Di Raffaella Di Meglio
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• Un'opera indimenticabile salvata
dal rischio dell'oblìo
• Lo scienziato, l'uomo, lo scrittore: “massimo
rigore e minimo ingombro”
• Un microcosmo di lucida follia
• L'infelicità imperfetta: “Fatti non foste
a viver come bruti ...”
• Questo è un uomo
Un'opera indimenticabile salvata dal rischio dell'oblìo
Edizione De Silva del 1947 | Edizione Einaudi del 1956 | Edizione Einaudi oggi |
Forse pochi sanno o ricordano che il manoscritto di Se questo è un
uomo, dopo essere stato rifiutato da alcuni grandi editori, tra
cui Einaudi, fu stampato nel 1947 da una piccola casa editrice torinese,
la De Silva. Nonostante la buona accoglienza da parte della critica e
l'entusiastica recensione di Italo Calvino, l'opera ebbe scarso successo
e rimase pressoché dimenticata per circa un decennio, durante
il quale Primo Levi, deluso dal risultato e poco fiducioso nelle sue
doti espressive, decise di dedicarsi esclusivamente alla professione
di chimico.
Fu il sincero e vivo interesse dimostrato da alcuni ragazzi in occasione
di una mostra sulla deportazione a Torino nel 1956 che incoraggiò Levi
a riproporre Se questo è un uomo all'editore Einaudi.
L'opera finalmente uscì dall'oblio (Einaudi la pubblicò nel
1958 nella collana “Saggi”) e da allora ha conosciuto una
fama e una vitalità inesauribili.
Lo scienziato, l'uomo, lo scrittore: “massimo rigore e minimo ingombro”
I ricordi dell'anno (febbraio 1944 - 27 gennaio 1945) trascorso dal giovane Primo Levi nel Lager di Buna-Monowitz divennero un libro nel giro di pochi mesi: Levi iniziò a scriverlo appena tornato a casa, spinto da un'ansia febbrile, da un insopprimibile, quasi violento bisogno di raccontare:
[...] Ero tornato dalla prigionia da tre mesi, e vivevo male. Le cose viste e sofferte mi bruciavano dentro; mi sentivo più vicino ai morti che ai vivi, e colpevole di essere uomo, perché gli uomini avevano edificato Auschwitz, ed Auschwitz aveva ingoiato milioni di esseri umani, e molti miei amici, ed una donna che mi stava nel cuore. Mi pareva che mi sarei purificato raccontando, e mi sentivo simile al Vecchio Marinaio di Coleridge, che abbranca in strada i convitati che vanno alla festa per infliggere loro la sua storia di malefizi. Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per iscritto, tanto che a poco a poco ne nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo [...] (da Cromo, in Il sistema periodico, 1975)
Considerata la velocità e l'urgenza della stesura, colpisce ancora
di più il tono del racconto, “pacato e sobrio”, e
allo stesso tempo vitale, talvolta inaspettatamente ironico, comunque
mai lamentoso, mai astioso, mai retorico, mai morboso.
Colpisce il fatto che Se questo è un uomo, oltre ad essere
la preziosa testimonianza di un reduce di un campo nazista, è una
sorta di studio-riflessione sulle capacità di adattamento dell'essere
umano in condizioni estreme: in un punto del suo libro Levi definisce
il Lager “una gigantesca esperienza biologica e sociale”,
l’ideale per un ipotetico sperimentatore che volesse studiare “il
comportamento dell’animale-uomo di fronte alla lotta per la vita”.
Rimarrebbe dunque deluso o sorpreso chi si aspettasse atti d'accusa,
propositi di vendetta, parole di (auto-)commiserazione o di recriminazione,
scene brutali e cruente, perché lo scrittore, spesso mettendo
da parte se stesso, si concentra, con la lucidità dello scienziato,
dell'antropologo-etologo, sul meccanismo diabolico del Lager, sulla metamorfosi
fisica e morale subita da se stesso e dagli altri prigionieri.
Levi era un chimico (si era laureato con lode a Torino nel 1941) e la
sua formazione scientifica si percepisce nella precisione delle descrizioni,
affiora nell'attenzione ai dettagli, nell'acutezza dell'osservazione,
nell'attitudine allo studio metodico di ciò che lo circonda,
nella capacità di registrare, di sistematizzare, di classificare.
Eppure lo sguardo dello scienziato, che è animato da un insopprimibile
desiderio di capire, che crede nella ragione e non vi rinuncia nemmeno
di fronte all'assurdità mostruosa del Lager, non è mai
cinico, perché non è mai separato dallo sguardo dell'uomo,
che è animato da un innato e incrollabile rispetto per l'essere
umano e per la vita, che non perde l'interesse per l'animo umano nemmeno
di fronte a chi ha sepolto la propria umanità sotto strati di
odio o di paura e tenta di annullare ogni traccia di quella altrui.
Emblematica di tale sorprendente apertura verso l'altro, così disarmante
nella sua sincerità, è la rievocazione dell'incontro tra
vittima e carnefice contenuta nel capitolo “L'esame di chimica”.
Accompagnato da un Kapo, Levi si trova di fronte al Doktor Pannwitz per
sostenere un esame di chimica che avrebbe contribuito a salvargli la
vita:
Pannwitz è alto, magro, biondo; ha gli occhi, i capelli e
il naso come tutti i tedeschi devono averli, e siede formidabilmente
dietro una complicata scrivania. Io, Häftling 174 517,
sto in piedi nel suo studio che è un vero studio, lucido pulito
e ordinato, e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi
toccare. Quando ebbe finito di scrivere, alzò gli occhi e mi
guardò.
Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e
in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento
di uomo; come riempisse il suo tempo, all'infuori della Polimerizzazione
e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato
di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non
già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell'anima
umana. Perché quello sguardo non corse fra due uomini; e se
io sapessi spiegare a fondo la natura di quello sguardo, scambiato
come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che
abitano mezzi diversi, avrei anche spiegato l'essenza della grande
follia della terza Germania. [...]
Il desiderio, forse l'ossessione, di incontrare ancora l'“altro” da uomo libero, unito all'intrinseca incapacità di provare odio o desiderio di vendetta, di vedere nell'“altro” l'avversario anziché l'uomo, sembra non avere mai abbandonato Levi, che lo esprime con analoga intensità in uno dei racconti de Il sistema periodico (1975), Vanadio. Il testo ruota intorno alla casuale ricomparsa (rimasta solo epistolare) nella sua nuova vita post-Lager di chimico in una fabbrica di vernici, di un certo Doktor Müller, che era stato uno degli ispettori del laboratorio di chimica della fabbrica di Buna, dove Levi fu ammesso a lavorare grazie al famoso esame con Pannwitz.
[...] Ritrovarmi, da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli «altri» era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager. Era stato soddisfatto solo in parte dalle lettere dei miei lettori tedeschi [...] L'incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi. Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure, e per dire «dunque?» [...]
In Se questo è un uomo la curiosità dello
scienziato e la curiosità dell'uomo si fondono; l'obiettività,
la lucidità del chimico si combinano con la vitalità, il
calore, la modestia e il garbo del giovane uomo, e con l'efficacia, la
forza espressiva, il talento dello scrittore “per caso” e
per necessità, alieno da particolari intenti letterari, eppure
così abile nel tradurre in parole realtà indicibili, nell'esprimere
quell'“offesa” per cui “la nostra lingua manca di parole”.
È anche questo insolito connubio che rende così speciale e vivida
la testimonianza di Levi.
[...] Lo stesso mio scrivere diventò [...] un costruire lucido [...]: un'opera di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s'industria di rispondere ai perché. Accanto al sollievo liberatorio che è proprio del reduce che racconta, provavo ora nello scrivere un piacere complesso, intenso e nuovo, simile a quello sperimentato da studente nel penetrare l'ordine solenne del calcolo differenziale. Era esaltante cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte; ricavare le cose dal ricordo, e descriverle col massimo rigore e il minimo ingombro. Paradossalmente, il mio bagaglio di memorie atroci diventava una ricchezza, un seme; mi pareva, scrivendo, di crescere come una pianta. (da Cromo, in Il sistema periodico, 1975)
Di stupefacente potenza espressiva per il suo impatto visivo è il grottesca sequenza sul pasto della draga e sulla danza dei pomi d'Adamo, con cui Levi riesce a rendere la sensazione allucinatoria e ossessiva di fame provata dagli internati:
Ma come si potrebbe pensare di non aver
fame? Il Lager è la
fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente.
Al di là della strada lavora una draga. La benna, sospesa
ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante
nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida, e azzanna
vorace, mentre dalla cabina di comando sale uno sbuffo soddisfatto
di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo
il boccone di cui è grave, e ricomincia.
Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare affascinati.
A ogni morso della benna, le bocche si socchiudono, i pomi d'Adamo
danzano in su e poi in giù, miseramente visibili sotto la pelle
floscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della
draga.
Un microcosmo di lucida follia
Attraverso il resoconto di Levi il Lager si configura
come una sorta di microcosmo di “follia geometrica”, assurdamente razionale,
con una sua topografia, con una sua economia, una sua Borsa e una sua
moneta (il pane), con una sua etica, con gerarchie sociali, cerimonie
e riti. Insomma un sistema, regolato dalla maniacale e assurda precisione
tedesca; un “groviglio di leggi e divieti”, una babele
di lingue, dove tutto è sovvertito, dove si deve re-imparare
a vivere: cambiano i valori morali (il concetto di bene e di male,
il concetto di fortuna) e materiali (preziosissimi diventano un piccolo
pezzo di pane, una scarpa, un cucchiaio, un brandello di stoffa); nasce
persino un gergo (“mai” si dice “Morgen früh”,
domani mattina); nuovi sono i sogni, i bisogni, nuovi gli istinti,
che indeboliscono, fino quasi a spegnere, le emozioni e i sentimenti.
Anche lo spazio e il tempo nel campo assumono una dimensione propria.
Lo spazio esterno è dominato dalla neve, dalla pioggia, dal vento
gelido, dalle “nuvole maligne”, dal fango onnipresente, dal
grigio del ferro (“lo squallore del ferro in travaglio”),
del cemento, del fumo, dalla “presenza cattiva del filo spinato” che
segrega dal mondo; quello interno dall’angustia dei dormitori,
dove ci si ritrovano accanto al viso i piedi di un anonimo vicino di
cui si conosce meglio il dorso che il volto.
Il tempo, “sterile e stagnante”, scandito dalla posizione
di un sole così freddo e bianco che si può guardare fisso, è un
non-tempo per i prigionieri: le ore, i giorni, i mesi passano tutti uguali
e sono subito annullati, dimenticati.
Questo mondo ha suoni, voci e odori propri. Ogni Häftling, una volta
entrato nel campo, assume il caratteristico odore, “scialbo e
dolciastro”, che impregna ogni cosa.
Ma sono soprattutto i suoni a scandire questa nuova vita. Ci sono quelli
imposti dai tedeschi: il suono della campana e della sirena; la musica
infernale delle marce tedesche, accompagnata dal rumore degli zoccoli
di legno dei prigionieri, “automi” costretti a quella umiliante “danza
di uomini spenti”, spettacolo imperdibile per le SS; gli ordini
in tedesco o in polacco. Tra tutti, il micidiale e angosciante “Wstawać” della
sveglia, una condanna rinnovata ogni mattina:
Per tutta la durata della notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila l'attesa e il terrore del momento della sveglia [...] Pochissimi attendono dormendo lo Wstawać: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro non si sciolga al suo approssimarsi. [...] La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi. “Alzarsi”: l'illusoria barriera delle coperte calde, l'esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all'offesa, atrocemente nudi e vulnerabili.
Ci sono i rumori dei prigionieri, che si ostinano ancora a raschiare
il fondo lucido della gamella dopo un'ora dalla distribuzione del rancio
serale, che nel sonno schioccano le labbra e muovono le mascelle, sognando
di mangiare.
È un “mondo feroce”, dove la solitudine di ognuno è disperata
e atroce, la lotta per la sopravvivenza spietata, ma “che pure era un
mondo”.
L'infelicità imperfetta: “Fatti non foste a viver come bruti ...”
Allora si scopre che “l’infelicità perfetta” -
proprio come la felicità perfetta - “è irrealizzabile”,
non esiste; si scopre che l’assillo dei disagi materiali come il
Freddo, la Fame, la sete e le percosse, paradossalmente salva, perché impedisce
di pensare.
Allora emergono “forze sotterranee”, emergono insospettate
e innumerevoli vie per non morire: si salva chi è fortunato,
ma anche chi impara a economizzare le forze e le parole, ad affinare
i sensi (per distinguere il livello del secchio di urina ed evitarne
la vuotatura, o per adocchiare al volo la scarpa giusta); chi impara
ad aguzzare l’ingegno e l’istinto, la volontà, la
pazienza; chi impara a rubare e a non farsi derubare, a trafficare; chi
non obbedisce passivamente e chi non cerca di capire, chi riesce a “spegnere
la coscienza”, a non avere pietà.
Ma resiste anche chi si illumina al ricordo improvviso e casuale dei
versi del dantesco Canto di Ulisse (titolo di uno dei capitoli
più intensi e famosi del romanzo), che risuonano nella memoria
come “uno squillo di tromba, come la voce di Dio”, perché paiono
scritti apposta per loro, “uomini in travaglio”, per far
dimenticare loro “chi sono e dove sono” e ricordare invece
che Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute
e canoscenza.
Resiste chi vuole ostinatamente riconoscere, sempre e nonostante tutto,
dentro di sé e intorno a sé, in mezzo a tanti “pupazzi
miserabili e sordidi”, schiavi e padroni, l’umanità “pura
e incontaminata”; si salva chi riesce a vedere e a trovare persino
un amico: Alberto, Lorenzo, Pikolo ...
[...] Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l'animo umano [...] E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale. (Dall'appendice per l'edizione scolastica di Se questo è un uomo, 1976)
Se questo è un uomo è una testimonianza sulla Shoah ma
anche sulla resistenza umana. È una imperdibile e profonda lezione
di civiltà, di dignità, di rispetto e amore per l'essenza
dell'uomo e per la vita.
Dovrebbe diventare il nostro “squillo di tromba”, che ci
ricorda ciò che ci rende uomini.
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