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Medusa

di Tiziano Gorini

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È recentissimo, del 2021, il romanzo di Hanna Lynn Il segreto di Medusa, in cui Medusa è descritta prima come una bellissima giovane che il padre, per sottrarla alle bramose mire degli uomini, induce a divenire una sacerdotessa del tempio di Atena, ruolo che svolge con pietosa saggezza; poi come la duplice vittima della violenza sessuale del dio Poseidone e dell’ira della dea, che la ritiene invece concupiscente e perciò profanatrice del suo tempio, trasformandola per punizione in un mostro anguicrinito dallo sguardo mortale; infine come una dolente e disperata assassina di tutti quei guerrieri che vorrebbero ucciderla per guadagnarsi la fama di eroi esibendo la sua testa, che infine offre a Perseo in un volontario e liberatorio sacrificio.
Pare che il romanzo sia stato un successo editoriale, a me è sembrato solo una rielaborazione piuttosto banale e un po’ melodrammatica del mito così come è stato narrato da Ovidio nel IV libro delle Metamorfosi:

                                           …di eccezionale bellezza,
Medusa fu desiderata e contesa da molti pretendenti,
e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei capelli:
ho conosciuto chi sosteneva d'averla vista.
Si dice che il signore del mare la violasse in un tempio
di Minerva: inorridita la casta figlia di Giove con l'egida
si coprì il volto, ma perché il fatto non restasse impunito
mutò i capelli della Gòrgone in ripugnanti serpenti.
Ancor oggi la dea, per sbigottire e atterrire i nemici,
porta davanti, sul petto, quei rettili che lei stessa ha creato.

Però è interessante comprendere come è stato possibile che un terribile mostro sia infine divenuto il protagonista di un dramma femminile, quasi la simbolica rappresentazione di un femminicidio, ancorché voluto dagli dei e compiuto da un semidio.

Il mito è l’espressione originaria dell’emergenza dello spirito umano, che accompagna nella sua evoluzione; perciò, nonostante le menti illuminate lo rifuggano, preferendo la forza argomentativa del logos al fascino narrativo del mythos, è sempre pronto a nuove narrazioni, disponibile a rappresentare le nuove esigenze culturali, intellettuali, perfino politiche della società; così, ad esempio, Ercole può diventare il  simbolo della potenza dell’essere umano nel mondo e Dedalo della sua  moderna avventura tecnologica, Sisifo la personificazione delle sue angosce esistenziali e il Minotauro la vittima della sua innaturale arroganza. Sigmund Freud ha prelevato dalla mitologia Edipo per essere tramutato nel fondamentale emblema concettuale della propria psicologia, il protagonista del romanzo della psicoanalisi (perché a me questo pare, piuttosto che una teoria scientifica); ma nel suo uso, o abuso, del mito, alla ricerca di una sua corrispondenza con la nevrosi, Freud ha studiato pure Medusa, seguito in ciò da Sandor Ferenczi, deducendone, sia pure ipoteticamente, che la sua storia è la rappresentazione favolosa della paura dell’evirazione; cosicché qualche epigone solerte ha cominciato a parlare di complesso di Medusa.

Tuttavia, poiché nella psicoanalisi la maschile angoscia dell’evirazione del pene s’appaia con la sua presunta invidia femminile, c’è stata una reazione da parte di una filosofa, che evidentemente tale invidia giudica una forma di subdolo maschilismo, che ha ribaltato il senso del mito, facendo di Medusa un’icona femminista: è Helene Cixous, che dalla rilettura critica di Freud ha ritratto, in Il riso della Medusa, una Medusa ribelle agli uomini. Probabilmente il romanzo della Lynn è da inserire in questo nuovo orizzonte culturale femminile e femminista.

Ma l’evoluzione di questo mito è più complessa, la mutazione di Medusa più intrigante, il modo e il tempo in cui avviene sono connessi col Romanticismo. D’altronde Medusa ha la morte negli occhi e dunque, per chi ama la morte, come i romantici, non può non essere terribilmente affascinante. Il primo fu Shelley, nel 1819: contemplando a Firenze una testa di Medusa -  allora erroneamente attribuita a Leonardo - ne fu talmente estasiato da dover esprimere in una poesia, On the Medusa of Leonardo da Vinci in the Florentine Gallery, il proprio sentimento di fronte a quel volto da cui promanava «la grazia tempestosa del terrore», come recita l’ultima strofa:

It lieth, gazing on the midnight sky,
upon the cloudy mountain-peak supine;
below, far lands are seen tremblingly;
its horror and its beauty are divine.
Upon its lips and eyelids seems to lie
loveliness like a shadow, from which shine,
fiery and lurid, struggling underneath,
the agonies of anguish and of death.

Yet it is less the horror than the grace
which turns the gazer's spirit into stone,
whereon the lineaments of that dead face
are graven, till the characters be grown
into itself, and thought no more can trace;
'Tis the melodius hue of beauty thrown
athwart the darkness and the glare of pain,
which humanize and harmonize the strain.

And from its head as from one body grow,
as grass out of a watery rock,
hairs which are vipers, and they curl and flow
and their long tangles in each other lock,
and with unending involutions show
their mailèd radiance, as it were to mock
the torture and the death within, and saw
the solid air with many raggèd jaw.

And, from a stone beside, a poisonous eft
peeps idly into those Gorgonian eyes;
whilst in the air a ghastly bat, bereft
of sense, has fitted with a mad suprise
out of the cave this hideous light and cleft,
and he comes hastening like a moth that hies
after a taper; and the midnight sky
flares, a light more dread than obscurity.

'Tis the tempestuous loveliness of terror;
for from the serpents gleams a brazen glare
kindled by that inextricable error,
which makes a thrilling vapour of the air
become an ever-shifting mirror
of all the beauty and the terror there -
a woman's countenance, with serpent-locks,
gazing in death on Heaven from those wet rocks.

Giace fissando il cielo della mezzanotte, supina
su una vetta montana annuvolata; più sotto,
possono scorgersi terre lontane e tremolanti;
l'orrore e la bellezza sono in lei divini.
Sulle sue labbra e le palpebre sembra posarsi
la grazia come un'ombra, da cui splendono
livide e ardenti, che sotto si dibattono,
le agonie dell'angoscia e della morte.

Pure è meno l'orrore che la grazia a volgere
in dura pietra lo spirito di colui che osserva,
là dove i lineamenti di quella morta faccia
sono scolpiti, finché tutti i caratteri si mutano
a diventare lei stessa, e perfino il pensiero li smarrisce;
è il melodioso colore della bellezza, gettato
attraverso le tenebre e il bagliore della pena,
che fa umana e armoniosa l'impressione.

E dal suo capo sorgono, come da un unico corpo,
pari all'erba che spunta da un'umida roccia,
chiome che sono vipere, si torcono, fluiscono,
intrecciano i lunghi grovigli fra loro,
e infiniti viluppi mostrano uno splendore di metallo
quasi a irridere la morte e le torture intime,
e con le loro mandibole scheggiate
segano l'aria solida.

E da una pietra accanto un velenoso ramarro scruta ozioso quegli occhi di gorgone,
mentre nell'aria, attonito, un pipistrello orrendo
è svolazzato con folle sorpresa da quella caverna
dove la luce spaventosa era entrata violenta,
e si precipita come farfalla notturna
dietro una fiaccola; e il cielo della mezzanotte
ondeggia balenando, una luce assai più terrificante
di quanto non lo sia l'oscurità.

è la grazia tempestosa del terrore; poiché dalle serpi
lampeggia un bagliore di rame, attizzato
in quegli avvolgimenti inestricabili, che muove
attorno un vapore vibrante dell'aria, e lo rende
un sempre mutevole specchio di tutta la bellezza
e di tutto il terrore di quel capo: il volto d'una donna
di chiome serpentine che nella morte fissa gli occhi al cielo dell'alto dell'umide rocce.

 

È evidente che la  Medusa romantica di Shelley (a cui dovrebbe accostarsi la Lamia di John Keats) è ben lontana dal mitico mostro, di cui è piuttosto un’ulteriore trasfigurazione, esito di una evoluzione letteraria che ne ha perduta l’originaria dimensione religiosa, antichissima; è questa rappresentazione che ha notevolmente contribuito a determinare la sensibilità artistica moderna, a ispirare narrazioni e personaggi di cui è indubbia la parentela che li lega a Medusa, come il tipo decadente della femme fatale, quale si evolve nella letteratura tra Ottocento e Novecento; basti pensare ad esempio alla Fosca di Iginio Tarchetti, alla Nastasija Filippovna di L’idiota di Dostojevskij, alla Ippolita Sanzio di Il trionfo della morte di D’Annunzio (in cui il riferimento è esplicito: “immagine terribile e quasi gorgonea della donna”).

Non solo Shelley ma anch’io ammirando la testa di Medusa ne restai impressionato, colto da un’incombente inquietudine spirituale. Però quella che ho visto io era quella di Caravaggio e, diversamente dal poeta inglese, non fui colpito dalla sublime ambivalenza di bellezza ed orrore, bensì dal suo sguardo, in cui mi pareva di intravedere un enigma.

Come dimostra Ovidio già nell’età classica greca da creatura mostruosa Medusa si era trasformata in una bella e giovane donna, tanto da far invaghire il dio Poeseidone, che la possiede in un tempio dedicato ad Atena, la quale per vendicarsi prima le muta la chioma in serpenti e le rende lo sguardo pietrificante, mentre dopo sarà d’aiuto a Perseo per ucciderla, ricevendone in dono la testa recisa, che la dea pone sul suo scudo; ma già Esiodo nella Teogonia ha iniziato la trasformazione:

E Ceto partorí le Graie bellissime a Forci,
che dalla nascita sono canute, e le chiamano Graie
gli uomini che sulla terra si muovono, e i Numi del cielo:
Penfredo dal bel peplo, con Enio dal peplo di croco;
e le Gorgóni che stanno di là dal famoso Oceàno,
verso la Notte, agli estremi confini, ove, garrule voci,
sono I’Espèridi: Stenno, Euríale e Medusa funesta.
Era mortale questa, immuni da morte o vecchiezza
le prime due: con quella, sui fiori d’un morbido prato
a Primavera, il Nume s’uní dalla chioma azzurrina.
E quando a lei Persèo dal collo recise la testa,
il grande ne balzò Crisàore, e Pègaso

Bella, per Esiodo, ma comunque “funesta”; e anche per Omero: infatti quando Ulisse incontra le ombre dei morti nell’Ade teme il loro affollarsi per parlargli e il tempo che trascorre, per cui se ne va, preso dal «terrore che la gloriosa Persefone mi mandasse dall’Ade la testa della Gorgone, orrenda, mostruosa». Γοργειην κεφαλην: la testa di Medusa necessariamente riporta al gorgoneion, dunque alla sua atavica mostruosità, come si mostrava – ad esempio – nel tempio di Apollo a Siracusa.

File source: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gorgoneion_Syrakus.jpg

Il gorgoneion in origine era una maschera apotropaica raffigurante appunto la Gorgone nel suo aspetto terribile: gli occhi spalancati, lo sguardo furente, la lingua sporgente, i serpenti attorcigliati attorno al capo; un’iconografia arcaica, forse addirittura - se la genealogia ipotizzata da Marija Gimbutas è corretta - risalente al Neolitico, che rimanda a culti primordiali, alla Grande Madre e successivamente alle intrecciate divinità della minoica Signora dei Serpenti e delle olimpiche Demetra, Atena e Artemide. Nel suo studio su Medusa Jean-Pierre Vernant ha colto una interessante corrispondenza tra il suo rabbioso sguardo e quello del guerriero posseduto dal mēnos, il furore della carneficina, come si legge nell’Iliade: «Ettore intanto andava tutt’intorno i cavalli dalla bella criniera, con lo sguardo di Gorgone o di Ares sterminatore», un ardore bestiale, una ferocia bramosa di sangue che trasfigura il guerriero, il quale da essere umano ritorna belva; perciò Medusa si deve collocare in quella zona del soprannaturale che contamina l’umanità e l’animalità, la natura e la civiltà, dissolvendone i confini, risucchiando col suo sguardo mortale verso un’alterità inconscia e primordiale, di cui l’impetramento è il segno ulteriore.

Ma torniamo a Caravaggio. Nel Barocco il mito di Medusa, così consonante con l’estetica dell’epoca, fu spesso rappresentato; perciò di quello sguardo ne abbiamo molte versioni, tra cui quello ancor minaccioso di Annibale Caracci, quello dolente del busto di Bernini e quello raccapricciante di Rubens.


Annibale Caracci
Perseo e Fineo (particolare)
Palazzo Farnese, Roma

Gian Lorenzo Bernini Medusa
Musei Capitolini, Roma

Pieter Paul Rubens
Medusa
Kunsthistorisches Museum, Vienna

 

Ma nessuno ha la forza espressiva della Medusa caravaggesca.
Che nella pittura di Caravaggio, caratterizzata da un potente realismo, perfino brutale, il tema della decapitazione sia rilevante nonché in qualche modo congiunto alla sua storia interiore è indubbio; non soltanto è il soggetto di tre sue grandi opere: Giuditta e Oloferne, Davide con la testa di Golia, Decollazione del Battista, ma è verosimile che il volto di Oloferne sia il suo, che quasi certamente sua sia la testa che Davide tiene con la mano, che infine - dettaglio bizzarro ed ermetico - il sangue che sgorga dalla gola del Battista diventi un rivolo che disegna la firma del pittore nel fondo del quadro; è inoltre probabile che in Giuditta sia raffigurata Beatrice Cenci, alla cui decapitazione a Roma egli assisté. È altrettanto probabile che proprio quel drammatico e crudele spettacolo gli consentì di raggiungere un effetto espressivo così impressionante nella sua raffigurazione della testa di Medusa. Ma, come vedremo, il punto essenziale è la scelta di cogliere il momento in cui la decapitazione avviene, nella sua dinamica tragicità, come già aveva fatto in Giuditta e Oloferne:

Caravaggio
Giuditta e Oloferne (particolare)
Galleria Nazionale, Palazzo Barberini, Roma


Nello scudo in cui ha dipinto Medusa Caravaggio fa la stessa scelta: la ritrae nell’attimo in cui Perseo la decapita

 

Caravaggio
Scudo con testa di Medusa
Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Nel volto di Medusa nel momento in cui la testa è recisa Caravaggio rappresenta quell'attimo sospeso tra la vita e la morte, ci mostra uno sguardo terrorizzato; tuttavia in quel tremendo sguardo a me pare - ma è ovvio che si tratta di un’impressione soggettiva, che può non essere condivisa e dunque negata - che si esprima oltre al terrore anche stupore, come se nel momento della morte Medusa scoprisse un evento inatteso e imprevedibile. Forse, suppongo, quello sguardo disperatamente stupito è l’effetto della sorpresa per un "tradimento" inaudito, l’espressione somatica di una domanda: «Sono uccisa da un uomo. Perché!?».

Aver percepito questa domanda in quegli occhi mi ha inquietato, mi ha ingiunto non solo di ripensare il mito, ma anche quell’umanesimo antropocentrico che ne è l’implicito esito; ammetto che essendo il risultato di una personale interpretazione la conseguente supposizione rischia d’essere aleatoria, ma corro il rischio e azzardo la risposta a quella domanda: il mostro è ucciso perché l'uomo vuole un mondo soltanto umano.

L’immaginario è popolato di mostri, sin da quando emersero dal pensiero arcaico, sin da quando nel Paleolitico i Sapiens impararono a dar forma ai loro pensieri, a scolpire e a dipingere negli anfratti delle grotte; ad esempio nella grotta di Stadel, dove si trova la statuetta di una figura dal corpo umano e la testa leonina, risalente a 32.000 anni fa; nel mito, che di quel pensiero è l’evoluzione antropologica e  storica, la loro presenza è consueta; quasi sempre in forma di ibrido, cioè una creatura risultante da una contaminazione tra divino, animale e umano, di cui gli eroi come Teseo, Perseo, Ercole, Giasone, sono gli assassini; l'uccisione dei mostri è dunque l'atto simbolico che recide quella contaminazione, la prima manifestazione del dispiegarsi nel mondo della centralità dell’umano, una rinascita che per realizzarsi deve rimuovere il proprio passato animalesco. Ma il mostro possiede un carattere sacro, per cui non lo si può uccidere impunemente, la sua morte richiede una purificazione, che è di fatto il segno della coscienza del tradimento, della colpa d’aver infranto un ordine cosmico, dell’aver tracciato una frontiera tra sé e la natura. Cosicché, infine, il mostro diviene una sorta di cattiva coscienza dell’umano, un doppelgänger celato nell’ombra dello spirito, ma pronto a ricomparire per rivendicare un antico legame, come farà la Creatura con Frankestein, quando lo incontrerà nella caverna alpina e gli ingiungerà: «Ascolta la mia storia.»

 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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