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Ruggero Guarini, Fisimario 2008

di Floriana Pelagi

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Fisimario 2008. Lettere immaginarie è una raccolta di lettere scritte da un più o meno grande spirito del passato e rivolte a personaggi del presente protagonisti di cronache e fatti d'attualità.

È quindi possibile che Maometto scriva al ministro Mara Carfagna, Adolf Hitler a Mahmud Ahmadinejad, Max Weber a Roberto Saviano, Goethe ai draghi delle finanza, Giuda Iscariota ai politici italiani, Macchiavelli a Rosa Russo Iervolino, Aldo Moro a Giuliano Andreotti, Pulcinella a Bassolino, e molti altri. In una prosa ironica e divertente Ruggero Guarini crea degli accostamenti originalissimi e spiazzanti, dando prova di essere uno scrittore dotato di un'eccezionale memoria, un'insaziabile curiosità e uno stile tagliente.

L'opera è estremamente attuale, basti pensare alla lettera di Giacomo Leopardi indirizzata al ministro Tremonti. Nella bufera finanziaria che infuria nel mondo, Leopardi, compositore di poesie e prose insieme soavi e disperate, riassume la questione in poche righe: "quanto il commercio e l'industria è più libera tanto più prospera e tanto meglio camminano gli affari della nazione; quanto più e regolata tanto più decade e vien meno" (Zibaldone, 1823).

Guarini, attraverso la voce di Leopardi, afferma che mentre per l'America le robuste iniezioni di statalismo sono misure temporanee, data la vocazione individualista, liberale e libertaria del paese, l'Europa, al contrario, la cui vocazione è da sempre orientata al liberalismo economico, potrebbe avere un'involuzione verso lo statalismo e decadere, cosl come predetto quasi duecento anni fa dal grande Leopardi.

Nell'epistola della Storia alla Politica, la prima mette in discussione il valore della seconda, il cui unico primato è quello dei disastri che riesce a provocare e delle infamie di cui si macchia. La Politica si augura che, da qualsiasi situazione, dagli eventi scaturiscano effetti talmente devastanti da incoraggiare i propri sostenitori a restituirle il primato che ha ormai perso da lungo tempo. Mentre la Storia ha portato all'umanità le più importanti scoperte migliorandone l'esistenza, la Politica non ha mai inventato nulla e il suo primato è unicamente immaginario.

Ruggero Guarini è scrittore, giornalista, editore e opinionista collaboratore di molti quotidiani nazionali. Nato a Napoli nel 1931, vive a Roma dal 1958. Entrato a diciotto anni nel Pci, ne uscì dopo i fatti di Ungheria. Ha scritto i romanzi Parodia, 1973; ùao, 1995; una traduzione del Cunto de li cunti di Basile (Il racconto dei racconti, 1994); un Breve corso di morale laica, 1987; il pamphlet Compagni ancora uno sforzo, dimenticare Togliatti, 1989; alcune raccolte di articoli e saggi (Punto e a capo, 1977; Il pensiero quotidiano, 1993; Questo sl, quello no, 1994); il poemetto Quando bisbiglio la parola Dio, 1991; un librettino di versi, Un pizzico sulla mano, 2006.
Con Spirali ha pubblicato Fisimario napoletano, 2007.

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L'intervista

SERGIO DALLA VAL: A due anni dal dibattito suscitato dal libro Fisimario napoletano , Ruggero Guarini ha convocato la nostra casa editrice e voi alla discussione di un altro fisimario: Fisimario 2008. Lettere immaginarie . Apparentemente è saltato il riferimento a Napoli, ma è solo una questione di titolo. Questi articoli sono pubblicati sul sito Internet "Il Velino" e non sul "Corriere del Mezzogiorno" di Napoli e solo alcuni, in particolare quelli che elogiano i Borboni o irridono Roberto Saviano, si riferiscono a Napoli. Tuttavia, anche qui Napoli interviene, non come riferimento geografico, ma come "punto vuoto", come contesto e come humus intellettuale di questa scrittura che da Napoli procede investendo questioni di portata globale, come del resto nel primo libro. Globale non perché riguardante tematiche di diversi paesi, come si fa adesso nelle pagine internazionali dei vari quotidiani, veri guazzabugli di gossip planetare, ma globale perché intellettuale, perché coglie le questioni essenziali del nostro tempo, che non hanno limiti di spazio nell'integrazione. La questione del tempo è sottolineata anche dall'espediente narrativo di cui Guarini si avvale per esporre le sue tesi, che hanno la forza costrittiva e assillante delle fisime, ma anche l'assoluto e la qualità delle ipotesi pragmatiche. Si tratta di lettere firmate non da lui ma da altri, e per di più da persone (o anche da eventi, come il '68) che sono vissute nel passato, che non sono contemporanee. Francisco Goya, per esempio, scrive ai somari della Sapienza, Carl Marx a Massimiliano Fuksas, Sant'Agostino a Giuseppe Englaro e così via, solo per fare qualche esempio di queste cento e oltre lettere. Così, se con Fisimario napoletano Guarini, partendo da Napoli ma rivolgendosi al pianeta, scardinava l'unità di luogo aristotelica, con Fisimario 2008, partendo dai casi quotidiani ma coinvolgendo l'intera storia della cultura, si scollega dall'ancora aristotelica unità di tempo. È un'operazione essenziale perché questa dissoluzione della cronologia, e sopratutto dell'unità, introduce uno spaesamento nel lettore, ma sopratutto ci trae dalla banalità del fattarello alla lezione dell'evento, che si scrive con innanzi l'avvenire. I fattarelli diventano casi, paradigmi indimenticabili per l'avvenire.

Com'è nata la collaborazione con l'agenzia stampa "Il Velino" e l'idea stessa del libro?

Non saprei che cosa dire del valore e del significato di questa mia attività di cosiddetto "opinionista" votato al commento dei fatti del giorno. So però che di fronte a quasi ogni fatto più o meno importante e significativo del nostro tempo mi è sempre piaciuto immaginare il giudizio che questo o quell'altro grande spirito del passato potrebbe darne. Quanto al piacere che mi procura questa pratica, credo che derivi dal fatto che essa mi permette di appagare il mio incessante bisogno di oppormi a quel provincialismo per così dire "storico" che fomenta quasi tutte le nostre chiacchiere sui cosiddetti "problemi" del nostro tempo.
La collaborazione con "Il Velino" è nata da due circostanze: una ha a che fare con quella che potrei definire la principale delle mie fisime, l'altra con una fortunata circostanza della mia vita.
La principale delle mie fisime, devo ammetterlo, altro non è che l'idea che la storia sia più o meno ciò che Macbeth ha detto dell'esistenza: "il racconto di un idiota, pieno di urla e di furore, che non significa niente". Non credo cioè che esista una storia come quella che immaginano gli storicisti, ossia come un farsi, un progredire, uno svilupparsi e un compiersi di un disegno orientato verso un fine e governato da leggi decifrabili. La storia a mio avviso è semplicemente la scena sulla quale continuano incessantemente a incontrarsi e scontrarsi alcune fondamentali passioni umane, passioni che sono in effetti sempre le stesse: la vanità, l'invidia, l'amor proprio, il risentimento, l'ambizione ecc. Lo studio della storia può dunque considerarsi importante, anzi fondamentale, solo in vista del potente contributo che può dare alla conoscenza del rapporto fra la trama degli accadimenti e quel guazzabuglio del cuore umano per capire degli eterni dell'umano. L'idea di un disegno razionale e di uno sviluppo orientato, passibili entrambi di una qualche interpretazione, mi sembra invece del tutto illusoria.
La circostanza fortunata che ha reso possibile la mia collaborazione con "Il Velino" è semplicemente il fatto che le persone che hanno creato questa agenzia (Stefano De Andreis, Lino Jannuzzi, Maurizio Marchesi) o che se ne curano oggi (Daniele Capezzone, Luca Simoni) mi hanno lasciato sempre completamente libero di scrivere quello che penso.

Da quanti anni si dedica all'attività di giornalista? Con quali testate ha collaborato?

È da cinquant'anni che faccio questo mestiere. Ho lavorato per le redazioni napoletane di giornali comunisti quali "Paese Sera" e "l'Unità" nei dieci anni in cui ho militato nel Pci, sono stato per vent'anni a "Il Messaggero", ho collaborato per anni a "Il Giornale" e all' "Espresso". Per un breve periodo, un anno circa, ho lavorato anche per la terza pagina del "Corriere della Sera" e per la pagina dei libri de "La Stampa". Ho scribacchiato anche sui giornali dal destino incerto come "L'informazione" e scrivo intermittentemente fin dal primo numero per "Il Foglio" di Ferrara.
Tuttavia, non mi sono mai sentito così libero di dire qualsiasi cosa mi passi per la testa come da quando collaboro con "Il Velino". Naturalmente suppongo che a permettermi di non incorrere in quegli eccessi che possono mettere in difficoltà la direzione di un giornale sia anche una piccola, istintiva dose di saggezza. Comunque anche le più stravaganti delle mie lettere non sono mai sembrate moleste o inopportune ai responsabili dell'agenzia.

Perché l'espediente narrativo di esporre le sue tesi attraverso le parole di un più o meno grande spirito del passato?

Credo che questo espediente abbia insieme un senso pedagogico e un'efficacia polemica. Si tratta di un modo non pedantesco ma nemmeno superficiale di colpire quella che a me sembra la principale delle presunzioni morali e intellettuali del nostro tempo: l'idea che noi, abitanti del presente, ci troviamo in cima a una vetta, col volto rivolto verso il futuro e con alle spalle tanti più o meno nobili relitti del passato, vale a dire collocati in una posizione di assoluto privilegio. Quale candida presunzione! È stato l'immenso stupore che questa ingenua pretesa non cessa di procurarmi a indurmi per esempio a ricordare il frammento di Eraclito sui confini dell'anima a quella incantevole signora centenaria, Rita Levi Montalcini, la quale più volte negli ultimi anni, in diverse occasioni, ha assicurato che le neuroscienze sono ormai arrivate alla soglia della scoperta delle scoperte: "ancora un passo - ha detto - e avremo risolto, finalmente, il mistero dell'anima e della coscienza". Non è incredibile che ancora oggi scienziati così giustamente venerati possano riporre nelle possibilità della scienza una fede così puerile?
Questo episodio è comunque soltanto uno dei tanti che potrei citare per chiarire il senso della mia modesta attività pubblicistica, che vorrebbe essere, insieme, polemica e divulgativa. Nulla comunque mi sgomenta maggiormente delle varie idolatrie che imperversano intorno a noi. Quella che ha come oggetto la scienza, detta abitualmente scientismo, non è infatti né la sola né la più perniciosa. Altrettanto illusorio e funesto è quel culto della storia che potremmo chiamare "storiolatria", e che ha prodotto, e produce tuttora, effetti rovinosi sia nella variante idealistica e liberale sia nella variante marxista e comunista. Tutte le moderne idolatrie sono del resto espressione di un solo miraggio, ossia della speranza che prima o poi gli umani riusciranno a dare a una risposta anche a quel problema che Leibniz definì la domanda metafisica fondamentale: "Perché c'è qualcosa anziché il nulla?" Bella domanda, certo, visto che il mondo sarà sempre pieno di più o meno simpatici imbecilli convinti che prima o poi sapremo rispondere anche a lei.

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