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Questo è il racconto di un singolare errore e, poiché gli errori sono sempre istruttivi, il tentativo di comprenderlo.
Tra i miei poeti prediletti c'è Andrea Zanzotto, perché nella sua poesia trovo un'originale espressività linguistica in cui fermenta il perturbante estenuante rapporto tra l'Io e il mondo; tra le sue opere quella che preferisco è Vocativo, perché nel suo percorso poetico ritengo rappresenti l'equilibrato punto di svolta tra la prima fase ermetica e lo sprofondare nei meandri linguistici delle opere successive; tra le poesie di Vocativo quella che più apprezzo, che spesso rammento e perfino mi recito, per ascoltarne il suono e il ritmo, è Colle di Giano. Di questa poesia soprattutto mi affascina l'incipit:
Pigro l'asse già s'inclina al nulla
Questo è il testo completo:
Pigro l'asse già s'inclina al vuoto.
Il fiato mite dei bambini,
il sole a pochi passi ma agli ultimi confini,
i fiori e gli astri raggelati ai muri.
E umido quasi messo a nudo
d'entro un sonno d'argilla
- d'entro larghe mattine di fogliame -
già con brusio di muffe e muschi e minimi
uccelli
laggiù s'intenebra il lavoro.
Spuntano tombe e campane, dilaga
da lapidi e fronti troppo lisce
pace e sgomento. Forse
solo l'affanno e il gridio dei bambini
e la trombetta che scavalca i monti,
forse solo l'amore.
Oh come, come vi parlerò?
Ma forzo il cuore, forzo gli occhi a accendersi,
ad accendere vita.
E questo, dunque, evidentissimo nella sua banalità, è l'errore: nella mia memoria ho inconsapevolmente sostituito la parola "vuoto" con la parola "nulla".
Dell'errore mi sono accorto, con notevole sconcerto, solo recentemente, rendendomi altresì conto d'essermi involontariamente infilato in una situazione un po' comica e un po' patetica. Poiché ho scoperto Zanzotto al tempo dei miei studi universitari (quando mi esaltavo per la poesia sperimentale della Neoavanguardia, benché lui - e me ne accorsi subito - con essa c'entrasse poco, pur essendo il più sincero e disperato sperimentatore) ho trascorso da allora decenni, siccome il testo non si trovava e non si trova nelle antologie scolastiche (anzi, ancor oggi talvolta proprio non c’è Zanzotto), a declamare, dettare e spiegare agli studenti Colle di Giano, mai mancando di soffermarmi su quel verso, affermando che lo ritenevo il più bello della poesia italiana contemporanea; lo stesso ho fatto sovente con qualche mio interlocutore letterario. Finché non ci sono stati Internet e lo smartphone non ci si poté accorgere del mio errore, a meno che non si andasse a leggere il libro, poi però fui io stesso ad invitare i miei studenti e interlocutori a cercare e leggere nel web il testo, quindi l'errore divenne palese. Probabilmente devo alla loro indulgenza il fatto che non m'abbiano corretto, ma posso ben immaginare cosa abbiano pensato dello sprovveduto e fallibile ermeneuta.
Cosa fatta capo ha, come disse Mosca Lamberti. L'errore è irrimediabile, tuttavia sarebbe interessante comprenderne l'origine, il motivo che l'ha provocato. Perché psicoanalisi e psicologia hanno scoperto che lapsus memoriae e lapsus linguae quasi sempre non sono meri incidenti cognitivi bensì indizi di risvolti esistenziali e psichici celati nell'inconscio o quanto meno relegati ai margini della coscienza, poiché la memoria non è un solido e stabile archivio, bensì dinamica, fluida, sensibile al mutamento, perciò quando è riattivata si presta ad inconsapevoli inferenze. Quindi il ricordo può essere deformato e ristrutturato quando, riemergendo dal passato, interagisce con esperienze, credenze, sentimenti e ragionamenti; ovvero: con la vita.
Dunque, come ci insegna la tortuosa psiche di Zeno Cosini, il ricordo può pur essere errato ma non insensato, perché ha piuttosto un senso recondito da indagare e manifestare. Quale sarà allora il senso di questa ineffabile sostituzione lessicale che la mia errabonda mente ha imposto alla poesia di Zanzotto?
L'ipotesi che primariamente mi sovviene e convince è d'esser caduto nella confusione mnemonica per una inavvertita e soggettivissima ricerca di affinamento sonoro, cioè che mi sia venuto di eliminare "vuoto" perché "nulla", col fonema a che non solo è il più frequente nel verso ma è dominante in quanto ne scandisce la cesura e col fonema n già presente nella 7° e 8° sillaba, meglio s'addice al verso. Avrei dunque, per una mia inconsapevole predilezione eufonica, imposto alla poesia di Zanzotto un supplemento di allitterazione; dopodiché potevo ben sostenere che il suo verso, ma in realtà infidamente mio, fosse il più bello. Gli chiedo un postumo perdono.
Tuttavia è evidente che l'autoinganno s'è potuto realizzare poiché le due parole condividono lo stesso ambito semantico, benché non siano sinonimi. Ciò mi costringe ad approfondire l'indagine, necessariamente deviandola, mio malgrado, dalla poesia alla filosofia; perché ambedue esprimono concetti pregnanti, che ne attraversano la storia sin dalle sue origini greche. Ci furono infatti filosofi che del vuoto sostenevano l'esistenza, come Anassimandro e Democrito, e altri invece l'inesistenza, come Anassagora e Aristotele; tutti con buone ragioni; ad esempio: se gli atomi di Democrito fluiscono nello spazio dovrà pur esserci un vuoto in cui fluire, però Aristotele può obiettare che non è possibile che un corpo si muova nel vuoto, poiché si muoverebbe all'infinito. Il disaccordo filosofico in epoca moderna si trasformò in controversia scientifica, che neanche l'esperimento di Torricelli poté risolvere, coinvolgendo i fondamenti della nuova fisica; ad esempio: se, come sosteneva Newton, la luce è un'onda, allora nel vuoto cosa mai potrebbe ondulare? Alla fine la teoria della relatività e la meccanica quantistica ci hanno descritto un vuoto che, anche nella improbabile condizione di un'assenza di materia, sarebbe comunque un pieno di campi energetici, elettromagnetici e gravitazionali. Avrebbe dunque ragione Kant, che riteneva il vuoto un ens rationis, ovvero - pare un gioco di parole - che il vuoto sia soltanto un concetto vuoto.
Cosicché il senso comune deve scoprire che la sua credenza del vuoto come assenza di cose dentro un intuitivo e indefinito spazio è solo l'effetto della nostra limitata esperienza della realtà. L'ennesimo scacco che gli ha imposto la conoscenza scientifica. Tuttavia, a complicare il problema, c'è un altro scacco, originario, inesplicabile: la coincidenza di vuoto e nulla. Si può ben dire che la filosofia è stata inaugurata dall'imperativo parmenideo: l'essere è, il non-essere non è, ovvero è nulla, quindi impensabile e inesprimibile; ne consegue che il vuoto, l'assenza di esistenza, da dilemma fisico si trasforma in dilemma metafisico, in questione ontologica; un dilemma talmente insistente e resistente che ancora nel '900 Martin Heidegger reputava che fosse il problema fondamentale della metafisica. Altri filosofi invece che fosse solo un inutile rompicapo; il neopositivista Carnap, ad esempio, riteneva che le affermazioni filosofiche sul nulla fossero solo assurdità.
Dunque che io, che per una questione di igiene mentale ho propensioni illuministiche, scopra con questa inopinata sostituzione lessicale ai danni di Zanzotto d'essermi inconsapevolmente intrigato in un problema metafisico, mi induce irritato a sospettarmi di nostalgie trascendentali, come se interiormente, rincantucciato in qualche recondito meandro della mia mente, sia ancora attivo il rovello nichilista, pronto a cogliere l'occasione per manifestarsi.
Il nichilismo moderno è l'esito del tentativo, incurante dell'ammonimento di Parmenide, di pensare il nulla; tale tentativo, che Nietzsche definì una "torturante tensione", si è esplicato in contorsioni logiche (cosa può essere predicato di un soggetto inesistente?), ontologiche (come può il niente produrre l'ente?) ed etiche (se nulla è vero, tutto è permesso?), e si è storicamente realizzato in forme di insofferenza anarchica, disperata ribellione, privazione del senso dell'esistenza, ansia di catastrofi e diniego della vita. Perciò ho raccolto il monito nicciano di non guardare troppo a lungo l'abisso perché altrimenti l'abisso ti guarderà, distogliendo lo sguardo dal nulla. E dunque m'inquieta scoprire che in qualche modo la fascinazione del negativo ancora mi accompagna.
Tuttavia mi chiedo - e forse la domanda è un pretestuoso modo per ricavarmi un alibi - se non sia possibile una seconda ipotesi: cioè che l'errore non sia nato tanto per assecondare le mie inquietudini filosofiche quanto piuttosto per assecondare quelle esistenziali di Zanzotto, che esso dunque sia una insinuante modalità di lettura, una sorta di clandestina maieutica testuale. Resto pur sempre colpevole d’averlo voluto inopinatamente correggere, inventandomi un verso inesistente, ma invece di stenderci sopra un velo pietoso sperando nell’oblio, accetto il rischio di trasformare quello che pare un caso clinico in un caso di studio letterario, poiché suppongo che la sua analisi possa aggiungere qualche utile informazione alla fenomenologia dell'atto letterario. Quindi, infine, l’errore sarebbe piuttosto l’esito di una possibile interpretazione della poesia, ancorché realizzatasi in una forma psichicamente contorta.
Se, provvisoriamente distogliendo lo sguardo da contingenze storiche, condizionamenti socioculturali, elementi biografici e altri fattori che possono influenzarla, lo si focalizza sull'opera letteraria nella sua concreta sussistenza nel mondo, si vedrà che essa è un evento che accade entro un rarefatto ed incantato spazio in cui si incontrano e confrontano due azioni, la scrittura e la lettura, e quindi due attori, l'autore e il lettore; in questo spazio - magistralmente descritto da Maurice Blanchot (in Lo spazio letterario, appunto) - l' opera è, muta e solitaria, poiché "chi scrive l'opera è messo in disparte, chi l'ha scritta è congedato", ed attende "la decisione liberatrice, il Lazare, veni foras" di chi la vorrà leggere e, leggendola, l'accoglierà in sé dandole voce. Dunque il testo letterario non è un oggetto bensì un processo complesso in cui l' intenzionalità creativa dell'autore, tradotta in scelte linguistiche, stilistiche ed espressive, necessariamente richiede la cooperazione di un' altra intenzionalità perché possa renderla manifesta: senza il lettore il testo non può attualizzarsi, rimanendo scricto sensu lettera morta, per farlo invece deve rischiare l'azzardo della lettura, prevista eppure imprevedibile nel suo esito. Tant’è che l’autore scrivendo vagheggia un lettore ideale (che talvolta coincide con il reale, come il “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io” del sonetto dantesco indirizzato a Guido Cavalcanti) e il lettore fa altrettanto con l’autore, in un gioco di specchi anamorfici. È una sfida dialettica che ha in sé le movenze della lotta e della danza, dove si incontrano due strategie discorsive, psichiche ed ideologiche che possono dimostrarsi convergenti, corrispondenti con le intenzioni dell' autore, ma anche divergenti, quindi levatrici di interpretazioni imperfette, critiche, infedeli, perfino errate o aberranti.
Perciò sovente capita che gli scrittori manifestino preoccupazione riguardo ai propri lettori, veri o presunti, come Valéry che ne temeva l’incultura, o Montesquieu, che ne chiedeva l’indulgenza, o Manzoni, che ironicamente ne limitava il numero (Zanzotto avrebbe dovuto preoccuparsi dei lettori smemorati come me).
Sulla validità dell’interpretazione testuale ha svolto un’acuta riflessione Cvetan Todorov, in Le morali della storia: poiché il testo è il risultato di una azione, la sua interpretazione è un cammino a ritroso verso l’intenzione che l’ha prodotta (nel campo delle scienze cognitive si definirebbe reverse engineering, progettazione alla rovescia), alla ricerca di una conformità che ne garantisca la legittimità, poiché non tutte le interpretazioni sono accettabili, cioè veritiere. Todorov tuttavia sottilmente distingue tra la verité-adequation, appunto la verità conforme, e la verité-dévoilement, la verità che è svelamento, apertura di senso; la prima stabilisce una soglia inferiore che discrimina tra l’interpretazione vera e la falsa, indotta dall’errore, dal fraintendimento, dall’ignoranza, ma non può stabilire una soglia superiore, dato che lo spazio così delineato ha proprietà asintotiche, in cui l’interpretazione può sdipanarsi in direzioni impreviste, scoprire orizzonti di senso, ripudiare la conformità, penetrare nella intrinseca profondità del testo. Evidentemente ogni interpretazione all’inizio aspira ad essere verité- adequation, poi però, interrogando intimamente il testo, può divenire verité-dévoilement. Quando ciò avviene la conformità cessa di essere un valore, e non ha più neanche senso chiedere se l’interpretazione sia legittima, poiché sicuramente la legittimità ora consiste nell’aver trasportato il testo in altre dimensioni che gli erano inconsce.
E’ forse un’interpretazione infedele, che non si adegua alla intenzione dell’autore bensì la modifica o addirittura la rovescia, può essere aberrante, eppure può accadere che nella sua aberrazione apra il testo a ulteriori, impliciti, possibili prospettive di senso. Ad esempio: certamente Freud non ha corrisposto alle intenzioni di Sofocle in Edipo re eppure la sua interpretazione ha consentito a questa tragedia di schiudersi verso nuovi significati, conferendole un differente, moderno orizzonte culturale. Rispettiamo le differenze: sarebbe decisamente presuntuoso e inopportuno supporre che in qualche modo, certamente infimo, io abbia fatto con Colle di Giano quel che Freud ha fatto con Edipo re, tuttavia potrei avergli dischiuso una ulteriore dimensione di senso, individuando in quel testo qualcosa che vi era rimasto inespresso.
Se lo riguardo (e uso questo verbo nel duplice significato di guardare nuovamente nonché di averne rispetto) ancora una volta ne intravedo lo sfondo leopardiano, che me lo fa giudicare un idillio, come quelli di Leopardi appunto, oltretutto con il puntale riferimento a "i fanciulli gridando/ su la piazzola in frotta" di La sera del di' di festa, quei fanciulli che in Colle di Giano svolgono una funzione salvifica. Ma ora che ho dovuto analizzarlo nuovamente e diversamente m'accorgo che potrebbe sembrare L' infinito rovesciato: infatti mentre quell'idillio descrive un estatico distacco dalla contingenza reale, un dolce trapasso dal finito (l' hic et nunc dell'ermo colle) all'indefinito, Zanzotto viceversa ci conduce dolorosamente da una prospettiva cosmica alla visione di un piccolo, bucolico e malinconico lacerto di mondo fisico; si potrebbe dire, con un po' di enfasi critica: dal macrocosmo al microcosmo di un cimitero campagnolo, riposto ricettacolo della morte, porta verso il nulla che deve essere esorcizzato da quei minimi segnali di vitalità che sono l’ansito vitale, il grido dei fanciulli e la trombetta. Se questa interpretazione è valida allora quel primo verso, pur nell'evidente intento ironico della rappresentazione di un pianeta che cade pigramente nel vuoto dello spazio siderale, dovrebbe evocare la dimensione metafisica piuttosto che quella fisica, perché l’immagine della caduta planetaria è l’analogia di una dissoluzione, di un doloroso universale svanire nel nulla.
Dunque l’ironia scelta da Zanzotto di fatto nasconde un umano terrore dell’abisso che il mio errare ha svelato, partorendo una verité-dévoilement.
Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.
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