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Rapporti e analogie tra scienza e letteratura
Non c'è più l'avversità di un tempo, quando Snow era il 1959 pronunciava il suo immeditato anatema contro i letterati, a parer suo rei di immoralità ed inutilità sociale; ma ancora ci sono filosofi che rivendicano la superiorità della filosofia sul pensiero scientifico e scienziati che denunciano le teorie antiscientifiche dei filosofi. Se non c'è aperta ostilità aleggia comunque insofferenza o, e forse è peggio, reciproca indifferenza.
In questa situazione la letteratura pare soffrire di un complesso, più o meno inespresso, di inferiorità, avendo indubbiamente perduto quel primato morale ed intellettuale di cui ha goduto per millenni ed essendo costretta a sentirsi inessenziale e privata di funzioni gnoseologiche, quasi relegata nel campo dell'intrattenimento culturale mentre la scienza si impone come sapere vero ed efficace. La conseguenza non può che essere un'alea di risentimento e di incomunicabilità. Ma è sterile isolarsi nella propria specificità, rinforzando per timore una divisione culturale ed intellettuale che dalla Grecia classica è giunta estenuata sino all'oggi; occorrerebbe invece riconoscere che l'evoluzione del pensiero la sopprime e che dunque i movimenti separati della ragione occidentale devono essere ricondotti all'unità, ad un nuovo equilibrio che fatalmente scompiglia le caste intellettuali, le abitudini mentali, le strutture disciplinari, le forme di espressione e comunicazione.
D'altronde la riflessione epistemologica ha da tempo scoperto tra scienza e letteratura analogie, contiguità, complementarità. Sono emersi, ad esempio, nella logica della scoperta scientifica elementi generalmente ascrivibili alla produzione letteraria, come la metaforizzazione e il giudizio estetico; inoltre quelle caratteristiche che si ritenevano proprie del discorso scientifico: oggettività, esattezza, neutralità, universalità, acronia, si sono rivelate piuttosto inconsistenti, comunque problematiche. Si è compreso che un fisico può leggere una formula come se fosse una poesia, un narratore trovare nella scienza un'intima fonte di ispirazione, uno scrittore pensare a se stesso come a uno scienziato. Non esistono insormontabili barriere tra scienze della natura e scienze umane (che anzi possono incontrasi ora nelle cosiddette scienze cognitive), perché in ambedue è all'opera lo stesso spirito, la stessa intelligenza che indaga e chiede al mondo di avere un senso. Piuttosto quelle non insormontabili barriere sono il prodotto perverso di contingenze storiche e culturali, senz'altro complicate e resistenti ma certamente non insuperabili per chi le voglia varcare.
Come lo scienziato Tullio Regge e lo
scrittore Primo
Levi, protagonisti di un intenso colloquio riportato nel libro Dialogo,
ottimo e fecondo esempio di incontro tra uno scienziato e un letterato
che, come Calvino, ha attinto in modo originale alla
conoscenza scientifica. In Dialogo ambedue si confessano vittime
di quella che definiscono la "congiura gentiliana", cioè di
un anatema contro la scienza pronunciato dal filosofo dell'idealismo
e, soprattutto, autore di una riforma scolastica che ha improntato di
idealismo la cultura italiana per quasi un secolo (un'impronta consistente
e pertinace, che ancora resiste nonostante tutto).
Però Dialogo è interessante anche per chi esibisce
un fenomeno su cui merita riflettere: leggendolo infatti si resta colpiti
da come Levi, lo scrittore, rimanga affascinato e finanche schiacciato
dalla capacità affabulatoria di Regge, lo scienziato, il quale
attinge mitopoieticamente alle possibilità che la matematica,
la fisica e la cosmologia schiudono al pensiero, ragionando di mondi
possibili, di universi paralleli, di dimensioni plurime. Insomma: rovesciando
i ruoli, il vero narratore diventa lui.
Perché stupirsene? Chiunque può raccontare, se ha qualcosa da raccontare.
E la scienza è un immenso stimolante deposito di conoscenze e di temi
narrativi. Lo stupore appartiene solo a quei letterati arroccati nella
loro tradizione retorica, a cui è bene ricordare quanto scrisse nel 1968,
in Retorica e logica, Giulio Preti:
Se la letteratura oggi suole stare prudentemente alla larga da certi argomenti scientifici che una volta invece arditamente trattava; se molti argomenti intorno all'uomo, alle sue angosce, i suoi problemi sono oggi dominio quasi esclusivo delle lettere bene, queste sono situazioni contingenti, transitorie. Tornerà ad esserci una poesia del cosmo ed una scienza dell'uomo.
Tuttavia per uscire dalla tradizione è necessario ripensare il concetto di "letteratura", l'idea che ne abbiamo, che può essere limitante, se non addirittura fuorviante; comunque inadatto al tempo presente.
Verso un nuovo concetto di scienza e di letteratura: l'affabulazione
La letteratura è un
sistema di comunicazione ed un'istituzione, con i propri codici e protocolli,
e in quanto tale viene praticata e studiata; ma non dovremmo dimenticare
che sotto essa e prima di essa agisce un comportamento
umano universale: l'affabulazione, che è tra i fondamenti
della cultura, arcaicamente intricata con il rito, la danza, la magia,
la religione, il mito. Essa è la levatrice antropologica dell'immaginario,
mentre la letteratura è una forma derivata e secondaria di comunicazione
scritta. La letteratura è il prodotto di una società
alfabetizzata ed elitaria, l'affabulazione è un bisogno della psiche.
Prova ne sia che quando gli psicologi indagano il comportamento dei bambini
si imbattono nel loro desiderio di raccontare e di ascoltare racconti.
Perché la vita è racconto, è il racconto che ci raccontiamo della nostra
esistenza, la quale solo raccontandola acquista un senso e poggia su
una identità che altrimenti non sussisterebbe.
Di ciò ne è il migliore esempio il caso di Emily, una
bambina di cui i genitori, psicologi, per due anni registrarono i monologhi
antecedenti al sonno. Per la loro frequenza e costanza quei monologhi
possono essere classificati come una vera e propria cerimonia dell'addormentamento,
probabilmente analoga a riti fobici, quei comportamenti ossessivi che
servono ad esorcizzare angosce interiori. Emily infatti raccontava la
sua vita quotidiana, in modo a volte confuso e frammentario, a volte
complicando il racconto con eventi immaginari, e raccontando placava
la propria paura per l'assenza dei genitori e per il sonno in agguato
(il sonno per il bambino piccolo è sempre una porta verso il nulla).
Ecco perché si può parlare di bisogno
di raccontare. D'altronde fra
i rituali fobici si trova proprio anche il racconto:
cioè l'abitudine piacevole di ascoltare una fiaba per conciliare il sonno.
Dunque pare che la narrazione abbia originariamente lo scopo di placare
una paura, di rassicurare, ma anche in modo conseguente e complementare di
organizzare e comprendere la propria esperienza del mondo.
E' una
prospettiva un po' romantica che si insinua nello sguardo antropologico
ma non è inverosimile supporre che il racconto sia nato tra gli uomini
preistorici che la notte, intorno al fuoco, si intrattenevano a vicenda
con storie di caccia e d'avventure per vincere la paura che aleggiava
d'intorno. I primi racconti sarebbero quindi la base su cui in seguito,
o insieme, sarebbero sorti la cerimonia incubatrice col suo magico contorno
di racconti dipinti e il rito cantato e danzato. Certo è che ci sono
innumerevoli racconti diversi, e perciò tante letterature diverse, ma
ovunque nel mondo i popoli, quali più evoluti e quali
meno, se questo termine ha un senso, possiedono un sistema di racconti,
una propria mitologia dalle antichissime origini: remote e radicate nella
struttura archetipa della psiche umana. L'uomo primitivo, dunque,
come Emily: intenti l'uno e l'altra a sconfiggere l'angoscia
che s'insinua nella vita, con l'affabulazione.
Accanto alla ritualità fobica
poi dovrebbe aggiungersi un altro meccanismo psichico: la menzogna
compensatrice,
il tentativo di ricercare un'immagine inaccessibile o perduta, che può
diventare, secondo Freud, un romanzo familiare, un racconto
in cui la realtà desiderata,
quale si vorrebbe che fosse, si sovrappone a quella sofferta e rifiutata.
Anche in questo caso l'affabulazione svolge una funzione consolatoria
e ricostruttiva.
Se dunque non ci lasciamo fuorviare riconoscendo che la letteratura è soltanto l'effetto storico nella civiltà della scrittura di un fenomeno più vasto e originario qual è l'affabulazione, comprenderemmo anche che probabilmente la scienza è un modo, uno dei possibili modi, di raccontare: come il ramo di un fiume che si diparte dal corso principale e s'avventura verso territori ignoti. Il racconto di cui l'essere umano ha bisogno per dar senso alla propria vita è un racconto incessante, una storia infinita che cresce nel tempo e assume forme, movenze e strutture differenti, sempre più differenti da quelle arcaiche e mitiche; gli accade allora, in una certa parte del mondo antico: la Grecia classica, di mutare radicalmente, d'essere l'oggetto di una critica inaudita nell'ambito di una straordinaria riflessione sulla mitologia, la divinità, la realtà, la verità. Questa riflessione scopre nel mito una antinomia tra menzogna e verità, perciò il suo esito è anche l'anatema platonico contro i poeti, che dovrebbero essere espulsi dalla città ideale poiché mentitori. Platone, e altri con lui e prima di lui, ingaggiarono in quel periodo una battaglia per la verità (così l'ha definita Franco Rella nel suo omonimo libro) al fine di stabilire nuove e diverse modalità del pensiero e del discorso. Da ciò, alla fin fine, scaturisce l'origine della contrapposizione tra le due culture. Tuttavia dietro tale contrapposizione esiste e resiste la stessa funzione affabulatrice: tra il pensiero narrativo e quello logico-scientifico, al di là delle rispettive forme epistemiche e discorsive, si estende una stessa sostanza. Si potrebbe quindi affermare che la scienza è un'altra forma di racconto, un altro modo di raccontare l'esperienza dell'uomo nel mondo, che storicamente si è prodotto per partogenesi entro un contesto mitopoietico e mitologico di cui si sancisce la lontananza dalla verità.
Finzione e verità nell'affabulazione
Ma come pensare, allora, la contraddizione tra finzione
e verità?
Sarebbe erroneo catalogare le due diverse forme
di racconto come luoghi rispettivamente della verità e della finzione,
poiché tra loro esiste una complessa dialettica piuttosto che una antinomia
(e d'altronde il concetto di verità in epoca moderna è stato protagonista
di molte disavventure). Così come non è sufficiente riconoscere che letteratura
e scienza sono due modi diversi di raccontare il mondo, due modi dell'affabulazione
ora distanti l'uno dall'altro ma un tempo uniti. Bisogna aggiungere
che l'affabulazione è sempre e comunque finzione.
Infatti, se da un lato l'affabulazione è la risposta all'umano bisogno
di dare un senso alla vita attraverso una vera e propria messa in scena
della vita, dall'altro è appunto messa in scena, cioè capacità di
rappresentare un mondo possibile, costruzione di un simulacro della realtà,
che nasce dalla dialettica tra immaginazione ed esperienza. Ciò vale sia
per la letteratura che per la scienza: ambedue elaborano simulacri di realtà.
Quando l'uomo racconta finge (e anche la mimesi è finzione, come Platone
non comprese) un mondo: a volte verosimile, a volte fantastico, ma sempre
è un duplicato i cui caratteri selezionano quelli del mondo "vero".
Ad accorgersene fu Hume, secondo cui certe scienze, la
matematica per esempio, sono finzioni al pari dell'arte e della letteratura.
Va da sé che ogni civiltà si
sceglie le proprie finzioni, attribuendo loro un valore di
verità e negandolo ad altre.
Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.
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