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Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
Uno, nessuno e centomila. Un titolo che già di per sé racchiude innumerevoli significati intrecciati tra loro, accompagnato da una trama profonda che riesce senza troppi giri di parole a scavare nei meandri dell’animo umano, lasciando l’amaro in bocca. Pubblicato nel 1925 a puntate nella rivista La Fiera Letteraria, è sicuramente uno dei testi più significativi di Luigi Pirandello; egli stesso parlando del romanzo lo definisce come “il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”. Fu l’ultimo romanzo scritto dall’autore, infatti è possibile leggervi una sorta di volontà testamentaria, la voglia di fissare in maniera univoca la sua idea dell’esistenza umana e del mondo.
Il protagonista Vitangelo Moscarda (anche soprannominato Gengè) parlando con la moglie Dida scopre di avere il naso storto, un piccolo dettaglio insignificante che egli stesso non era mai riuscito a percepire. Questa nuova consapevolezza spinge l’uomo ad innescare una serie di ragionamenti espressi in monologhi in cui spesso si rivolge al lettore interrogandolo e rendendolo partecipe del discorso. Così, attraverso l’osservazione di questo piccolo dettaglio, Vitangelo comprende di non essere per gli altri “quell’uno” che aveva sempre pensato di essere. A partire da quel momento la sua vita subisce una svolta radicale nella speranza di riuscire a capire quale proiezione di sé corrisponda effettivamente al suo animo. In questa ricerca compie azioni non del tutto positive: sfratta una famiglia di affittuari, si libera della banca ereditata dal padre suscitando l’ira dei suoi familiari ed inizia, con discorsi e riflessioni, a tormentare chiunque gli sta vicino passando perfino per folle agli occhi del mondo: la gente del suo paese si rivolge a lui urlando “Pazzo! Pazzo! Pazzo!”. La sua follia spinge dunque la moglie ad abbandonare il tetto coniugale e a dar via ad un’azione legale per far interdire Vitangelo. L’unica persona rimasta accanto al protagonista è Anna Rosa, una donna di venticinque anni amica di Dida, ma anche lei udendo i suoi ragionamenti si spaventa arrivando a sparagli, senza tuttavia ucciderlo. Nonostante ciò, durante il processo, viene assolta anche grazie alla testimonianza dello stesso protagonista. Vitangelo sembra trovare la pace nel conforto religioso offerto da Monsignor Partanna che lo induce a rinunciare a tutti i suoi averi in favore dei meno abbienti. Così, rifugiatosi in un ospizio, raggiunge una fusione totale e mistica con il mondo naturale, l’unica dimensione terrestre in cui egli può avere il coraggio di lasciarsi andare senza temere le centomila maschere che la società gli ha imposto nel corso della sua esistenza.
Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori
Ed è così che Moscarda sceglie di essere “nessuno”, di annullare inesorabilmente la propria identità, di non avere più nemmeno un nome né pensieri, vivendo come un elemento naturale o un animale completamente immerso nell’incessante fluire della vita.
Chiarissimo all’interno del romanzo è il tema della maschera. Vitangelo scopre di non essersi mai conosciuto davvero, di non essere un individuo, di avere centomila maschere, una per ogni umano che conosce ed una per se stesso. Estremamente rilevante è l’immagine dello specchio simboleggiante “l’io” dinanzi a se stesso, un riflesso che gli permette di “vedersi vivere”.
Uno, nessuno e centomila è il romanzo emblema della solitudine dell’uomo. Potrebbe essere considerato un racconto psicologico, ma per determinate ambientazioni e temi come ad esempio la lontananza del protagonista da tutto e tutti e la dissoluzione della natura, si avvicina alla tipologia di romanzo surrealista. Il romanzo rappresenta una specie di conclusione de “Il Fu Mattia Pascal”. L’autore, infatti, termina con Moscarda le proprie riflessioni sul consumarsi del protagonista cominciate con Mattia Pascal costruendo una rappresentazione perfetta ed efficace sulle stranezze dell’uomo moderno e della società. Pirandello mira dunque a mettere in evidenza gli ideali e gli schemi imposti dalla comunità nel tentativo di comunicare al lettore quanto i corpi assumano continui aspetti difformi a seconda del pensiero di chi li osserva. La realtà non è quindi unica ed inequivocabile, essa muta al mutare dei punti di vista.
Compiamo un atto. Crediamo in buona fede d’esser tutti in quell’atto. Ci accorgiamo purtroppo che no è così, e che l’atto è invece sempre e solamente dell’uno dei tanti che siamo o che possiamo essere, quando, per un caso sciaguratissimo, all’improvviso vi restiamo come agganciati e sospesi: ci accorgiamo, voglio dire, di non essere tutti in quell’atto, e che dunque un’atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e sospesi a esso, alla gogna, per un’intera esistenza, come se questa fosse tutta assommata in quell’atto solo.
Diciamo dunque che è in noi ciò che chiamiamo pace. Non vi pare? E sapete da che proviene? Dal semplicissimo fatto che siamo usciti or ora dalla città; cioè, sì, da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensì per qualche cosa che non c'è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua, almeno in parte, riuscite a perdere, o di cui riconoscete l'affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d'abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate.
Federica De Sanctis è nata a Brindisi nel 1999. Studia alla facoltà di Lettere dell'Università degli Studi Guglielmo Marconi. Da sempre appassionata di letteratura, arte, musica e lingue straniere. Collezionista e lettrice di libri, cantante e tastierista. Sostiene da sempre l'arte in tutte le sue forme di espressione.
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