di Massimo Rondi
Nella categoria: HOME | Nuovi autori
Edizioni Angolo Manzoni 2010
pp. 384 - cm. 15 x
21 - euro 15,00
ISBN 978-88-6204-073-0
Questa
volta un libro diverso. Una provocazione, forse, ma da leggere perché specchio
d'una generazione, e anche per lo stile elegante, un po' blasè,
sicuramente ricercato. Stile insolito, nella scrittura di un giovane
per sempre, che “alla soglia varcata dei quarant’anni
ripercorre la sua vita affollata e solitaria, si accorge che pur avendo
a lungo navigato non è mai uscito in mare aperto”.
È rimasto sempre al centro dei cerchi suscitati nello stagno dal lancio
di un sasso.
Il volume è a grandi caratteri per ricordarci che anche i baby
boomer hanno raggiunto l'età della presbiopia.
Panta rei. Diceva Eraclito che non ci si bagna mai due volte nella stessa
acqua di un fiume. Prima di lui Talete aveva creduto di vedere nell’acqua
il principio di tutte le cose. E anche Omero aveva parlato dell’Oceano
come origine del mondo.
Duemilacinquecento anni dopo Giacomo Pescetto getta sassi nel suo stagno
risvegliando cerchi concentrici. “Perché finché c'è acqua
c’è vita”.
Ma panta rei: la bellezza del passare esiste indipendentemente dall'arrivare...
Questa
l’autobiografia dell’autore:
Giacomo Pescetto. Novi Ligure, 1966, dopo un tentativo sfortunato all’Università di
Farmacia di Torino, si trasferisce a Urbino dove si laurea con tripudio,
nel 1992, in Scienze Politiche; frequenta poi il Master della SAA in
amministrazione aziendale.
Nel 2007 una nuova società italo-francese per l’import
di prodotti monouso per la protezione individuale lo porta al costante
rapporto con l’Oriente.
Vive nell’epicentro godereccio di Torino con cane, gatto, inquilini
e, irregolarmente, figlio.
Nel tempo che sottrae al lavoro scrive, nuota e prova a farsela passare.
Questa (potrebbe essere) l’arringa in sua difesa:
“Il mio assistito, signori della corte, signor giudice, non ha
mai voluto portare a termine alcuna delle sue escursioni amorose perché il
portare a termine già di per sé è concetto non opportuno
in vicende d’amore.
Qual’è il termine verso cui deve tendere una relazione d’amore?
La difesa tende a porre in evidenza come la presunzione dell’imputato
di poter procurare benessere a una compagna per il periodo in cui ci
si è accompagnati è sempre stata compiutamente realizzata
nel tempo della durata della relazione.
L’imputato non ha mai promesso ad alcuna delle sue compagne di
portarle in luogo definito e certo ma di allontanarle dal punto in cui
le aveva incontrate, punto esistenzialmente non gradito alle stesse...”
E il titolo rappresenta una ricerca della felicità (il riferimento
a Gabriele Muccino non è casuale) a cerchi concentrici.
Perché “ci sono individui che vagano alimentati da una fretta
curiosa e si lasciano alle spalle una scia di profumi e ricordi appartenenti
a un luogo lontano nel tempo e immediato nella mente. Emotivamente, irrazionalmente,
inconsapevolmente vivono una vita di cerchi concentrici: il primo sasso
che una mano ha lanciato nel loro cuore ha generato un primo cerchio
di emozioni che contiene e controlla il crescere di tutti gli altri cerchi. È il
gioco delle onde che nascono nell’acqua intorno a un sasso caduto.
Onde che si inseguono, la seconda circondata dalla prima, la terza dalla
seconda, una dentro l’altra senza mai raggiungersi. Fino all’incontro
di una spiaggia, una sponda, un prato, il ritrovarsi della prima onda,
del primo cerchio, della prima emozione, con l’ultima”.
Che cosa vuol essere questo romanzo, lo spiega bene Piero Burzio nella prefazione, tanto bene che lo lascio dire a lui:
"In un universo di amori desiderati,
ardenti, problematici, sbagliati, teneri, impetuosi, sovrapponibili o
sovrapposti (concentrici appunto), Torino è lo sfondo ideale. È la
città delle grandi
promesse e delle piccole e altrettanto concentriche delusioni. Una città enigmatica,
ammiccante e capricciosa, adolescente mai cresciuta, per generazioni
che non riescono, forse non possono farci i conti. Per orgoglio, eccessiva
sensibilità, solitudine, sospetto, indifferenza: o per tutto questo
insieme.
È passato molto tempo da quel primo idillico incontro, quando Nietzsche
scriveva che Torino è “l’unica città dove io sono
possibile”. Altri ci hanno riprovato, da Gozzano a Pavese, ma anche quando
l’idillio sembrava sul punto di ripetersi, e spezzare così l’incantesimo
del tempo , c’era di nuovo che qualcosa sfuggiva, una malinconia, un
tradimento.
Così è di questo romanzo: Pescetto narra di incontri amorosi
che costellano una vita, quella del protagonista e io narrante, ma amori
tutti segnati dal sigillo di una impossibilità finale, a tratti
fatale. E anche quando l’azione si svolge lontano, altrove, a Urbino,
per esempio, o a Rimini, a fare da sfondo, quasi da controcanto, è sempre
lei, Torino, come a ricordare che il simile si conosce col simile.
Così Torino è quasi il punto dell’universo a cui
sta agganciata e sospesa questa storia, fatta di storie minori che si
inanellano le une alle altre. Non è più la Torino ottocentesca
e nietzschiana di piazza Castello, di piazza Carignano e di via Po; è la
Torino globalizzata, multietnica e planetaria di porta Palazzo, del Quadrilatero,
dei Murazzi e dei Docks Dora. E, come gli amori del protagonista del
romanzo, questa diversa Torino sembra perdere in corso d’opera
la sua stessa anima, sembra fuggire eternamente: come un luogo che moltiplica
le possibilità (amori, incontri, situazioni e personaggi), perché ogni
cosa è diventata impossibile.
In questo senso, quello di Pescetto non è essenzialmente un romanzo
di “formazione”, né un romanzo “erotico”,
d’amore o d’avventure (le avventure dell’anima). È un
romanzo “sociologico”. A patto che si sappia andare al di
là della lettera del testo e, dietro l’incapacità del
personaggio a gestire la propria sfera emotiva, dietro quel malessere
da don Giovanni annoiato e stanco, dietro le mille fughe e i mille ritorni
in cerca di qualcosa che riempia il vuoto della mente e del cuore, si
riesca scorgere il segno generazionale di un intero sciame di quasi-giovani
alle prese con la propria incapacità di crescere. Come questa
Torino fatta di grandi promesse e di concentriche delusioni".
Sono anche un poco "la solitudine dei cerchi concentrici",
questi percorsi ondivaghi di (non) amore, o d’imperfetto amore.
E il titolo rappresenta una ricerca della felicità (il riferimento
a Gabriele Muccino non è casuale) a cerchi concentrici.
Perché “ci sono individui che vagano alimentati da una fretta
curiosa e si lasciano alle spalle una scia di profumi e ricordi appartenenti
a un luogo lontano nel tempo e immediato nella mente. Emotivamente, irrazionalmente,
inconsapevolmente vivono una vita di cerchi concentrici: il primo sasso
che una mano ha lanciato nel loro cuore ha generato un primo cerchio
di emozioni che contiene e controlla il crescere di tutti gli altri cerchi.
È il gioco delle onde che nascono nell’acqua intorno a un sasso
caduto. Onde che si inseguono, la seconda circondata dalla prima, la terza
dalla seconda, una dentro l’altra senza mai raggiungersi.
Fino all’incontro di una spiaggia, una sponda, un prato, il ritrovarsi
della prima onda, del primo cerchio, della prima emozione, con l’ultima".
Sono gli stessi individui che non possono dimenticare e non accettano
imitazioni?
Forse l’indice della vita è come il riepilogo dell’andare
e venire del tempo attraverso noi stessi.
In fondo sono tutti/e lì, originali, insostituibili come un figlio,
Giada, Emanuela, Kelly - cane per sempre, Nanà - cane di nuovo,
Clara, Alexandre, Guido e Valerie, Isabelle, Yvonne... Sempre gli stessi.
Emotivamente, irrazionalmente, inconsapevolmente sempre gli stessi. Il
ritrovarsi della prima onda, del primo cerchio, della prima emozione,
con l’ultima.
Cerchi concentrici.
>> http://www.angolomanzoni.it/libri/leggi/589/cerchi-concentrici-a-grandi-caratteri
Vuoi pubblicare un articolo o una recensione?
Scopri come collaborare con noi
Rosario Frasca
VAI AL BLOG
Rosella Rapa
VAI AL BLOG
Davide Morelli
VAI AL BLOG
Elio Ria
VAI AL BLOG
Anna Stella Scerbo
VAI AL BLOG
Anna Lattanzi
VAI AL BLOG