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e discorso narrativo
• Pensiero narrativo e pensiero paradigmatico
• L'esperimento ideale
Fascinazione affabulatoria e discorso narrativo
Come il prestigiatore affascina lo spettatore con i suoi trucchi dandogli l'illusione d'una realtà alterata così lo scrittore adesca il lettore dentro lo spazio immaginario che il suo racconto evoca. Può farlo in molti modi, più o meno sofisticati. Ne osserviamo uno che troviamo in Eugenìe Grandet di Balzac.
Questo romanzo ha inizio con l'introduzione di un personaggio: il forestiero, sulla scena narrativa, che è una piccola città della provincia francese; una delle tante in cui
la vita e il moto vi sono così tranquilli che un forestiero le crederebbe disabitate, se d'un tratto non incontrasse lo sguardo pallido e freddo di una persona immobile il cui viso quasi monastico si affaccia al davanzale della finestra, al rumore di un passo sconosciuto.
Appena
comparso questo personaggio sembra scomparire. Invece, invisibile, resta
lì, poiché il narratore con il sapiente trascorrere
dalla terza persona singolare alla seconda plurale con cui apostrofa
direttamente il lettore ( “Entrate?”; “vedrete un mercante”; “scorgete
una rientranza al cui centro è nascosta la porta della casa del
signor Grandet”) glielo porge impercettibilmente come suo alter
ego. Il lettore dunque penetra dentro la finzione narrativa e già incontra
- benché non lo sappia ancora – la protagonista, quel volto
spettrale che appena ha intravisto. Si è aperta alla sua mente
la soglia del racconto e inconsapevolmente l'ha varcata.
Si noti che questa apertura affabulatrice dipende da quel se ( “se
d'un tratto non incontrasse…”), una apparentemente
semplice congiunzione che, come si vedrà, ha il compito di sorreggere
una complessa operazione cognitiva preliminare ad
ogni discorso narrativo.
Un altro esempio: la novella di Giovanni Verga La roba, che ha per tema l'avidità di un uomo, Mazzarò, il quale ne è a tal punto dominato da farne l'ossessiva dimensione della propria vita meschina e reietta. Il racconto inizia con una panoramica delle vaste proprietà terriere del protagonista, per poi concentrarsi su di lui. Come Balzac in Eugenìe Grandet anche Verga fa attraversare questo paesaggio da un personaggio: il viandante, che gradualmente si identifica con il lettore, ma in modo un po' più complesso: prima c'è il passaggio dalla terza persona singolare al si impersonale ( “si vedevano”; “si udiva”) e poi alla seconda plurale ( “non gli avreste dato un baiocco, a vederlo”) , come se il narratore si rivolgesse ora ad un coro di spettatori. Lector in fabula, dunque, di nuovo.
Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppuie riarse della piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecona, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristemente nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? – sentiva rispondersi – di Mazzarò.
Come in Eugenìe grandet questo
personaggio appare e scompare per far posto al lettore. Come là ma
certamente in modo letterariamente più sofisticato, perché questo
esordio narrativo è un magistrale esempio
di fascinazione affabulatoria,
che risalterebbe ancor di più se se ne intravedesse l'implicita
struttura argomentativa della dispositio, finalizzata a risvegliare
e conquistare l'attenzione dell'uditorio prima di introdurre
la narratio (giustamente Barthes asseriva che si comprenderebbe
meglio la letteratura se ne fossero riconosciuti i sottesi codici retorici).
Mentre il lettore vien quasi ipnotizzato dal polisindeto che dispiega
il discorso come un moto ondoso il narratore insinua tra le sue pieghe,
quasi inavvertita, la proposizione condizionale: “se domandava….”.
Così il viandante – quindi il lettore , di cui quello è la
proiezione- si configura come una sorta di mallevadore
del racconto, il quale può esistere soltanto a condizione ch'egli ponga
la domanda; altrimenti il racconto è destinato a giacere nel
silenzio dell'impossibilità, in quanto esso è propriamente
la risposta.
Perciò anche in La roba quel se è il
fulcro su cui il racconto si appoggia, il perno su cui ruota.
Il viandante….se domandava….sentiva rispondersi…..
Come un Giano bifronte
lo scrittore custodisce la soglia dello spazio dell'immaginario
e ne amministra il passaggio; ogni ipotesi narrativa è un
percorso che può dipanarsi costruendo differenti microcosmi di
cui decide il destino attraverso scelte disgiuntive: una catena
di eventi probabili che in Eugenìe Grandet e in La
roba è inaugurata dall'enunciazione di un periodo
ipotetico.
Come ogni alunno vittima della grammatica ben sa il periodo ipotetico è composto
da una frase reggente e da una subordinata condizionale: la prima, detta apodosi,
esprime la conseguenza della seconda, la premessa, detta protasi.
Il racconto è uno sgranarsi di episodi che conseguono
all'apodosi,
la quale assume tuttavia la sua funzione generativa solo se è verificata
la premessa, cioè l'ipotesi che consente alla narrazione
di esistere. È nell'aleatorio momento della transizione
dalla protasi all'apodosi che il racconto emerge dallo stato di
mera possibilità depositata nell'immaginario. Per comprenderne
il meccanismo generativo si può prendere come esempio il celebre
sonetto di Cecco Angiolieri S'i fosse foco, arderei'l
mondo, una sorta di elenco di microracconti le cui protasi delineano
ironici scenari narrativi.
Scrittori come Verga e Balzac desiderano che le loro storie abbiano la solida parvenza della realtà affinché il lettore vi penetri con adesione sentimentale; perciò l'enunciazione condizionale avviene in maniera sommessa e discreta: proprio perché ha lo scopo di far coincidere la finzione con il reale. Quando questa volontà di rappresentazione realistica devia verso l'ironia, che è forma mentis tipica della letteratura e della cultura contemporanee, la fascinazione narrativa accetta di svelare la propria natura illusoria e il racconto esplode (o implode) nell'iper-romanzo calviniano, che si costruisce nella moltiplicazione seriale delle ipotesi. Se una notte d'inverno un viaggiatore è un romanzo labirintico, un intreccio di sequenze che si disgiungono e congiungono come le serie numeriche del domino, esibendo la molteplicità arbitraria dei possibili narrativi al lettore e dissolvendo ogni pretesa rappresentativa. Cosicché quel personaggio che fungeva da alter ego di un lettore da incantare viene infine beffardamente congedato:
oh, il viaggiatore appariva solo nelle prime pagine e poi non se ne parlava più, la sua funzione era finita….Il romanzo non era la sua storia.
Così si conclude Se una notte d'inverno
un viaggiatore.
Scompaiono dunque viandanti e forestieri, sono liquidate le istanze realistiche
di un'epoca letteraria, le storie si palesano come discorsi, si
afferma la consapevolezza che la narrazione è il dominio della
possibilità, dove differenti premesse generano differenti racconti
partoriti da una infinita variabilità.
Per questo si parla del
racconto come di una coniugazione al congiuntivo
della realtà, cioè della narrazione come rielaborazione
cognitiva e sentimentale del mondo attraverso una pluralità di
prospettive il cui risultato è la costruzione di mondi possibili,
simulacri ipotetici.
I conti, si può dire, tornano. Infatti il modo verbale congiuntivo è funzionale all'enunciazione ipotetica; il periodo ipotetico, in cui è frequentissimo l'uso del congiuntivo, rappresenta la struttura sintattica e logica con cui il racconto simula mondi possibili. In Eugeniè Grandet e in La roba questa struttura è manifesta, eppure essa è presente ed implicita in tutti i racconti come struttura profonda, poiché in tutti i racconti sono all'opera costrutti ipotetici che determinano serie narrative differenti. Il lettore può non avvedersene se non si distacca dalla struttura superficiale del testo, in cui la storia appare già sdipanata; allora rimane ignaro delle numerose disgiunzioni scelte dal narratore, che invece si è trovato a percorrere un labirinto, dove ogni nucleo narrativo (le funzioni cardinali di Barthes) inaugura un momento di rischio per il racconto, poiché opera una alternativa nel suo sviluppo.
Pensiero narrativo e pensiero paradigmatico
La stilistica, lo strutturalismo e la semiotica ci hanno consegnato consistenti informazioni sul fatto letterario nei suoi tratti linguistici e comunicativi, poche invece sulle sue dimensioni cognitive ed espressive. Talvolta è lo sguardo inesperto che scopre nuove prospettive, perché non cristallizzato nei pregiudizi, ed apre nuove strade che la ricerca può percorrere. Ciò è accaduto con lo psicologo Jerome Bruner, quando si è trovato a riflettere sull'arte e la letteratura. Una riflessione che si può sintetizzare in due punti :
Ovviamente il tipo di
causalità che si esprime nei due tipi di
pensiero è sostanzialmente diverso: in quello paradigmatico assume
la forma dell'implicazione, dunque di una relazione necessaria
tra enunciati apofantici, in quello narrativo si tratta invece di relazioni
verosimili, probabili o addirittura aleatorie. Infatti il periodo ipotetico
che struttura il racconto solo apparentemente replica la struttura
dell'implicazione: “se….allora….” ( p É q),
poiché non è impegnato a confrontare il possibile con il
reale, mentre l'implicazione formale esige che la premessa determini
una relazione causale , cioè si ponga come explicans dell'apodosi,
il quale si configura come explicandum.
Cosicché infine sembrerebbe definitivamente confermata la radicale
contrapposizione tra scienza e letteratura sancita dalla polemica delle due
culture, nonostante l'intento di Bruner di dichiararla insulsa.
Ma non si deve dimenticare il punto essenziale: il carattere
congetturale della conoscenza scientifica. La maggior parte
delle riflessioni su ciò che
accomuna la letteratura e la scienza si sono rivolte soprattutto al linguaggio
traslato, all'uso dei sintagmi metaforici nel discorso scientifico
(per esempio l'uso delle metafore e degli esempi in Darwin); non
hanno invece indagato sulla comune protensione verso l'elaborazione
di ipotesi, verso la comune attività di declinazione al congiuntivo
della realtà. Se, come Bruner, lo si fa, approfondendo la prospettiva
che ha inaugurato, si trova qualcosa di molto interessante. Qualcosa
che – occorre darne atto alla sua straordinaria intelligenza critica
- Italo Calvino, così attento all' aspetto mitopoietico
della conoscenza scientifica, aveva intravisto nel 1968, individuando
in Dante ed in Galileo i maestri di una immaginazione scientifico-poetica
che si manifesta come elaborazione di congetture sul mondo.
Se inseguire la logica della dimostrazione scientifica, dunque dell'implicazione formale, conduce lontano dall'affabulazione e dalla letteratura, conviene invece introdurci nello spazio cognitivo della scoperta scientifica, dove pensiero paradigmatico e pensiero narrativo si intrecciano e i costrutti ipotetici percorrono anche paesi delle meraviglie, ancora incuranti di veridicità e conferme. Se, ad esempio, si legge Dialogo, affascinante colloquio tra lo scrittore Primo Levi e lo scienziato Tullio Regge, si rimane incantati dalla forza affabulatrice del discorso scientifico, capace di aprire la mente a scenari vertiginosi, insieme attraenti ed inquietanti. Dalle congetture scaturiscono racconti: se poi gli accade in sorte di dimostrarsi veri, usciranno da quella terra di nessuno che è lo spazio della scoperta per collocarsi nell'enciclopedia della scienza, dimenticandosi della propria origine narrativa.
Se si cerca il luogo della scoperta scientifica
dove più frequente è l'uso
del periodo ipotetico, sintatticamente manifesto o cognitivamente soggiacente
al ragionamento, si trova quella peculiare espressione del pensiero scientifico
che è l'esperimento ideale.
La scienza moderna è sperimentale, cioè si
regge su una fondamentale attività di osservazione, misurazione,
esecuzione di prove che hanno lo scopo di verificare o falsificare teorie.
Talvolta tuttavia accade che l'esperimento sia soltanto immaginato: si
parla allora, appunto, di esperimento ideale. A prima vista sembra un
atto incoerente con i protocolli della scienza moderna, un insopportabile
fossile metafisico, appropriato ad Aristotele non certo a Galileo.
Come può essere possibile conciliare l'alea dell'immaginazione
con i verdetti della realtà? Di fatto si realizza come un'operazione
di bricolage intellettuale, è la ricombinazione di esperienze
accumulate nella memoria e di intuizioni, mescolate secondo una logica
tributaria della fantasia: cosa garantisce la validità di questa
azzardosa miscela? Eppure l'esperimento ideale ha svolto un grande
ruolo nello sviluppo del pensiero scientifico, soprattutto in quei momenti
critici in cui sono in atto conversioni radicali, mutamenti paradigmatici
della conoscenza che l'esperimento ideale produce o asseconda.
Perciò, la storia della rivoluzione scientifica rinascimentale
lo dimostra, si addice più a Galileo che ad Aristotele.
Un esempio classico: l'esperimento ideale della nave, narrato nel Dialogo
sui massimi sistemi, che servì alla scienziato per dimostrare
il principio di relatività, ovvero che il moto dei corpi è regolato
dalle stesse leggi fisiche sia in un sistema di riferimento in
quiete sia in un sistema di riferimento che si muova di moto rettilineo
uniforme: è uno dei cardini della fisica moderna, di cui Galileo
Galilei è il fondatore.
Dal punto di vista argomentativo (se si usa la classificazione proposta
da Perelman nel suo ormai classico Trattato dell'argomentazione)
l'esperimento proposto dallo scienziato pisano è definibile
come un esempio, cioè come illustrazione di un caso particolare
che consente una generalizzazione. Come forma argomentativa l'esempio
rimanda fortemente alla retorica, in quanto l'exemplum è uno
dei modi del ragionamento induttivo nell'ambito della probatio; nella
casistica retorica l'exemplum può essere reale o fittizio e,
se è fittizio, presentarsi come parabola o come favola.
La sua natura narrativa è dunque evidente, perciò non può non
contaminare con la propria forma e scopo anche l'esperimento
galileano, che difatti si enuncia propriamente come un racconto. Lo confermano
le parole di Sagredo: “Queste osservazioni, ancorché navigando
non mi sia caduto di farle a posta, tuttavia son più che sicuro
che succederanno nella maniera raccontata”.
Albert Einstein è stato un altro grande scienziato il cui pensiero è fiorito intorno ad esperimenti ideali. Il suo biografo, Infeld, ritiene anzi una sua fondamentale caratteristica intellettuale quella di saper formulare semplici esperimenti ideali che non potevano essere eseguiti praticamente ma che opportunamente analizzati illuminavano prospettive originali sul mondo fisico. Ricorda per esempio che sin da ragazzo Einstein rimuginava su questa domanda:
“Che cosa succederebbe se un uomo cercasse di attaccarsi al volo ad un raggio di luce?”
Sta in questa domanda l'origine della teoria della relatività speciale. La capacità di immaginare, e di sviluppare ciò che aveva immaginato, si ritrova anche nell'esperimento ideale dell'uomo chiuso nell'ascensore che precipita; che - sempre secondo Infeld - condusse Einstein a formulare la teoria della relatività generale.
L'importanza
dell'esperimento ideale per lo sviluppo della conoscenza scientifica
non è sfuggito agli storici e ai filosofi
della scienza. Popper, per esempio, che più di
ogni altro ha insistito sul carattere congetturale delle teorie scientifiche,
vi ha riflettuto in La logica della scoperta scientifica, distinguendone
l'uso critico,
quello euristico e quello apologetico. Gli esperimenti
di Einstein sono euristici, quello di Galileo è critico.
Tuttavia la riflessione più interessante proviene da uno scienziato,
Peter Medawar, prossimo a Bruner nel ritenere che vi
sia una affinità creativa
tra l'operare scientifico e quello artistico e letterario. In Consigli
ad un giovane scienziato distingue quattro tipi di esperimento:
il baconiano (un evento indotto originato dal desiderio
di provare), l'aristotelico (un evento indotto destinato
a dimostrare la verità di un'idea precostituita), il galileiano (l'esperimento
critico che compie una valutazione di differenti possibilità teoriche),
il kantiano (un esperimento pensato). Quest'ultimo tipo,
il kantiano, è propriamente l'esperimento ideale, così denominato
da Medawar in onore dell'impresa filosofica con cui Kant ha sussunto
il mondo dell'esperienza alle forme a priori dell'intelletto.
La sperimentazione delle scienze naturali si basa soprattutto
sull'esperimento di tipo baconiano, che risponde alla domanda: ”Chissà cosa
succederebbe se….”, inducendo la realtà a comportarsi
in un certo preordinato modo. L'esperimento kantiano gli è analogo
senonché esso si svolge tutto nello spazio psichico, nell'escursione
di ipotesi che si articolano nell'immaginazione. La domanda a cui deve
rispondere è: “Vediamo cosa avverrebbe se partissimo da
una premessa diversa”.
Di fatto questo congetturare è quella declinazione al congiuntivo
del mondo di cui parla Bruner. Perciò esso è incorniciato
entro una condizione narrativa, anche se poi, a differenza del racconto,
si volge al mondo in cerca di conferme. Eppure ci si trova ancora al
cospetto del periodo ipotetico, enunciato o implicito, come modello cognitivo:
una strategia del pensiero, sia narrativo che paradigmatico.
Un tipico esperimento kantiano, per Medawar, è quello che genera
le geometrie non euclidee. In effetti tali geometrie nascono da un problema
congetturale che corrisponde perfettamente alla domanda da cui scaturisce
l'esperimento ideale, e cioè: “Che cosa accadrebbe
se al postulato euclideo dell'unicità della retta parallela
per un punto alla retta data si sostituisse un'altra ipotes?”.
Accadrebbe, ed è accaduto, che si possono costrire ulteriori
sistemi geometrici logicamente coerenti (geometria iperbolica, geometria
ellittica, geometria sferica ) che si candidano, come la geometria euclidea,
a modelli di rappresentazione della realtà. Eppure esse sono il
parto dell'immaginazione, degne di disegnare le strade del paese
delle meraviglie di Alice; sono narrazione di mondi possibili fondati
su congetture. Johannes Bolyai, uno dei matematici autori delle geometrie
non euclidee, mentre andava perfezionando la sua ricerca, nel 1823 scriveva
al padre: “ho scoperto cose così belle che ne sono
rimasto abbagliato (…) Dal nulla ho creato un nuovo mondo”.
Proprio come fa l'affabulatore, demiurgo della realtà virtuale.
D'altronde se si approfondisce il significato dell'aggettivo: ideale,
si può rintracciarvi l'idea della finzione, quel fingere col
pensiero in cui consiste l'esperienza interiore narrata da Leopardi
in L'infinito e che caratterizza
tutta la letteratura nella sua dimensione psicologica; lo stesso significato si
ritrova in ipotesi e rifulge nell'ut experirer che
Copernico rivendica per sé nella prefazione al De
revolutionibus orbium caelestis: “se, posto un certo movimento
della Terra, si possono trovare più ferme dimostrazioni (…) nella
rivoluzione degli orbi celesti”.
La finzione è l'effetto della dialettica tra possibilità e
necessità, serve alla mente dell'uomo, sia esso scienziato, narratore
oppure l'uno e l'altro insieme, per sperimentare la consistenza
della realtà e per progettarne il mutamento.
Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.
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