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Il terzo uomo. Una poesia di Montale

di Tiziano Gorini

Nella categoria: HOME | Letture stravaganti

 

Nel suo lungo e complesso esodo dalle originarie fonti epiche e narrative la poesia contemporanea si è pressoché rinchiusa e conclusa nella dimensione lirica, assegnandosi la funzione gnoseologica di conoscere ed esprimere l’ignoto trascendente il mondo, attraverso i tormenti e le estasi di un Io poetico, come affermò Rimbaud nella sua Lettre du Voyant e mirabilmente confermò Ungaretti in poesie quali Commiato e Il porto sepolto. Comunque questa funzione si esplichi: nella sommessa intimità del fanciullino pascoliano, nell’eloquente superominismo dannunziano o nell’umanità risentita degli ermetisti, essa è, dal Romanticismo in poi, il fondamento della poesia e l’attestazione del ruolo sociale del poeta.

Perciò rappresenta invece una sua significativa e innovativa eccezione novecentesca il ripudio dichiarato da Eugenio Montale in Non chiederci la parola, testo che si trova in Ossi di seppia, che alla poesia sottrae l’illusione rivelatrice e la spoglia della sua salvifica sacralità.

 

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

 Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti:
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

 

Questa poesia è un implicito dialogo, in cui c’è un poeta che chiede al suo interlocutore di non domandargli di svelare il mistero dell’esistenza; dunque è un interlocutore presente eppure silente, perché si limita ad ascoltare una dichiarazione di ignoranza e impotenza. Infatti il poeta afferma di non conoscere la “formula che mondi possa aprirti”, di poter dire soltanto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”; la sua dunque è una poesia misera, che non sa esprimere verità e perciò è solo “qualche storta sillaba e secca come un ramo”. E’ – fu detto – una poetica del negativo e l’enunciazione della caduta del poeta vate, che da bardo degli dei  si riduce a cantastorie del male di vivere; perciò, giustamente, questo testo ha una rilevanza particolare nella storia della letteratura.

Tuttavia io non la trovo interessante soltanto per le domande né per le assenti risposte, bensì perché credo conservi in sé un enigma. E io amo gli enigmi, mi riconciliano con il lato oscuro della ragione, laddove tra i tanti cigni bianchi s’annida un cigno nero.

La poesia è composta da tre strofe; nella prima e nella terza ci sono questo io e questo tu a drammatico confronto, che si riconoscono simili nella loro esistenziale e morale inettitudine, nella comune tormentosa assenza di certezze; tra le due strofe c’è una coerente consequenzialità, quasi una simmetria, poiché i primi due versi della terza sono una replica e un’integrazione (il termine “formula” sovrapposto a “parola” ne estende il senso) di quelli della prima, mentre il terzo e il quarto dichiarano  il negativo  compimento dell’abdicazione poetica.
Ma la consequenzialità tra le due strofe è interrotta dall’apparente incongruenza della seconda strofa, dove si intromette, enigmaticamente, un terzo uomo. A introdurlo, in una fugace apparizione che par quasi una distrazione, è il poeta ignorante, che evoca questa figura come fosse un pensiero, un ricordo o, forse, un monito, per poi tornare a non rispondere al suo interlocutore nella successiva e ultima strofa. Ma chi è? Perché c’è? Certamente la sua funzione è di inscenare un tipo umano antagonista all’altro tipo rappresentato dall’io e dal tu; come dire: noi, io e tu, abbiamo un problema perché ci comportiamo così, guarda invece lui, l’altro, che si comporta differentemente; però è assente la risoluzione dell’antagonismo, in quanto appena evocato il terzo uomo subito svanisce, come un sogno al risveglio mattutino: dimenticato, ingiudicato. Perciò è difficile comprendere perché sia stato evocato così enfaticamente, con una esclamazione. Ricostruire la contrapposizione sembrerebbe facile: quest’uomo se ne va sicuro, noi no; quest’uomo è amico di sé e del suo prossimo, noi no; quest’uomo non si cura della sua ombra, noi sì. Ma chi è nel giusto: noi o lui? Dentro la poesia c’è, implicita, questa essenziale domanda, più essenziale delle altre esplicite perché la sua risposta potrebbe vanificarle, eppure la risposta sembra non esser data.

L’interpretazione vulgata, quando non si distrae e s’accorge dell’importanza del terzo uomo, ritiene che sia l’ingenuo credente nella certezza dell’apparenza, che perciò non ha dubbi e paure e risentimenti, adagiato nell’effimera visione di un mondo stagliato nella luce meridiana. Un illuso, insomma. Ovviamente per questa interpretazione bene invece fanno gli altri due uomini a dubitare e temere e risentirsi, poiché questa è la giusta condizione dell’uomo che riconosce la trascendenza, il mistero dell’essere, la dimensione di una esistenza che ha altrove il proprio senso. Un’interpretazione più attenta invece ne riconosce l’ambivalenza, l’intrigo tra il pietoso disprezzo per chi vive nella stato della illusoria falsità, e l’invidia per la serenità che per quanto vana essa elargisce.
Io suppongo possibile un’altra lettura, che non dimentica il nesso col “rovente muro d’orto” dell’altra poesia di Ossi di seppia: Meriggiare pallido e assorto, che nella sua ultima strofa così si conclude:

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

La scena è la stessa: un uomo che cammina accanto ad un muro, allegoria di un’esistenza condannata a convivere con un ostacolo metafisico: il muro ora è una muraglia insormontabile che cela il mistero; però in Non chiederci la parola è diventato “scalcinato”, non incombente o minaccioso, nonché elemento marginale, poiché l’essenziale è quell’ombra che vi si staglia, di cui si può scegliere di averne cura, come accade al viandante di Nietzsche in Il viandante e la sua ombra, o di ignorarla. Ma qual è la scelta giusta?

Io propendo per la distrazione, come fa il terzo uomo, ma ammetto che la propensione non è sorretta da valide prove, bensì solo da una soggettiva valutazione della poetica di Montale, perché oggettivamente l’ambivalenza sarebbe irrisolvibile. Ma scelgo di rischiare, basandomi su un pur labile elemento testuale: quell’esclamazione con cui inizia la seconda strofa.
In fondo il valore da attribuire al terzo uomo poggia totalmente su questa esclamazione che lo introduce: Ah l’uomo che... Il significato di un’esclamazione dipende dal tono con cui è pronunciata, ovvero da ciò che in linguistica è definito un tratto soprasegmentale del discorso, evidente e determinante quando si parla, assente quando si scrive. Poiché a seconda dell’inflessione può essere intesa come l’espressione di diversi atteggiamenti: pregare, sospirare, desiderare, beffare, aborrire, ecc., in questa poesia potrebbe indicare o il disprezzo o l’invidia. Se esprimesse invidia allora la soluzione dell’antagonismo dovrebbe essere rovesciata: illusi sarebbero il poeta e il suo interlocutore, vittime di una trascendenza che li opprime rendendoli dubbiosi e insicuri col suo inganno, nel quale invece l’altro uomo non è caduto. Egli dunque è il tipo umano ideale da cui trarre l’esempio per una buona vita.
Questa lettura – dicevo – è possibile, ma non verificabile, perché non possiamo sapere come Montale avrebbe pronunciato quell’esclamazione: nessuno glielo ha chiesto, perciò l’enigma rimane. Ma siccome la poesia di Montale è caratterizzata da continue tentazioni di intravedere il trascendente e il soprannaturale che poi puntualmente vengono ironicamente corrose da uno scetticismo di fondo, personalmente la ritengo attendibile, nonché – e spiegherò perché – preferibile. D’altronde quel suo scetticismo è evidente e persistente, il rifiuto della trascendenza spesso dichiarato nei suoi versi,  ad esempio nella poesia Tra chiaro e scuro, dove scrive: “la nostra mente fa corporeo anche il nulla” (che mi pare la migliore tra le descrizioni della metafisica).

Comunque l’opera letteraria quand’è compiuta si libera del suo autore e s’offre all’azzardo di molteplici letture. Perciò io interpreto quell’esclamazione come un invidioso sospiro e quindi giudico questo testo come un elogio della superficialità, un rifiuto delle ossessioni trascendentali, religiose, metafisiche o esistenziali che siano, le quali ergono muri e muraglie per dividere questo mondo da quell’altro ipotetico, di cui hanno fatto un idolum specus. Scrutare l’ombra risveglia il fascino del negativo, istiga al sospetto del mondo e all’inimicizia della vita; credere nell’altrove e nell’altro induce ad immaginarsi una folla di metafore che evocano il mistero, che altro non è che l’angosciosa espressione del sentimento del limite della nostra esistenza e del desiderio di superarlo.
Questo è lo stigma dell’uomo occidentale formatosi nel problematico miscuglio di platonismo e cristianesimo, ammaliato dall’oscurità, dall’infinito e, infine, dall’inconscio, sempre alla ricerca dell’ignoto ultramondano, di un qualche deus absconditus che ammalia l’intelletto.
E per farlo si gioca l’anima, come Faust. Ecco perché preferisco vedere nella poesia di Montale un terzo uomo  indifferente alla sua ombra, che disdegna la profondità dell’abisso che essa schiude; egli vive in ciò che l’idealista definisce apparenza, disprezzandola mentre è intento a vaticinare sull’essenza che dietro le si cela. Noi, credo, dovremmo imporci di non essere oltre l'apparenza, poiché l'apparenza è il mondo, e di scampare allo sprofondamento nei supposti arcani dell'Essere o - peggio ancora - della divinità, per esistere nella contingenza di cui siamo espressione. La superficialità consiste appunto nell’abitare in questo mondo com’è piuttosto che smarrirsi nel fantasma di un altro mondo nascosto nella profondità della trascendenza. Ovviamente per chi ne è nostalgico la condizione della superficialità sembrerà riduttiva, una sconfitta morale e gnoseologica, ma se si riflette ci si accorgerà che è piuttosto un progresso, poiché finalmente la positiva competenza analitica sviluppata dall’intelletto umano può rivolgersi alla concretezza esistenziale, invece di trascorrere il tempo a porre ai poeti domande a cui non si possono dare risposte.

 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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