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Quando l’amore materno, il più forte in natura e custode del mistero della vita, brucia alla velocità sbagliata i figli pagano un prezzo altissimo a volte per sempre a volte no.
Lo dimostra il romanzo autobiografico Per il mio bene, Harper Collins, opera prima della poliedrica Ema Stokholma pseudonimo di Morwenn Moguerou vincitore del Premio Bancarella 2021 che narra gli abusi fisici ed emotivi subiti dall’autrice da parte della madre violenta.
Se date un’occhiata al suo profilo Istagram trovate circa 300mila post presentati anche nella corrispondente versione pittorica dai tratti decisi, pennellata larga, colori a contrasto per mettere in evidenza il soggetto.
Un profilo all’insegna della trasformazione come Ema Stokholma: classe 1983, francese di nascita con cittadinanza italiana, ex modella, conduttrice radiofonica e televisiva, cantante, affermata dj e come vedremo scrittrice per intima necessità.
Chi è la madre di Morwenn Moguerou? Una donna “non bella ma neanche brutta”, così sciatta che se potesse avere un colore la sua trascuratezza avrebbe quello stanco della biancheria vecchia per dirla con il lessico esuberante di Foster Wallace; anonima la geografia del volto. Dominique, questo il suo nome che compare una sola volta nel testo, mette in atto su Morwenn e il fratello Gwendal un campionario di violenza gratuita che strategicamente non esonda dalle mura domestiche. Una violenza improvvisa a carattere ricorsivo e ciclico da manuale: un pugno in faccia, pestaggi prolungati, corse obbligate, bagni forzati nell’acqua gelida vestiti compresi e qui mi fermo.
Se le punizioni corporali sono dantesche, il rapporto colpa-pena però non lo è perché la furia della madre non ha (quasi) mai un motivo per esplodere.
Madre single svolge lavori saltuari come donna delle pulizie o badante tuttofare, disoccupata sopravvive con il sussidio statale.
Sintetizza modelli materni diversi accomunati da ambivalenza emotiva, egoismo e frustrazione. E’ una madre nera (la definizione è tecnica) che, continuando a rimuginare sulle presunte ingiustizie subite, spegne i colori della vita dei figli quando, un esempio tra tanti, lamenta che questi le hanno rovinato la vita troncando le sue velleità pseudo artistiche.
E’ una madre isterica dalle risposte disorientanti e incoerenti quando attribuisce alla figlia la colpa di avere interrotto i rapporti con il nonno e non le perdona di averli mantenuti con il padre biologico che a capriccio si fa vivo; quando rompe i giocattoli e ama le piante al punto da riuscire ad affittare uno scampolo di verde tutto per sé.
E’ una madre intrusiva ed incapace di comunicare quando pretende resoconti dettagliati delle sedute di terapia, di cui rinfaccia l’onere economico, spinta unicamente dalla delirante presunzione che la medicina avalli le malattie mentali dei figli da lei stessa diagnosticate.
Non accadrà mai: Marwenn non è pazza, Gwendal non è autistico solo perché cerca strategie adattative meno protestatarie rispetto a quelle messe in atto dalla sorella.
O ancora quando sfodera l’arma del silenzio, la punizione peggiore che condanna la vittima all’invisibilità ovvero la morte del non esistere per l’altro: “quando non ti mena ti ignora”.
Penso che l’abuso sprofondi nella depravazione e nella follia quando la madre accusa Morwenn bambina di piaceri solitari,fantasie incestuose, intimità saffiche con adulti con parole che non dovrebbero violare l’infanzia. E quando la invita espressamente a compiere un gesto autosoppressivo: “La seguo mentre sale le scale di pietra che dall’argine ci portano al ponte. Nonostante il caldo l’Isère è bello pieno perché ha piovuto tutto agosto (…). Il mostro guarda giù. Indica con il dito della sua mano cicciona l’acqua sotto di noi e ordina:’ Buttati e falla finita.’ Passano secondi infiniti che diventano minuti mentre continua a spronarmi.”
Mostro. L’autrice chiama la mamma Dominique per ben 35 volte con questo termine, il che a dire quasi una volta ogni cinque pagine.
Per una coincidenza linguistico sonora, inoltre, è proprio di domenica che il mostro Dominique si abbandona alla bottiglia con maggiore libertà.
Il bere comunque, uno dei tanti errori di una vita sgrammaticata, funge solo da detonatore per gli accessi di rabbia come si evince dal testo.
A parte un cenno alla guerra del Golfo, è la musica rifugio-salvezza-professione a scandire il rapporto con l’esterno: le hits di Madonna, Michael Jackson, Mariah Carey; la techno dei rave e i mix da disco.
Lo stile è di crudo realismo e disarmante sincerità che alcuni critici hanno talvolta frettolosamente confuso con consapevolezza.
Marwenn riporta la soddisfazione a tiranneggiare i più deboli replicando l’unico modello che conosce, ma che non riconosce: “A scuola sono molto popolare,c’è da dire che sono una bulla e me la prendo spesso con gli altri, specie se sono deboli.”
A 15 anni – alle spalle molteplici tentativi di fuga mentre ciondola tra i luoghi deputati delle adolescenze difficili – la fuga decisiva verso il mondo che sceglie di assaggiare senza freni (oppure è il mondo a mangiarsela?).
Ho apprezzato molto la manciata di pagine che, condensando venti anni di esperienze fuori dal comune in un elenco asettico e cronachistico dal ritmo velocissimo con effetto straniante, allenta il carico emotivo in prossimità della conclusione.
Per il mio bene è un romanzo che si impone per la prepotenza del contenuto. Che importa se la prosa non gareggia per il Nobel.
La scrittura, infatti, non è un fine, ma uno dei mezzi con cui Ema Stokholma sta imparando a mettere a punto le sue luci di posizione.
Isabella Fantin è nata nel '61, abita a Milano in piena movida da tormento notturno. Una laurea in Cattolica in Lettere moderne. Docente di lungo corso, vaglia nuove rotte. Il tempo per lei è il vero lusso. Legge da sempre. Conduce una vita anonima. Le piace ricordare una frase che ripete sempre ai suoi studenti: leggere insegna a vivere. Ci crede anche lei.
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