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Il fatalismo e la lezione poetica di Cosimo Russo

di Elio Ria

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La silloge Per poco tempo di Cosimo Russo è pubblicata (a cura di Luigina Paradiso) post mortem da Edizioni Manni, Lecce 2017. Russo (1972-2017) è stato un poeta dell’estremo sud del Salento. Viveva a Gagliano del Capo a pochi chilometri da S.Maria di Leuca: luogo incantevole, in cui il cielo e la terra si mostrano per quello che sono. Le sue poesie escono ora allo scoperto, tolte dal velo della riservatezza in cui le aveva sistemate per una sorta di ‘diritto alla felicità’.

Nei suoi versi si manifesta (e si consolida nella significazione delle parole) la normalità della semplicità. La semplicità non sempre scaturisce da una normalità (stato d’animo oppure ad una condizione di vita); molto spesso deriva da un travaglio interiore (complessità) che si sensibilizza nella poetica. Complessità che nella sintassi poetica abita la normalità delle parole, offrendosi al pensiero del poeta per ‘confessare’ debolezze, incanti di un luogo, nostalgia, stupore, con decoro e rispetto di una suggestiva realtà.

Russo, poco incline a parlare di sé, nella sua breve esistenza, si allontana dal rumore del tempo e distende il suo ‘tempo’ nell’ agire quotidiano per non farsi soffocare dalle incombenze; per respirare meglio la vita che già immagina breve per un destino oscuro, scrive in Avrei considerato le mie certezze:

Avrei riconsiderato le mie certezze
per una manciata di parole vere sgorgate
dalla sua muta bocca, martire per il Dio
che non mi vede se avesse lui
con i suoi occhi rischiarato la strada che mi contiene.

È evidente il tentativo di riconsiderare le sue certezze in attesa di qualcosa che gli possa essere svelato per comprendere il suo destino: parole vere che non arrivano poiché il Dio lo vuole martire. Comprende, anzi considera, le cose normali della vita con animo purificato dalle scorie della superbia e dell’affarismo che coinvolge tutti gli esseri umani in una società costruita su basi economiche e politiche che esclude l’uomo da ogni riflessione esistenziale per renderlo schiavo e mercante di emozioni falsate dal possesso delle cose.

Si estranea da questo sistema perverso e si avvia in un campo lontano che ha partorito verde e lì con la solitudine sotto la volta del cielo vede un tiepido serpe (tiepido, come dire tenero, innocuo) che prende il sole. In questo piccolo angolo del mondo la serpe si gode il sole e il gatto si affanna ad artigliare invano l’uccello che vola sghembo: una scena da cartoni animati, semplice ma densa di sensibilità. In questa scena il poeta si mette in cammino tra navate di cipressi dove in un cespuglio operose api misurano il tempo.

È chiaro il fatalismo che pervade il suo pensiero poetico: considera l’ordine delle cose animate e inanimate della natura come necessità eterna di un percorso inalterabile, già scritto, inviolabile ed in cammino verso la condizione di massima quiete, la morte. Il destino mette l’uomo come infante in un passeggino e lo porta dove gli pare, costruendo inattese speranze di sosta e di mete.

Il suo semplice stupore per queste ‘normalità’ gli fornisce la chiave di lettura dell’esistenza, la quale è soltanto incerta per gli esseri viventi ma non per quel Dio che definisce in altre liriche ignaro (Corre via) e creatore (Io vivo).

Combatte in solitudine l’interna lacerazione della fine della vita e marchia a fuoco con delicatezza le sue impressioni, le sue ansie (debitamente tenute a bada, ma sempre vive), scrive:

Siamo qui fugaci nel tempo di vita mortale
ignari del domani procediamo
su sabbie mobili irrazionali
ma il nostro amore
se pure su basi folli
sopravvive.
E a volte continuiamo a stento
o inciampiamo e cadiamo eppure ci rialziamo
finché baluginiamo e
scompariamo.

È consapevole dell’interruzione improvvisa della vita, percepisce che nonostante mille sforzi umani la vita deve tendere al punto di non ritorno per scomparire; ecco, appunto, scomparire e non morire, perché il verbo scomparire sta a significare: sottrarsi alla vista di qualcuno, non farsi vedere, ma esistere ugualmente. In verità, pensa che la morte è un modo per sottrarsi alla vista di qualcuno, non decreta inevitabilmente la non esistenza in vita, anzi ne certifica la presenza nell’inevitabile luogo del mistero e delle cose invisibili. La vita è un intermezzo della morte, un apparire e sparire rapidamente, baluginiamo, appunto.

La poetica di Russo è rivolta anche rilevare i giochi della realtà che nel presente assumono aspetti quasi mai condivisibili da altri perché non osservati, non degnati di una minuta riflessione, lasciati cadere nel turbinio del tempo. In alcuni testi si respira l’atmosfera domestica, del focolare, dell’intimità della famiglia, ad esempio in Istanti, Mia madre oziava, Mio sangue, Cortili. Tenta di fissare queste immagini nella sua mente a perenne ricordo, forse mosso dalla sensazione di viverli con immensità presagendo la sua fine. Non voleva sottrarsi a quei piaceri momentanei che la quotidianità gli offriva in ogni momento, bastava saperli guardare e viverli per provare il piacere vero della vita che nell’ingannevole passato ti fa vedere quello che non è stato (Ingannevole passato).

Forse il titolo della silloge non dà il giusto valore alla stessa, in un certo senso inficia ciò che a lui era caro e segnava la misura del tempo.

Il tempo per Russo non era un nemico, un qualcosa con cui bisognava lottare per impadronirsi della vita; no, rappresentava la condizione ottimale di crescita del suo corpo e del suo spirito.

In Io ero già un altro con coraggio afferma Non ebbi paura a cambiare la carne/allo scorrere del tempo; già la carne, vale a dire la sostanza del mio pensiero e quando qualcuno mi guardava/e al tempo stesso/non mi vedeva più,/io ero già un altro, per poco tempo, qui, su questa terra, ma per molto tempo in un altrove, dove non vi è traccia dell’assurdo ma la spiegazione di ogni cosa.

Per poco tempo potrebbe significare implicitamente il rancore di non avere avuto molto tempo, invece per poco tempo immortala quel tempo vissuto che ha condizionato la sua crescita, il suo diventare uomo e poeta, quel tempo che ad un certo punto non ruggisce come il leone ma sussurra parole che riguardano le scelte quotidiane, il rapporto tra rischio, certezza e incertezza, il senso della narrazione della vita, la possibilità di essere protagonista e non semplice comparsa, il senso della possibilità da coltivare accanto all’altrettanto necessario senso della realtà. Questa è stata la lezione poetica di Russo nel suo verseggiare di ricordi, sensazioni, immagini, per fare comprendere che la vita non è un semplice automatismo da utilizzare per nulla, ma una cosa ben più importante che va sottoposta all’analisi interiore e alla valorizzazione del Bene di sé stessi.

 

Elio Ria (classe 1958) è poeta, saggista e scrittore. Si occupa di letteratura francese e di poesia contemporanea. Frequenta la Facoltà di Filosofia (Università del Salento). Ha pubblicato: Altri versi (2009), Il ragazzo dalla faccia pulita. Saggio su Rimbaud (2014), Il culto del calcio (2016), In nome del prete (2017), Arrembaggi. Un estremo tentativo di capirci qualcosa (2018).
Su Letteratour gestisce il Blog Spighe di poesia.

 

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