramente siamo.

Ecco dunque Dürrenmatt che scrive: «Teseo stesso è il minotauro e ogni tentativo di venirne a capo col pensiero (…) è una battaglia che si combatte contro se stessi», Cortazar gli fa avvertire Teseo: «tu ti sminuirai, conoscendomi sarai meno, andrai precipitando in te stesso come si sgretolano a poco a poco i dirupi e i morti» e la Yourcenar intitola la sua piece Chi non ha il suo Minotauro?, per palesare che il mostro è in ognuno di noi. Dunque i quattro autori, infine, convengono con il giudizio che Albert Camus espresse in Il Minotauro: «per essere risparmiati, bisogna dire “sì” al Minotauro». Il senso del mito è rovesciato.

Ma quale senso? Per quanto ci si sforzi di comprenderlo il mito si ritrae, sprofonda in una tenebra arcaica a cui il nostro pensiero di moderni può tentare di accedere soltanto per allusioni, evocazioni, estrapolazioni, per questo conviene rinunciare alla pretesa di una decifrazione univoca; ciò vale anche, e soprattutto, per il mito cretese, il cui fondo enigmatico (il labirinto è l’archetipo dell’enigma), dove si agitano primordiali forze vitali e spirituali, ci è ignoto. Perciò non dobbiamo confondere mito e mitografia, dimenticando che il Minotauro è giunto a noi attraverso molteplici versioni, la più diffusa delle quali è quella che abbiamo letto nei versi di Dante, d’un ibrido bestiale stolto, feroce e violento; ma questa è già la base della sua rappresentazione moderna, così come verrà rappresentata da Antonio Canova:

Antonio Canova, Teseo e il  Minotauro - Victoria and Albert Museum, Londra

 

Teseo è rappresentato dopo il duello seduto rilassato sul mostro che ha appena ucciso, come un cacciatore scruta con distacco la sua preda, che giace scomposta ai suoi piedi, morta. E’ evidente che il gruppo marmoreo del Canova nelle forme anatomiche e nella postura di Teseo intende rappresentare un ideale di umanità, la compiuta eccellenza di un individuo forte e virtuoso che ha realizzato la sua impresa, la «nobile semplicità e quieta grandezza» che per Winckelmann, il nostalgico teorico del Neoclassicismo, erano le caratteristiche dell’uomo greco; egli è dunque l’espressione della kalokagathìa, la perfezione fisica e morale, l’armonica unione di bellezza e bontà che è la virtù dell’eroe. Ma la kalokagathìa, originariamente attitudine che descrive il guerriero, non concerne soltanto l’uomo bensì anche il mondo: è la sua armonia, il suo estetico ordine cosmico (come per primi immaginarono i Pitagorici e poi Platone suffragò con la sua filosofia); perciò può dirsi che l’opera, mentre rappresenta la vittoria dell’eroe sul mostro,  conseguentemente allude all’imposizione dell’ordine del mondo sul disordine, alla rimozione dell’animalità dall’essere umano, alla affermazione della ragione sull’irrazionalità degli istinti animaleschi. E’ questa la moderna versione illuminista del mito, in cui il Minotauro simboleggia la caotica vitalità naturale e Teseo colui che ne recide il legame con l’essere umano, fondando la civiltà.

Questa versione è una componente di quella che Giorgio Agamben ha definito la “macchina antropologica”, ovvero quel complesso processo culturale che nel divenire del pensiero occidentale ha costituito l’antinomia natura-cultura, elaborando l’immagine di un essere umano come eccezionalità biologica che gode di una posizione centrale nel mondo, risultato di una cesura tra vita animale ed umana, da cui conseguono una metafisica (appunto un andar oltre, meta, la natura, physis) e una ontologia umanistiche, di cui l’esposizione più efficace nella sua sintesi, benché da aggiornare con l’approdo del pensiero alla dimensione della laicità e soprattutto con la teoria dell’evoluzione, è ancora la suggestiva Oratio de dignitate hominis di Pico della Mirandola. Ma questa macchina funziona sempre meno, perché la cesura animalità-umanità non sembra più tanto evidente: sottoposta alle critiche concentriche della teoria dell’evoluzione, dell’antropologia, della filosofia animalista, della svolta ecologica indotta dalla crisi della società industrializzata, appare sempre più labile (ad esempio gli studi neurologici e psicologici stanno notevolmente ridimensionando la funzione del pensiero autocosciente, principale discriminante nella definizione di umanità, rispetto alla cognizione inconscia). Di ciò è un segnale rilevante anche il ribaltamento letterario della figura del mostro, che comincia a manifestarsi nel corso del XIX secolo, col romanzo di Mary Shelley Frankestein, in cui il mostro perde la propria connotazione di bestialità ed inumanità, che piuttosto si trasferisce negli uomini, che inseguono sogni, anzi: incubi di smisurata potenza sulla natura; esemplare tuttavia è il successivo romanzo di Wells L’isola del Dottor Moreau, dove i mostri non sono più il prodotto di un arcaico miscuglio di umano, divino e animale, bensì dei terribili esperimenti di uno scienziato, che dagli animali produce ibride creature artificiali: perciò vittime, esse come la “cosa” di Frankestein, di umane mostruosità.

Dunque mi pare evidente che i quattro testi di Borges, Cortazar, Yourcenar e Dürrenmatt possano proprio essere interpretati come un ulteriore sviluppo letterario della complessa dialettica tra l’umano e l’inumano, in cui Teseo e il Minotauro si scambiano i ruoli: l’eroe dissolvendosi nel mostro e il mostro diventando il martire dell’affermazione dell’alterità umana. Così come l’ombra di Banco perseguita Macbeth, il Minotauro riemerge dal suo mitico passato per divenire ora la personificazione della colpa dell’esodo dell’essere umano dalla natura, di cui vuol farsi signore. Con esiti che ora si palesano funesti.

 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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