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L'eccezione Shadowhunters

di Martina Nicelli

Nella categoria: HOME | Recensioni

 

Un po' rimane quel senso di vergogna quando dico davanti a qualcuno che in fondo i libri di Shadowhunters non sono poi così male.

Sarà perché trovo terribili gli Young Adult, categoria della quale i molteplici libri della saga di Shadowhunters fanno indiscutibilmente parte, sarà perché spesso il nome di questa saga è ricondotto a folle di ragazzine invasate che scrivono fan fiction di dubbio gusto e che per Halloween si disegnano marchi sul corpo, indossano tutine nere attillate e fingono di essere Clary Fairchild.
Lo ammetto, non sono mai riuscita a scambiare opinioni con qualcuno in merito a questa saga, un po' perché, come vi ho detto, non ho mai ammesso apertamente di esserne abbastanza fan, un po' perché, forse a causa di tutti questi pregiudizi, non ho mai incontrato nessuno che l’avesse letta.

In realtà, sempre leggendo Wikipedia, scoprii anni fa che questi romanzi vengono ricompresi anche nella categoria “urban fantasy”. E che vuol dire, direte voi? L’urban fantasy è quel sottogenere del fantasy vero e proprio, in cui l'elemento fantastico è legato agli ambienti urbani e alle loro tematiche “terrene”. Ho provato a leggere anche altri romanzi “urban fantasy” in seguito (“L’accademia dei vampiri” di Richelle Mead e anche un altro di cui, per farvi capire quanto mi sia piaciuto, non ricordo nemmeno il titolo), ma nessuno ha mai incrociato più di tanto il mio gusto.

[Per quanto riguarda il fantasy nudo e crudo, ne ho letto davvero pochissimo nella mia vita. L’unica saga che mi è piaciuta davvero è quella de “L’apprendista assassino” di Robin Hobb, anche questa composta da mille e mila libri e trilogia che si intersecano l’una sull’altra. Vi terrò aggiornati su come andrà a finire anche questa avventura]

La saga di Shadowhunters, invece, mi piace. Sarà che Cassandra Clare è molto brava a descrivere la realtà e i personaggi (la sua scrittura avrà tanti difetti, ma questo difetto, per una volta, non mi sento di attribuirglielo), sarà che mi ha sempre dato l’idea di essere una scrittrice che conosce quello di cui parla e che si informa. Fantasy e realtà “urbana” con lei fanno una coppia vincente.
Ora che ho finito (l’ennesimo) libro di questa saga, mi sono detta: basta Martina, devi essere sincera, non puoi continuare a fingere. E allora non fingerò, ed ecco perché penso che questa saga non sia così male.

L’angelo, il principe, la principessa, e il loro seguito

Dato che immagino che nessuno di voi sia un fan di questa saga (o, perlomeno, che nessuno osi ammetterlo), immagino anche che nessuno sappia esattamente quanti libri Cassandra Clare abbia scritto collegati più o meno al più famoso Shadowhunters (per intenderci, quello con protagonisti Jace Herondale, il biondone, e Clary Fairchild, che nel primissimo film veniva interpretata da Lily Collins).
Ebbene, i libri sono tantissimi. Vi basterà dare un’occhiata su Wikipedia. Abbiamo i sei libri della saga, appunto, di Jace e Clary; la saga “Dark Artifices” (tre libri) , poi la saga “The Infernal Devices” con “L’angelo”, “La principessa” e “Il Principe” e poi “The Last Hours” con “La catena d’oro” e “La catena di ferro”, mentre il terzo e, credo, ultimo volume della saga dovrebbe uscire nell’autunno del 2022.
La Clare ha scritto altri libri e racconti legati al mondo di Shadowhunters, che io non ho mai letto eccezion fatta per una serie di racconti estratti da “Le cronache di Magnus Bane”, che mi limiterò a citare solo perché li ho trovati il classico extra scritto solo nell’ottica di accontentare i fan della saga - intento sempre ammirabile, sia chiaro - e quindi poco rilevanti.

In particolare, innanzitutto ho amato la trilogia “The Infernal Devices”. Letta qualche anno fa, ha un plus: è ambientata sul finire dell’Ottocento, a Londra.
Come per “Una fortuna pericolosa” di Ken Follett, certi libri entrano nella mia classifica di libri preferiti solo per l’ambientazione e il particolare periodo storico. Purtroppo in questo caso non penso di riuscire ad essere molto obiettiva: prendi una storia minimamente interessante, mettila nell’Inghilterra vittoriana, e conquisterai tutta la mia devozione.
Come vi dicevo prima, la Clare è molto brava e attenta ai particolari. A volte fin troppo, ma questo ve lo spiego meglio qui. Nonostante le descrizioni di New York (e in particolare di Brooklyn, dove abitano Clary e Simon) siano effettivamente magistrali – forse per il fatto che la Clare ha vissuto effettivamente negli Stati Uniti – credo che nulla batta quelle della Londra polverosa e buia di “The Infernal Devices”. Sarò più suscettibile io a fumo e carrozze, non so.

James, Cordelia, Lucie, Matt e gli altri

“The Infernal Devices” è la storia di un trio: Tessa, Will e Jem. Ed ecco, ancora, che la mia teoria sul trio di Harry Potter che ha fatto scuola si rivela essere esatta. Piccolo spunto personale e totalmente non richiesto: mi piacerebbe leggere di composizioni leggermente diversa, sia numericamente che di genere.
Con la mia trilogia preferita, “The Last Hours”, la Clare mi ha accontentata anche in questo. Oltre alla solita atmosfera vittoriana e tutti gli annessi e connessi, finalmente abbiamo un romanzo davvero corale. Ci sono un’infinità di personaggi, un’infinità di storie, tutte più o meno importanti, e una trama di base con il solito cattivo da sconfiggere. Certo, i veri protagonisti sono sempre James e Cordelia, ma almeno qui assistiamo ad una apertura di trama.

La Clare sa raccontare molto bene le storie, anche se – ed è forse questa l’unica cosa che mi fa storcere il naso nel leggere questi libri – alla fine finiscono quasi sempre per sembrarmi delle fan fiction. In particolare, le storie d’amore. Ma anche le amicizie, perché no: idealizzate, totalizzanti, perfette. James è “bellissimo”, “muscoloso”, con “i capelli più soffici e ricci che io abbia mai visto”, “altruista”, “coraggioso”, questi sono solo alcuni degli aggettivi più utilizzati dall’autrice per descrivercelo. Di Matthew, invece, sappiamo solo che è biondo e che ha un problema con l’alcool. La Clare ce lo ripete fino allo sfinimento: in ogni scena, Matthew viene descritto con un tremolio alle mani e un’esigenza quasi maniacale di prendere la fiaschetta nascosta nel taschino e portarsela alla bocca. Molto apprezzato il tentativo di sensibilizzazione del tema dell’abuso di bevande alcoliche, ma se fatto in un altro modo. Ed è un vero peccato, perché Matthew avrebbe il potenziale per essere non solo il mio personaggio preferito di questa trilogia, ma anche in generale uno dei miei personaggi preferiti. Eppure viene rilegato ad una sorta di spalla di James, di eterno infelice che deve essere preso così com’è, senza approfondimenti e senza troppe domande.

Ho trovato anche troppe ripetizioni nella descrizione dei personaggi, che è una cosa che generalmente non amo e che me li fa sembrare molto finti e bidimensionali. Ci sta che ogni personaggio abbia delle sue caratteristiche: Matthew è ironico, ad esempio, e beve molto. Non può, però, fare battute e bere in ogni scena in cui appare. Devo dire che questa pecca riguarda molto di più i personaggi maschili di quelli femminili, che forse la Clare si trova meglio a descrivere. O, forse, non sente tutta questa pressione nel doverli per forza far diventare degli eroi accalappiaragazzine da fan fiction.
Una caratteristica che, invece, ho ritrovato anche in altri scrittori (tanto per citarne uno, Joel Dicker) è quella di scrivere libri come se fossero copioni di film. Già sul grande schermo le conversazioni sembrano abbastanza finte, non c’è bisogno di riprendere questa caratteristica – che davvero, non piace a nessuno – anche nei libri. A volte mi è capitato di leggere degli scambi di battute e di sentirmi in imbarazzo per quanto suonassero finte alle mie orecchie.

A parte, quindi, per le problematiche dei personaggi, “La catena d’oro” e “La catena di ferro” hanno tutte le caratteristiche per rientrare non tra i miei libri preferiti, ma di certo tra i libri che amo leggere. Ed è ben diverso. “La famiglia Karnowski” di I. J. Singer è uno dei miei libri preferiti di sempre, ma non è un libro godibile nel vero senso della parola. È un po' come quando si viene invitati al matrimonio di un migliore amico: alla fine sai che sarà una giornata emozionante e bellissima, ma se ti chiedessero di riviverla altre cento volte, probabilmente non lo faresti. “La catena d’oro” e “La catena di ferro”, invece, somigliano più a una tranquilla cena tra amici, dove si mangia pizza d’asporto e il massimo dell’impegno da parte tua è stato quello di estrarre dei tovaglioli puliti dal cassetto e metterli sul tavolo.
Certo, non credo che qualche libro di Shadowhunters potrà mai valicare quel limite dell’essere solo un libro godibile e nulla di più. Gli mancano troppe cose: dei personaggi complessi e profondi, una trama un po’ più corposa e che non si ripeta sempre uguale in ogni libro (ma d’altronde è un fantasy, anche se urban), una scrittura più matura e dei dialoghi più reali.

Se si è alla ricerca di un buon libro da leggere, che non ti faccia storcere il naso ogni due pagine e che sappia in qualche modo tenerti incollato fino alla fine, queste trilogie di Shadowhunters (“The Infernal Devices” e “The Last Hours”) potrebbero essere ciò di cui si ha bisogno. Certo, non aspettatevi descrizioni alla Umberto Eco né i personaggi di Stephen King, ne rimarreste delusi. Io avevo iniziato a leggerli senza avere alcuna aspettativa – davvero, proprio nessuna – e alla fine è stato meglio così. Anzi, queste trilogie mi hanno anche quasi fatto credere di poter apprezzare il genere urban fantasy. Quasi, appunto.

 

Martina Nicelli (classe 1996), è nata in provincia di Milano, dove ha frequentato la facoltà di giurisprudenza all'Università Bocconi. Mentre svolge il praticantato in uno studio legale occupandosi di diritto minorile e di famiglia, trascorre il suo tempo libero scrivendo e leggendo, soprattutto gialli e saghe familiari. Ama la montagna, le giornate uggiose e la musica folk.

       

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