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La poesia italiana degli ultimi decenni, come d’altronde molta della letteratura contemporanea, ci ha abituati a un radicale rovesciamento del sublime, se non a una vera e propria galleria degli orrori: è del 2004 la silloge Macello di Ivano Ferrari, che racconta gli anni passati a lavorare nel mattatoio comunale. La celebre frase di Adorno, dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d'arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile, è stata clamorosamente smentita, e lo si è fatto affrontando l’orrore, circumnavigandolo attraverso i versi. Sfidando l’estetica, il buon costume, a volte persino l’onestà intellettuale. Una poesia maledetta che nasce nel fango e nelle cose umili, terree, come l’anguilla di Montale. Non a caso quel caustico critico che è Tom Wolfe, quando coniò il termine “radical chic” parlò di nostalgie de la boue, la nostalgia del fango.
Di certo rimane ancora aperto l’invito di Nietzsche a rimanere fedeli alla terra - e molta letteratura l’ha fatto, rifiutando idealismi e spettrali chimere estetiche - ma è difficile sottrarsi al richiamo del cielo, alla voce di quell’antico vescovo che disse che Dio ha fatto l’uomo in posizione eretta perché potesse contemplare il cielo.
Molta della nostra poesia contemporanea si ritiene evidentemente più vicina al cristiano Lattanzio che al pagano Nietzsche. Si pensi a Cesare Viviani [Credere nell’invisibile] e a Chandra Livia Candiani [La bambina pugile] ma anche a quei filoni poetici che il Langella definisce cosmico [Spaziani, Pusterla, Durante…] e creaturale [Ricchi, Reali, Damiani…]. Fra le molte, un’altra silloge meditativa è Il prato bianco di Francesco Scarabicchi.
Altri poeti hanno rifiutato questo anelito, o meglio, ne hanno cambiato la direzione. Si è già citato Ivano Ferrari e le poesie nate nell’orrore del macello. Ma a volte, per poter parlare di una poesia terrena, materiale, non è necessario aver vissuto esperienze degradate, come può essere un mattatoio comunale, la guerra, le viscere della città notturna, insomma i luoghi - fisici o psichici - in cui la materia si svela in uno stato di latente decomposizione.
Per parlare di una poesia terrena è sufficiente negare un anelito unificante, è sufficiente frammentare lo sguardo nella descrizione della propria quotidianità. È lo sguardo sconfortato e senza illusioni di un poeta come Attilio Lolini, autore di Carte da sandwich. O ancora Franco Marcoaldi, che in La trappola scrive poesie quasi aforismatiche, di una saggezza più pragmatica che mistica: una guida per stare al mondo, per non cadere nelle trappole di questa vita tutta umana.
C’è invece un poeta inaspettato, uno scrittore [Premio Strega 2009] ma in realtà poeta in incognito, che è Tiziano Scarpa. Soltanto una raccolta unitaria come Le nuvole e i soldi ha potuto rivelarcelo come una voce in grado di fare una sintesi delle due tendenze poetiche, quella spirituale e quella materiale. Di unire l’aspirazione al cielo e l’aspirazione al fango, cioè le nuvole e i soldi. Un titolo forte e provocatorio.
Tiziano Scarpa non si vergogna di raccontare le difficoltà economiche, il rapporto con la madre, gli aneddoti della sua vita personale. Sarebbe sbagliato infatti ritenere che la poesia nasca esclusivamente dal sublime e dai grandi sentimenti; al contrario, nasce anche dal rancore e dalla rabbia. È difficile scordare che Catullo scrisse magnifiche invettive, e che il modo in cui il popolo ha sempre attaccato i suoi padroni è nella forma della rima, del ritornello canzonatorio. Scarpa descrive l’atmosfera berlusconiana degli anni zero con il sarcasmo di chi alla fine le ha scampate tutte, come le innumerevoli volte in cui ha rischiato la vita e per poco si è salvato. Aneddoti e avventure di un poeta affezionato alla sua Venezia, ma forse segretamente apolide.
La sua musa è la stessa del lirico greco Ipponatte, una musa stracciona e senza casa, che fra le tante scappatelle alla fine se la cava sempre. Persino Platone fa dire a Socrate che Eros, lungi dall’essere una divinità ascetica, celestiale, è in realtà il marmocchio birbante e scapestrato che conosciamo come Cupido.
Questo per quanto riguarda il poeta terreno. Per quanto riguarda il cielo, ossia le nuvole del titolo, l’anelito nell’ispirazione di Scarpa non si spegne. Ma è un anelito che non guarda né al di sopra né al di sotto, bensì indietro: verso la lingua dei morti, dei morti che parlano ora attraverso le nostre parole, le parole di una grammatica che abbiamo ereditato da loro. Così, il poeta si censura definitivamente e fa parlare le parole, lascia che siano loro a raccontarsi in una moderna antologia di Spoon River.
Ti metti a diventare quello che ti diciamo / ti metti a diventare ciò che siamo, senza sapere fino in fondo/ che cosa siamo veramente.
Anche noi vorremmo disporre di un altro linguaggio - parole delle parole - qualcosa di altro da noi, di diverso.
La lingua dei morti, questa terra da cui prendiamo in prestito la voce, raccoglie l’interesse di Scarpa. Il poeta allora deve essere come il guidatore della metro, che sconfina nelle fogne, nel caveau di una banca perfora la terra, guardando negli occhi le linee più pericolose / le più profonde, infestate di fantasmi. Ma la forza del poeta-guidatore non si spegne nella terra, perché di fronte al suo sguardo fermo, ai suoi vent’anni di anzianità vissuta sottoterra, questa retrocede con paura.
Nuvole e soldi: si tratta allora di capovolgere quella distinzione che ci spinge da una parte verso il cielo e dall’altra verso la terra. Di sconvolgere la polarità dei termini, che distinguerebbe tra una poesia aulica e una poesia volgare. Quello che scrive Scarpa, anche quando lo fa con rabbia o durezza, è vero, sincero, ed è quello che piace e che conta. Si tratta di fare come la dirimpettaia di cui scrive in una poesia, senza dubbio fra le più belle. La donna afferra le piantine dal terriccio dei suoi vasi e le capovolge, interrando le foglie, i petali, i rametti, e lasciando fuori le radici sporche di terra.
Dicono che sia depressa / ma forse conosce un segreto, intravede un’altra possibilità.
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