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Sono stato gentilmente invitato a dire qualcosa a proposito della vecchia disputa ruotante attorno a quel filo che lega - o sembrerebbe legare - il Teatro alla Poesia. Sono lusingato, quindi, di poter affiancare il mio pensiero a quello di voci molto più autorevoli della mia.
***
Fabio Doplicher scrive nell'introduzione all'antologia-catalogo da lui curata in occasione del Convegno Internazionale Il teatro dei poeti svoltosi a Roma al Teatro Sala Umberto nell'aprile del 1987 (Il teatro dei poeti, C.T.M., Roma, 1987): «I sostenitori di un teatro assoluto considerano la poesia come un elemento narrativo; quindi non scenico. Ma la staticità non è sinonimo della parola; anzi, un certo ritorno alla parola, con tutte le ambiguità che possono avere le mode, dipende anche da un effetto di saturazione che ha l'immagine». Sono passati quasi quindici anni ma credo che l'affermazione del poeta e drammaturgo triestino possa ancora rappresentare un buon punto di partenza per un'analisi approfondita del tema in questione. Anzi, probabilmente è soprattutto a causa di questa saturazione che si può parlare - e se ne parla apertamente anche in ambiente accademico - di una rinascita della poesia in questi ultimi anni.
Vorrei allargare il campo di indagine. Se in Italia - e in particolar modo a Trieste - c'è stata un cosiddetta rinascita della poesia - oppure solamente riscoperta, riacquistata visibilità? - in altri paesi a noi vicini il primato della poesia nel '900 non è quasi mai stato messo in discussione. Penso ai paesi della fascia mittleuropea - Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria - e a quelli dell'Est - la Russia su tutti. In particolare vorrei soffermarmi sull'Ungheria, giacché da diverso tempo vivo lì per motivi di studio.
La prima fonte di meraviglia è stata la scoperta
dell'esistenza di diversi gruppi musicali - di generi differenti e composti
per lo più da giovani - che scelgono come testi per le proprie
melodie poesie di autori ungheresi.
La seconda fonte di stupore è stata scoprire che questi gruppi
musicali spesso si esibiscono in concerti ai quali accorrono molti giovani,
concerti che si tengono nei locali più disparati, e lo sottolineo
per mettere in evidenza il fatto che - contrariamente a quanto si potrebbe
pensare - i luoghi privilegiati di queste performance non sono
"sacri", ovvero né teatri né circoli culturali.
La scelta del luogo viene fatta principalmente in base a necessità
di spazio e non di scelta ideologica. Sono quei ragazzi che irradiano
di sacralità i luoghi e non viceversa, o che addirittura trasformano
quelli che Augè ha chiamato "non-luoghi" in luoghi, grazie
alla forza magica della parola poetica che porta con sé il messaggio
dell'uomo e della Storia. Perché sia chiaro, la poesia ungherese
dalle origini è soprattutto poesia sociale, di forte contenuto
umano, a partire da Balassi Bàlint passando per Petofi Sàndor
fino alle voci più vicine di Jòzsef Attila e Radnòti
Miklòs, è il canto che incita il popolo magiaro a non cedere
mai, a resistere, anche dopo la tirannia della Chiesa, dei Turchi, degli
Asburgo, della dittatura fascista prima e di quella comunista poi. E'
un caso che un paese - forse l'unico al mondo - che ha perso tutte le
battaglie e le guerre della propria storia e sia stato assoggettato sempre,
in una maniera o nell'altra, dal suo arrivo in Europa prima dell'anno
mille, abbia un rapporto così visceralmente forte - almeno rispetto
all'Occidente europeo - con la poesia?
È un caso che anche negli anni più duri della propria storia quella gente, e per gente intendo la massa di persone che sta attorno al circolo dei pochi addetti ai lavori, abbia comprato i libri dei poeti, le riviste di poesia, abbia imparato quelle poesie? Ed è un caso che in Italia, come in paesi a noi simili per cultura, ciò non avvenga e non sia avvenuto? C'è un collegamento tra la sperimentazione linguistica nella poesia italiana degli anni '60 e '70 e la perdita di interesse da parte del pubblico? C'è un collegamento tra la spettacolarizzazione e la teatralizzazione della poesia negli anni '70 e quella poesia incentrata sulla sperimentazione del linguaggio? Cito nuovamente Doplicher: «Occorre vera sperimentazione, non gioco con le parole. Il salotto borghese e la comune rivoluzionaria sono ipotesi del passato; se ci sono poche speranze a questo mondo, tocca a noi inventarle, ma nelle cose, non nel gioco della pagina, arido e gretto». Credo che quel modo di far poesia, da "grammatici" - Zanzotto stesso ha affermato in un'intervista di considerarsi più che altro un botanico delle grammatiche - da linguisti, abbia provocato un gap, una frattura tra l'artista e il pubblico e credo che si sia ricorsi al teatro per tentare di colmare quel vuoto.
Ma se il rapporto tra teatro e poesia si fonda sull'attenzione per la parola in tutte le sue possibili emanazioni, come può essere questo rapporto onesto e proficuo se il nodo di quel legame è debolmente formato dall'intreccio non di funi ma di fili invisibili? Pasolini, in Affabulazione, ha detto che « nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata. E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata». Ma quale gloria per una parola vuota? Grotowski ha detto in un'intervista rilasciata nel 1967 (questa e le altre che citerò sono raccolte in Per un teatro povero, Mario Bulzoni Editore, Roma, 1970): «Per me, creatore di teatro, le parole non sono importanti; per me, la sola cosa che conti è ciò che si può ricavare da queste parole, ciò che dà vita alle parole inanimate del testo, e le trasforma in "Verbo"».
Allora la domanda che sorge è la seguente: deve
essere la parola a genuflettersi di fronte al sistema-Grotowski o il sistema
Grotowski di fronte alla parola? E quale parola, quella ridotta a puro
significante? È chiaro che la nostra posizione è nettamente
dalla parte del Significato, del Messaggio che utilizza la parola per
poter espandersi. «Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre
cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del
teatro» dice Artaud in Basta con i capolavori e questo
è uno dei messaggi che potrebbe passare, ma ne potrebbero passare
altri, all'infinito. L'importante è che questo passaggio avvenga,
che il Messaggio arrivi, e che colpisca lo spettatore, che lo inchiodi
al suo posto - posto a sedere, in piedi, non importa - che lo faccia provare
un'emozione e allo stesso tempo generi in lui una riflessione. E non devono
essere separati l'uno dall'altro questi due momenti: irrazionale e razionale
devono mescolarsi assieme, l'uno indispensabile all'altro. Ecco perché
il Teatro ha bisogno della Poesia e viceversa. Perché la poesia,
come dice Paolo Ruffilli nell'antologia curata dal Doplicher, «anche
se è fatta per essere scritta (secondo non tanto una tradizione
ormai plurisecolare, ma una discriminante categoriale vera e propria),
nella sua dimensione di scrittura la poesia conserva (deve conservare)
tutto il suo sviluppo di "pronuncia"» perché, continua:
«il libro in generale, e quello di poesia in particolare, è anche
una scatola sonora»
Quando trovo
n questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso
possiamo finalmente focalizzare il punto d'incontro tra teatro e poesia, partendo da una considerazione di carattere etimologico: se il greco poiein significa "fare" e il greco drama significa "azione" - un'azione, un fare che origina la parola e che da essa stessa viene originato - allora ci rendiamo conto di quanto sia forte sia nella parola poetica che in quella teatrale la pulsione al movimento, alla dinamicità, come se alla base di ambedue ci fosse la sottesa volontà di andare verso qualcosa o qualcuno, di fare da ponte, senza però smettere di essere in movimento, come se l'esplorazione in profondità dei diversi livelli di realtà che le connota non potesse mai esaurirsi, nemmeno nel lettore o nello spettatore, anzi, dovesse oltrepassare sonoramente, visivamente, epidermicamente e mentalmente il fruitore per poi tornare sul palco e continuare il suo incessante divenire in una sorta di andamento a spirale crescente.
E se ci soffermiamo sulla valenza etimologica non possiamo fare a meno di osservare il "fare" come volontà di cambiamento, come possibilità di inventare le speranze nelle cose e non nel gioco gretto della pagina, citando nuovamente, ma con più cognizione di causa, il Doplicher. «Non c'è altra poesia che l'azione reale...» ci conforta Pasolini in Poeta delle Ceneri, e un'affermazione del genere presuppone incontestabilmente un modo di poetare conscio della susa stessa essenza e dunque una poesia che ha bisogno, per esplicitare questa sua tendenza implicita, di un luogo adatto a questa azione e simultaneamente di qualcuno che all'interno di questo luogo sia egli stesso adatto a farsi da tramite.
Il punto che si presenta ora è: questo qualcuno è l'attore professionista, il poeta, o l'uomo qualunque? O qualcos'altro di cui ancora non riusciamo a tracciare distintamente i contorni? Cesare Milanese, nell'antologia del Doplicher, a proposito della declamazione di poesie in teatro: «Ogni prova a cui il testo venga sottoposto è buona. Spetta a chi ascolta approvare o disapprovare. In queste prove non teatrali l'autore si salva sempre. Per quanto la sua voce possa risultare tonicamente "sgrammaticata" e sbagliata, essa comporta sempre un dato di verità, quello del possedere un ritmo corporeo che conosce la pulsione da cui la poesia si è generata». Ha ragione Milanese oppure dovremmo seguire le indicazioni del Grotowski quando dice che «lo spettatore deve essere circondato dalla voce dell'attore come se questa provenisse da ogni direzione e non soltanto dal posto dove l'attore si trova. Persino i muri devono parlare con la voce dell'attore»? L'autore sgrammaticato oppure l'attore grammaticato? Oppure qualcos'altro?
Il Premio Nobel Dario Fo afferma, nella "Quinta giornata" del Manuale minimo dell'attore, che il modo di leggere dei poeti provoca la fioritura nel ventre di «vermi di una spanna» però poi aggiunge, rivolgendosi ad un immaginario aspirante attore: «Quando imparate un testo cercate di ritradurvelo prima con parole vostre, e poi nel vostro dialetto, se ne avete uno. È una grande sfortuna per un attore non possedere un dialetto come fondo alla propria recitazione. Ho conosciuto attori che ne erano privi: dicevano le battute proiettando fonemi piatti, asettici, e senza nessuna musicalità nei toni e nelle cadenze». Nel dialetto per Fo - e noi non possiamo che concordare con lui - «le cadenze e i respiri, le parole, le costruzioni grammaticali sono autentiche, non c'è niente di costruito». Eccoci al nodo della questione. La Poesia è fare autentico o dissimulato? Il Poeta è un fingitore come scrive paradossalmente Pessoa in una delle sue più celebri poesie oppure un cactus spinoso / di malumore come scrive il nostro Penco in Il cactus, nella mirabile raccolta che va sotto il titolo di Ballate dal Mary Celeste? «Perché fare poesie è una battaglia ogni giorno / con il comune senso del pudore, / perché fare poesie non è un tic nervoso» secondo Penco, e noi concordiamo a pieno con lui quando raffigura il poeta come un umile e buffo personaggio - un Perdente, come mi ha raccontato personalmente in una conversazione qualche tempo fa - che è costretto a lottare, donchisciottianamente, ogni giorno per tirare fuori quella parola che, se in parte lo alleggerirà, d'altra parte lo renderà ancora più curvo e disilluso.
«Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c'è sempre / qualche peso di troppo, non c'è mai / alcun verso che basti / se domani tu stesso te ne scordi»: la poesia I versi, tratta da Gli strumenti umani di Sereni, illustra bene questo sforzo che sta alla base della condizione del poeta e sarebbe non solo assurdo da parte nostra situare nello spazio dell'Inautentico questa attitudine esistenziale, ma anche illogico, giacché significherebbe attribuire una fondamentale pulsione masochistica alla psicologia dei poeti e una volontà di utilizzare la parola per secondi fini. Nessuno si diverte a lottare contro i mulini a vento dopo aver scoperto che non sono giganti, soprattutto se questa lotta non frutta, come nella maggior parte dei casi, né fama né denaro. La letteratura ungherese esalta la figura del poeta umile e povero - il celebre verso conclusivo di Attila Jòzsef in Sette giorni: Amici, da sette giorni non mangio - che combatte per la dignità del suo popolo e gli insegna anche ad accettare la rassegnazione, il valore della sconfitta, della diversità. Il 2 novembre 1956, a Budapest, durante i giorni della Rivoluzione contro i sovietici, fu il famoso poeta Gyula Illyès a declamare alla radio l'ode intitolata Una frase sulla tirannia, e lo fece, stando alle cronache, con voce alquanto tremante all'inizio. Ma quella lettura sgrammaticata e pericolante non ha forse rispecchiato la sua anima, quella stessa anima in cui quei versi, anche sonoramente, erano stati concepiti? E non hanno forse incitato alla lotta e alla resistenza e alla speranza quella voce tremebonda e rabbiosa, quella dizione imperfetta, quella lettura da far crescere i vermi nello stomaco? Sarebbe stato meglio sostituirlo con un attore che quei versi avrebbe dovuto inautenticamente tentare di trapiantare in se stesso per farli germogliare con un ritmo e una musica nuovi?
In un paese come l'Ungheria il '900 è stato un secolo in cui il potere - fascista, comunista - ha monopolizzato il linguaggio e ha strumentalizzato le immagini per dare al popolo una rappresentazione fittizia della realtà. La risposta del popolo è stata in termini di vite da una parte, e in affermazione di pienezza di parola dall'altra. Contro la retorica dei regimi, contro il bavaglio, i poeti - e solo in parte i drammaturghi - hanno risposto con la parola pregna, non ermetica, con il messaggio forte. Una commedia di uno dei più celebrati scrittori magiari del '900 - Orkèny Istvàn - intitolata Scenario mostra la forza deformante della pubblicità sovietica negli anni '50 e inscena la storia in un circo, l'unico luogo che in quel periodo sfuggiva alla censura e al controllo, dimostrando la spettacolarizzazione assurda e spietata che quel potere aveva imposto. Tuttavia il paradigma del poeta che legge i propri versi alla radio contro la tirannia nel momento stesso della rivolta dovrebbe far pensare. Fare non si deve tradurre con agire concretamente per modificare materialmente la realtà, bensì con tensione che permetta di avere costantemente uno sguardo vigile, umilmente sensibile e rivolto alle possibilità di cambiamento né dimentico di ciò che potrebbe perdere. Uno stare all'erta dinamico che garantisca la formazione di quello stato interiore in cui si possano fondere assieme, non mescolandosi, pensiero razionale e emozione.
Che fare praticamente? Semplicemente togliere l'aura di sacralità che circonda il teatro così come la poesia, evitare i settarismi, destrutturare le pseudo-bibbie del settore che propongono tecniche impareggiabili per conseguire il massimo risultato nel campo della scrittura e della recitazione, incoraggiare la diffusione della modestia presso gli attori e i poeti, aspiranti o spiranti che siano.
Concludo portando queste riflessioni di Doplicher, tratte dalla solita antologia: «Rivendicando alla poesia un primato nel campo del pensiero, non si rinuncia all'emozione, all'immagine, a ogni possibile traduzione del sensibile, come d'altronde ogni poesia "classica" (compresa la classicità dell'avanguardia storica) ha fatto; ma così la poesia viene messa al riparo dai due pericoli maggiori che oggi corre: quello di diventare ancor di più campo di esercitazione per i grammatici che si chiudono in una artistica dissezione del linguaggio, e quello di proporsi, nella accezione comune e nella pratica "media", come l'ultimo dei mezzi di comunicazione di massa, trasformandosi, insomma, nella subalternità del significante, da Cenerentola a prostituta».
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