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Kafka sulla spiaggia, di Haruki Murakami

di Isabella Fantin

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Trovare il proprio heimat in una biblioteca è il sogno di molti. Essere coinvolti in un delitto l’incubo di pochi.
È quanto accade ai due protagonisti di Kafka sulla spiaggia di Murakami, Einaudi Super ET 2008, nella splendida traduzione di Giorgio Amitrano; la prima edizione in lingua originale risale al 2002.

Tamura e Nakata sono due uomini in fuga.
Avanzano verso la stessa direzione come due rette parallele. Diventano incidenti quando si intersecano in un punto che lascio al lettore scoprire. A poco a poco ciascuno porta a compimento il proprio destino nella geometria non euclidea del realismo magico.
Kafka sulla spiaggia è un romanzo di densa originalità, la cui economia di movimento spazia libera oltre le quattro dimensioni. Superfluo ricordare che la musica è il comprimario per tratteggiare caratteri, luoghi, oggetti, atmosfere e ritmo. In una recente intervista Murakami dichiara di avere imparato a scrivere “ascoltando la musica”, unica maestra di ritmo.

Il giorno del 15esimo compleanno lo studente edochiano Tamura scappa di casa per troncare i rapporti con il padre che odia. Il suo obiettivo è “vivere nell’angolo di una piccola biblioteca.”
Nel suo passato l’ombra di una sorella e di una madre assenti. Nel futuro la spada di Damocle di una sinistra profezia.
È lo stesso Tamura, in quanto voce narrante, a raccontare la sua storia.
Due elementi colpiscono. La determinazione con cui nei due anni precedenti viene messa in atto la preparazione fisica e mentale e le capacità logistiche. L’allenamento per irrobustire un corpo acerbo, l’attenzione selettiva in classe per incamerare dati utili nella concretezza del quotidiano. Abbigliamento di anonima praticità e bagaglio a mano per non dare nell’occhio. La tratta notturna in pullman, l’astuzia di una meta scelta a caso. Forse.
Non è la sfida di un ragazzino all’autorità paterna.
Assente lo slancio fiabesco di chi, come Tamar in Qualcuno con cui correre di Grossman, scappa di casa per salvare una persona cara dai cattivi.
Questa è la fuga di un adulto, perché non tradisce le incongruenze ideative e soprattutto pratiche della progettualità adolescenziale.

Nel tragitto Tamura, scambiato per un musicista da una ragazza sempliciotta, ricorre allo pseudonimo di Kafka, Tamura Kafka che nulla c’entra con il titolo.
Giunto finalmente a destinazione, località Takamatsu nel Giappone meridionale, si addentra nella  Biblioteca Komura, totalmente diversa da quelle che conosce.
A proposito di biblioteche il pensiero corre rapido a Manzoni, a Borges, a Eco.
Tuttavia la Biblioteca Komura non simboleggia un sapere inutile, inafferrabile, tesaurizzato. Ignora “la roba scelta” di don Ferrante, l’ordine impazzito della Biblioteca di Babele, i segreti di Aristotele. Non è un tempio della conoscenza, anche se come un tempio greco vive in armonia con il paesaggio.

Mi accorgo che la sala è il posto che stavo cercando da tempo.

È qui che Tamura trova la sua casa. Non sa che a breve gli verrà offerta la possibilità di diventare “parte” della biblioteca.
La scelta di iniziare la lettura da Le mille e una notte dimostra che la sua aspirazione è lasciarsi trasportare dalla forza della narrazione in tutti i mondi possibili.
Perché lui si è scomunicato dal mondo per visitarli tutti.
Mentre la nuova vita scorre  con monastica regolarità, al rintocco dell’ottavo giorno di fuga scatta l’avventura in universi sghembi e paralleli non solo per Tamura, ma anche per il lettore.
E come ogni avventura che si rispetti ha inizio in una foresta: nel giardino di un tempio shintoista.

Contemporaneamente l’anziano Nakata, analfabeta con ritardo mentale, decide di scappare da Tokyo dopo essere stato coinvolto nell’omicidio di un personaggio sulfureo che si fa chiamare Johnnie Walker, una sorta di cartoon dal ghigno rasputiniano.
Se Tamura pensa come un adulto, mantenendo l’emotività di un adolescente, Nakata è un uomo anziano che ragiona come un bambino e parla di se stesso in terza persona.
Escludo un emulo del De bello gallico. Ipotizzo che “l’illeismo”- il termine è di Coleridge - sia un trucco per mettere a fuoco i pensieri e un’ulteriore pennellata per sottolineare la fragilità identitaria di Nakata.
Murakami indugia con dovizia di particolari e il taglio oggettivo di un narratore esterno sulle circostanze che, determinando il deficit cognitivo, costituiscono l’antefatto del testo.
Nel 1944, in corso il Secondo Conflitto, alcuni bambini impegnati nella raccolta di funghi durante un’uscita didattica vengono colpiti da una paralisi temporanea, da uno svenimento vigile che la medicina non è in grado di spiegare. Un corollario di coincidenze anomale, testimoniate dalla maestra, infittisce il mistero. I verbali dell’episodio vengono secretati dal Ministero della Difesa degli Stati Uniti. Solo il piccolo Nakata riporta un danno permanente che, allontanandolo dalla scuola e dalla comunità, lo condanna alla solitudine.
Quando entra direttamente in scena, è intento a conversare con un anziano gatto nero.
Ignora di essere stato scelto per una missione speciale.
Nakata non parla ai gatti, conversa. Significa che è ricambiato. Però, rispetto alle favole abitate da animali parlanti, questa volta è lui a conoscere il linguaggio dei gatti.

- È una bella giornata, non è vero?
- Hmm, - fece il gatto.
- Non si vede nemmeno una nuvola.
- Per ora.”

Per inciso il gatto fa parte degli yokai animali, creature soprannaturali un po’ dispettose, un po’demoniache e non necessariamente pericolose per gli esseri umani, del patrimonio folklorico giapponese.
Aggiungo che tutti i grandi romanzieri del Giappone moderno si sono cimentati nel fantastico, così radicato nell’immaginario del Sol Levante da contaminare fino ai primi anni Sessanta il genere scientifico per eccellenza: il giallo deduttivo.

È ora di tornare al nostro simpatico vecchietto.

Nakata sopravvive con il sussidio statale e per arrotondare rintraccia i gatti scomparsi nel suo quartiere, oltre il quale non si avventura. L’analfabetismo, infatti, lo rende insicuro ed impacciato fuori dalla sua comfort zone.

Alle spalle un raro campionario di disgrazie affettive.

La sua fuga non solo è piena di ostacoli, dribblati dall’intervento più caritatevole che solidale degli ‘aiutanti’ occasionali, ma prende forma in corso d’opera.
Il suo obiettivo è “raggiungere la pietra dell’entrata.”

Il viaggio di Nakata, costretto dall’analfabetismo a giocare di sponda, come quello di Tamura ondeggia, plana e avanza tra incroci, traiettorie alterate, impreviste svolte temporali, insieme a un cast che ha la naturalezza dell’incanto, quello imposto dal realismo magico.

Questa definizione è stata coniata nel 1925 dal fotografo e critico tedesco Franz Roh in relazione al post espressionismo pittorico tedesco. Altri, più patriottici, ne attribuiscono la paternità a Massimo Bontempelli.

Come spesso accade, pensiamo al ‘barocco’, l’espressione viene trapiantata in letteratura per indicare una scrittura iper realistica costellata da elementi magici, dettagli sensoriali, distorsioni e collassi temporali dall’effetto straniante, in cui il fantastico viene presentato come normale.

Cosa c’è di strano a scambiare quattro chiacchiere con un gatto, a schivare una pioggia di sanguisughe, ad affondare nella neve nera?

Un’occasione per conoscere o approfondire il modo di sentire sotteso al realismo magico è la mostra sul Realismo magico, allestita a Milano, Palazzo Reale, dal 19 ottobre al 27 febbraio 2022.
Senza dimenticare che la magia risiede soprattutto negli occhi di chi guarda.

 

“My Favourite Things” di Coltrane è uno dei pezzi forti del romanzo insieme a Schubert.

 

 

Isabella Fantin è nata nel '61, abita a Milano in piena movida da tormento notturno. Una laurea in Cattolica in Lettere moderne. Docente di lungo corso, vaglia nuove rotte. Il tempo per lei è il vero lusso. Legge da sempre. Conduce una vita anonima. Le piace ricordare una frase che ripete sempre ai suoi studenti: leggere insegna a vivere. Ci crede anche lei.

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