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Lettere di una novizia, di Guido Piovene

Una storia ambigua

di Alessandro Balzaretti

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Al vicentino Guido Piovene, Premio Strega 1970, giornalista, scrittore, viaggiatore, fu rimproverato molto, dal caustico giudizio su Svevo alla vicinanza al fascismo. Ma in extremis si è sempre pentito, fino a definire Svevo “uno dei cinque o sei grandi scrittori di romanzi dopo la Prima Grande Guerra”. Di certo non stupisce che un importante romanzo come Lettere di una novizia sia stato pressoché dimenticato dalla nostra letteratura, che ha preferito all’intimismo e all’analisi psicologica il neorealismo anni sessanta. Su Piovene si è forse dato un giudizio politico. Apparso durante il fascismo, nel 1941, Lettere di una novizia racconta il noviziato di una giovane borghese e il mistero di un’improvvisa crisi di vocazione. Un romanzo claustrale e claustrofobico, fatto di lettere serrate e dubbi interiori, da cui la Storia rimane fuori, lontana. Non ci sono partigiani e soldati, ma il doloroso rapporto di una figlia con la propria madre, una tortuosa vicenda edipica. È forse il più femminile fra i romanzi italiani del Novecento, ma il meno femminista. Elisa Passi, dopo anni in cui ha trascurato la figlia Rita, tenta di fare di lei una strana specie di amica, di confidente: le racconta i dubbi d’amore, tenta di carpire dei consigli dalla fervida intelligenza di Rita. Ma Rita vuole soltanto scappare, e si innamora di un ragazzo. Poi, fugge misteriosamente in convento. Quale segreto nasconde? Un prete, don Paolo, si prende cura di lei, intuisce un dubbio nella sua vocazione, crede che la madre stia minacciando la figlia...

Lettere di una novizia è l’analisi di due donne che si autoingannano e si odiano, ma che non possono fare a meno l’una dell’altra. Nella prefazione Piovene parla esplicitamente di malafede: “La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza”. L’ambiguità del racconto che la novizia fa a don Paolo trae in inganno lui e il lettore, che oscilla fra la convinzione che in fondo si tratti di una povera ragazza sfortunata e la sensazione che l’abito monacale nasconda l’anima crudele di un’assassina. Chi è colpevole? Lettere di una novizia è un romanzo che affronta il problema del male lasciando lontani i rumori della guerra e delle catastrofi del Novecento, e lo fa con la precisione di una riflessione psicologica.

Sembra suggerirci l’autore che La banalità del male, o meglio la sua ambiguità, consiste nella sua atopia, nell’essere senza luogo e senza causa. Senza colpa. Nel lasciarci sbigottiti, senza la consolazione di poter accusare un colpevole, di poter additare mostri e criminali.

Cogliere l’ambiguità del male è riconoscersi nelle parole del cappellano: in fondo non sappiamo se Rita “fosse davvero una persona cattiva, ma di certo non era buona”. E allora, molto agostinianamente, non ci resta che descrivere il male soltanto come negazione, e definirlo per sottrazione di termini.

La ferocia della giovane novizia - la sua commovente umanità? - è il tentativo di salvarsi, di cercare uomini che la possano redimere. Non a caso, uomini di chiesa. Un tentativo velleitario e fatto senza alcuna convinzione, perché Rita conosce il suo destino e, in un certo senso, lo avvera.

Chi ritiene Lettere di una novizia un romanzo socialmente e storicamente poco impegnato non ha la lungimiranza di riconoscere nel racconto di Piovene l’analisi di un sentimento che ha segnato la società italiana del ventennio fascista e degli anni a venire. Riconoscerlo equivarrebbe a un’ammissione di colpa. Eppure la malafede, l’ambiguità e la convenienza - nonché quel piccolo autoinganno che li accompagna, un autoinganno che cancella la colpa nel momento in cui fa chiudere gli occhi davanti a quella - hanno reso possibile la convivenza di interi popoli con i propri totalitarismi. Simona Argentieri, psicoanalista, li definisce i “piccoli crimini della coscienza”. Piccoli crimini, ma dalle grandi conseguenze.

Non ci stupisce più allora che il romanzo di Piovene, dopo un grande successo iniziale e l’adattamento cinematografico, sia stato dimenticato dalla nostra letteratura. Che sia stato rimosso. Anche questo è un piccolo crimine. D’altronde Lettere di una novizia paga il fatto che la letteratura occidentale abbia sempre prediletto il legame madre-figlio, colpa - sostiene Luce Irigaray - di un certo maschilismo. Ma Piovene ha avuto il coraggio di raccontare il rapporto fra una madre e una figlia, e ci lascia con lo stesso sconsolato stupore di don Paolo, un uomo che non capisce.


 

Alessandro Balzaretti vive fra Novara e Parma, dove studia Psicologia dell'intervento clinico e sociale. Fra una lezione e l'altra si dedica alla letteratura.

 

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