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Lucrezio, De rerum natura, III, 31-93: come liberarsi dalla paura della morte

di Raffaella Di Meglio

Nella categoria: HOME | Articoli critici

Analisi:
La regione e il piacere contro le paure e le superstizioni
La paura della morte, causa dell'infelicità degli uomini
Effetti della paura della morte sul comportamento umano
Degradazione dell'animo umano. Quale rimedio?
Il linguaggio e la poetica di Lucrezio
Lucrezio e il suo tempo
Lucrezio oggi

 

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Analisi

La ragione e il piacere contro le paure e le superstizioni

I versi sono tratti dal III libro del De rerum natura, opera del poeta latino Tito Lucrezio Caro (99? a.C. – 55? a.C.), pubblicato postumo da Cicerone intorno al 53 a. C. Il poema, strutturato in sei libri di esametri, rappresenta un’appassionata opera di difesa e di divulgazione dell’epicureismo, dottrina filosofica ellenistica fondata da Epicuro alla fine del sec. IV a. C., che proprio grazie a Lucrezio conobbe ampia fortuna nel mondo romano.
Preceduto dal secondo dei quattro elogi di Epicuro inseriti nell’opera, il verso 31 si apre con una formula di passaggio tipicamente lucreziana e propria del genere del poema didascalico, et quoniam docui, che introduce una sintesi dei contenuti del libro precedente, dedicato alla teoria dell’aggregazione e disgregazione dei corpi.
Nei due versi successivi Lucrezio anticipa il nuovo argomento, la teoria dell’anima, con una variatio del soggetto ottenuta attraverso l’uso della perifrastica passiva (animi natura atque animae claranda esse), che dà l’idea dell’urgenza didattica avvertita dal fedele ed entusiasta seguace di Epicuro. Significativo è l’uso del verbo clarare che, oltre ad indicare la ricerca, lo sforzo di chiarezza, perseguito non senza difficoltà e con l’orgoglio di sperimentare una nuova strada, quella della poesia filosofica, introduce una prima immagine di luce, la luce della ragione e della poesia, contrapposta all’oscurità dell’ignoranza, secondo quell’antitesi luce-tenebre, vita-morte, che permea tutto il De rerum natura.
L’espressione claranda meis … versibus esse suona inoltre come un’implicita dichiarazione di poetica: i versi sono il mezzo per il fine, la poesia diventa strumento di verità; scienza filosofica e poesia si integrano, la seconda necessaria alla prima.
L’et del v. 37 introduce una perifrastica coordinata (metus … agendus), il cui sviluppo maggiore e sintatticamente più complesso (si prolunga nella relativa introdotta da qui) tradisce la predominanza dell’altro scopo dell’argomentazione: la rimozione della paura della morte (metus ille foras praeceps Acheruntis agendus). La missione a cui si dedica con l’entusiasmo del poeta-vate è proprio quella di far conoscere la dottrina del suo Maestro ed eroe, Epicuro, per liberare gli uomini dalle superstizioni, dai falsi timori, dalle angosce, e restituire loro la gioia, il piacere (la voluptas del v.40, parola chiave della filosofia epicurea) e la forza della sapienza. Ed è la convinzione della propria missione profetica, l’ansia di liberazione a dare al poema una tensione emotiva che stempera l’aridità e l’oscurità della materia.

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La paura della morte, causa dell’infelicità degli uomini

È infatti la paura della morte il tema centrale su cui Lucrezio si dilungherà, rimandando invece la più ardua trattazione teorica or ora annunciata.
L’ispirazione del poeta non è solo razionale, è anche passionale ed è questa che lo induce, a scapito dello sviluppo logico e ordinato dell’argomentazione, ad un’insistenza quasi ossessiva sulla paura della morte, la principale responsabile, insieme alla quella degli dei, dei profondi turbamenti della vita umana, stando ai dettami epicurei. Questa insistenza trova riscontro nei numerosi sintagmi sinonimici che Lucrezio “sparge” nei suoi versi per indicare la paura della morte: metus Acheruntis, mortis nigrore, Tartara leti (altro pleonasmo), mortis formidine (usato due volte), leti portas, falso terrore, eodem timore, Acherusia templa (usata anche nel I libro), terrorem animi; inoltre quattro volte è usata la parola tenebra (vv. 77, 88, 90, 91).
Nei versi 37-40 colpisce soprattutto la concretezza delle immagini usate, qualità tipica del linguaggio lucreziano, che tende a dare un rilievo fisico, tangibile, visibile a concetti astratti - in questo caso quello della morte - visualizzandoli, quasi a volerli rendere “fisicamente” cancellabili nella mente del destinatario. La forza visiva del linguaggio lucreziano emerge in espressioni quali foras praeceps agendus (v. 37) riferito a metus Acheruntis, o suffundens omnia nigrore (v. 39) che oggettivizza la morte in una sorta di liquido che si sparge sulle cose; a questa immagine si richiama, nel verso successivo, l’aggettivo liquidam riferito a voluptatem, ad indicare la limpidezza, la chiarezza, la serenità della gioia, contrapposta al torbido e angoscioso mortis nigrore.
Da notare anche la ridondanza e il disordine del v. 38, dovuti all’uso dell’iperbato e dell’anastrofe (funditus … ab imo in rilievo ai due estremi del verso, qui con funzione di soggetto interposto a metà verso tra humanam e vitam; funditus è ripreso da suffundens del verso successivo), che possono essere sì imputabili alla mancata revisione del poema, ma qui sembrano tradurre sintatticamente il disordine, l’abisso interiore provocato nell’uomo dal timore della morte.

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Effetti della paura della morte sul comportamento umano

A questo punto prende l’avvio una lunga digressione rispetto alla trattazione teorica, dedicata agli effetti provocati dalla paura della morte sul comportamento umano. Lucrezio spesso tende ad insistere sugli aspetti negativi dell’esistenza, sugli errori e sulle debolezze umane piuttosto che sulla parte positiva della dottrina epicurea.
Da qui nascono quelle pagine cupe e tristi che hanno indotto alcuni studiosi a vedere una contraddizione tra il pessimismo del discepolo e l’ottimismo del maestro o a trovarvi una conferma dell’instabilità psicologica di Lucrezio, della leggendaria insania (pazzia) tramandata da san Gerolamo. In realtà, dato il carattere insieme filosofico-scientifico e poetico, razionale e irrazionale proprio del De rerum natura, dato quell’ardente desiderio di consolare ed illuminare i lettori che anima il poeta, il pathos e la drammaticità di certe immagini, l’insistenza sulle false opinioni e sui comportamenti sbagliati servono a suscitare emozioni forti, a rendere più persuasivo il messaggio e a far risaltare per contrasto la filosofia epicurea come unico mezzo per vincere e sradicare questi errori. Rientra in questo intento anche l’ampio ricorso all’antitesi, come osserva Dionigi nel suo saggio Lucrezio. Le parole e le cose: non solo luce/tenebre, ma anche ignoranza/sapienza, religione/filosofia, apparenza/realtà.
Lucrezio mira innanzitutto a screditare la sicurezza, la baldanza ostentate da certi uomini (vv.41-47). Utilizza un verbo forte, iactari, che lascia intendere la sostanziale debolezza delle opinioni umane; il poeta non nasconde il suo ironico giudizio sull’incostanza - si fert ita forte voluntas, dove l’allitterazione della /f/ rafforza l’idea di volubilità - di chi si vanta di non aver bisogno della ratio epicurea (nec prorsum quicquam nostrae rationis egere), aderendo ora ad un’opinione ora ad un’altra (anima fatta di sangue o di aria). Fa la sua comparsa un termine fondamentale, ratio (ricompare al v. 93 in posizione di rilievo), unica fonte e garanzia di verità, che si oppone verticalmente a voluntas, l’umano arbitrio, del verso precedente.
Lucrezio passa dunque a smascherare le contraddizioni di questi stessi uomini (idem), che, quando si trovano in situazioni avverse per essersi macchiati di crimini tali da essere cacciati, esiliati, cedono ai fantasmi e ai ricatti della religio. Si noti la climax in questa sorta di elenco di esempi di quell’infamem vitam del v. 42, contenuto nei vv.48-50: extorres, fugati, foedati, adfecti. Il poeta, aspramente critico nei confronti della religione ufficiale, inserisce qui (vv. 50-54) precisi riferimenti al culto religioso romano contemporaneo - i Parentalia, il sacrificio di vittime nere per i morti, le offerte agli dei Mani - con un’enfasi sarcastica data dal polisindeto incalzante dei vv. 51-53 (et quocumque, et nigras, et manibu’, multoque), dalle allitterazioni della /m/ e della /a/ nei vv. 52-54 (mactant, manibu’, mittunt, multoque; acerbis acrius advertunt animos) e dalla sonora chiusura con la parola-chiave religionem.
A questo inserto di tipo narrativo-descrittivo segue, nei vv. 55-58, una riflessione conclusiva di carattere sentenzioso - si noti l’uso dell’impersonale convenit - a conferma della fragilità e incoerenza del comportamento umano: l’uomo si osserva meglio in dubiis … periclis (l’iperbato evidenzia dubiis), si conosce adversis in rebus, sintagma che si ricollega a in rebus acerbis del v. 53 ed amplifica il concetto delle circostanze avverse. Spiega Lucrezio (nam) che proprio in queste situazioni la verità emerge dietro la maschera (persona): anche qui il sintagma metonimico verae voces, rafforzato dall’allitterazione, si accorda allo stile icastico di Lucrezio, confermato dalla scelta dei verbi eliciuntur e eripitur, la cui forza semantica richiama espressioni come foras praeceps agendus del v. 37 e iactari del v.47.
Il poeta passa poi (vv. 59-64) a deprecare, preso dal suo furore didattico-moralistico, i vulnera vitae alimentati dalla paura della morte, che portano all’avidità, all’ambizione, e quindi al sovvertimento dell’ordine morale e civile. Si tratta di un topos della letteratura contemporanea, presente anche in Sallustio e in Cicerone: avarities, honorum caeca cupido del v. 59 sono gli stessi vizi denunciati dai prosatori contemporanei. Ciò pare smentire il presunto disimpegno ed isolamento lucreziano nei confronti del suo tempo, sebbene manchino nella sua opera riferimenti diretti all’attualità. Anche in questo passo Lucrezio ricorre ad artifici stilistici quali l’enjambement che mette in rilievo iuris al v.61 e vulnera vitae al v. 63, le allitterazioni (socios scelerum, vulnera vitae), l’inversione chiastica tra vulnera vitae e mortis formidine del verso successivo, la litote non minimam partem.

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Degradazione dell’animo umano. Quale rimedio?

Ancora più studiati e di grande intensità espressiva sono i vv.70-73, in cui il poeta insiste sull’argomento dipingendo un quadro ripugnante della degradazione cui può arrivare l’uomo per sfuggire al contemptus e all’egestas associati alla morte: studiata è la collocazione dei due infiniti perfetti effugisse e remosse collegati dalla ripresa dell’avverbio longe (su questo tema della fuga da se stessi e dalle proprie inquietudini, del commutare locum, che sarà ripreso da Orazio e da Seneca, il poeta ritorna nel finale del libro); il poliptoto caedem caede, con cui prosegue l’insistente allitterazione della /c/ che dal verso precedente (conflant) si prolunga fino ai vv. 72 (crudeles) e 73 (consanguineum); studiatissima anche la collocazione e la scelta delle parole di tutto il verso 71, iconico nel rendere l’immagine dell’ammassarsi di ricchezze e di stragi attraverso i due verbi sinonimici, conduplicant e accumulantes in risalto per l’insolita lunghezza alle due estremità del verso. Un’ennesima ridondanza si crea con conflant del verso precedente, allitterante con conduplicant: riaffiora ancora una volta la cosiddetta abundantia lucreziana.
La pausa forte al v. 71 segna il passaggio al distico finale di questo gruppo di versi, cui sono affidate le immagini della massima crudeltà e brutalità raggiunte persino nella vita privata, nei confronti dei propri cari: qui sono la pesantezza del ritmo spondaico e la struttura fonica del v.72 con le insistenti allitterazioni (crudeles … tristi funere fratris) ad enfatizzare la tristezza del contenuto. L’uomo, perso ogni sentimento di umana pietà e solidarietà, si consuma nell’invidia dei potenti - spicca l’antitesi verticale tra illum e ipsi, entrambi in incipit rispettivamente al v.76 e 77 - fino a cercare paradossalmente nel suicidio quella stessa morte tanto temuta.
In tutto questo drammatico, patetico scenario la presenza dell’autore è rivelata da espressioni, soprattutto aggettivi valutativi, che esprimono sì il punto di vista dell’intellettuale “illuminato” dalla dottrina del Maestro, ma tradiscono anche la pietà del poeta (miseri del v. 51, miseros homines del v. 60, marenti pectore, v. 81), la compassione verso il triste e tragico spettacolo di un’umanità smarrita e sofferente, alle prese con la fatica di vivere, da cui nessuno è immune.
Emerge una intensa capacità di analisi dell’animo umano, propria di chi, a differenza di quei miseri mortali obliti, conosce le leggi della natura (rerum natura : da qui il titolo) e sa che la causa del loro malessere è la subdola (suadet del v. 84) paura della morte, quasi personificata - come suggerisce anche l’uso del complemento d’agente ab eodem timore del v. 74 - che li costringe ad affannarsi (praestante labore, v.62), a macerarsi (macerat, v. 75), a rotolarsi nel fango e nelle tenebre (in tenebris volvi caenoque) di un inferno terrestre. Sì, perché, come il poeta dichiarerà nei vv. 978-1023, la vita dell’Inferno per gli stolti si avvera sulla terra (Hic Acherusia fit stultorum denique vita) e le pene, i castighi infernali che si immaginano nell’Acheronte in realtà sono nella nostra vita, sono rappresentazioni allegoriche dei tormenti e delle angosce dell’animo umano (Atque ea nimirum quaecumque Acheronte profondo/prodiga sunt esse, in vita sunt omnia nobis): il timore degli dei, la passione amorosa, l’ambizione, l’avidità. Ritorna anche l’immagine delle tenebre, ripresa in vitae odium lucisque videndae, che crea una paradossale antitesi con mortis formidine del verso precedente.
Nei vv. 82-84 sono ribaditi e riassunti gli effetti di questo timore (hunc timorem) in tre oggettive dipendenti da obliti, dove l’anafora di hunc enfatizza l’appassionato discorso polemico del poeta: fonte di angosce, distruzione del senso del pudore, rottura dei vincoli dell’amicizia. L’ultima conseguenza è espressa con una variazione della struttura sintattica, per cui timor da soggetto delle proposizioni infinitive diventa soggetto sottinteso del verbo suadet, acquistando maggiore risalto: si tratta della perdita della pietas che, come chiarisce il passo successivo introdotto da nam, sfocia nel tradimento della patria e dei genitori. Particolarmente solenni questi due versi 85-86, cui l’uso del perfetto gnomico prodiderunt conferisce un tono solenne, rafforzato dalle allitterazioni (/p/ e /t/) e dall’enjambement.
Segue la famosa similitudine tra i timori degli uomini e quelli dei fanciulli spaventati dalle tenebre, a sottolineare le illusorie e inutili paure che angosciano l’esistenza umana: spicca in studiato rilievo caecis alla fine del v. 87, separato in enjambement da in tenebris, che richiama la caeca cupido del v.59 (questi esametri si ritrovano identici nel secondo libro). Il poeta insiste sulla metafora dell’assenza di luce, come conferma anche la ripetizione a breve distanza del termine tenebrae (v. 77, 88, 90, 91).
La formula dei vv. 91-93 (usata già nel I libro) conclude (igitur), ricollegandosi ai vv. 36 sgg. (anche nella ripresa dell’idea di dovere con necessest), e ribadisce lo scopo dei versi: discutere - ancora un’espressione dal forte impatto visivo come foras agere del v. 37 - hunc terrorem (riprende hunc timorem del v. 82) tenebrasque con la ratio, ossia la descrizione e lo studio della natura, espressa nell’efficace endiadi naturae species ratioque, centrale nell’ideologia che sorregge il poema. Ai lucida tela diei (v. 92) si sostituiscono i lucida carmina, i limpidi versi (I, 933-934), le vere armi del poeta per combattere la sua battaglia contro l’ignoranza e la superstizione e offrire, addolcita attraverso la poesia, una vera e propria medicina doloris per guarire i vulnera vitae.
Nei successivi 775 versi (vv. 94 – 869), infatti, il poeta esporrà la distinzione tra animus e anima, entrambe corporee perché formate da atomi e argomenterà la tesi della mortalità dell’anima attraverso 29 prove, fino a ribadire l’assioma epicureo “nulla è per noi la morte” (nil igitur mors est ad nos): al momento della morte le particelle che formano l’anima si disperdono, pertanto la morte è assenza di ogni sensazione. La legge fondamentale della natura è che tutte le cose si rinnovano, si producono l’una dall’altra e in ciò non può esserci nulla di orribile o di triste, anzi, la morte assomiglia al più tranquillo dei sonni (non omni somno securius exstat?; vv. 963-977). Dal v. 870 fino al termine del libro (v. 1094), invece, Lucrezio riprenderà la riflessione morale sugli irrazionali turbamenti legati alla morte. Strettamente correlate sono dunque nel poema lucreziano la fisica e l’etica, l’una in funzione e a sostegno dell’altra.

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Il linguaggio e la poetica di Lucrezio

Più volte è stata sottolineata la forza visiva del linguaggio lucreziano. In questo Lucrezio è aiutato dall’innata concretezza della lingua latina (specchio della pragmaticità del pensiero romano), ma tale corporeità rientra nel suo sforzo costante e coerente, profondamente meditato, di romanizzare l’astratto pensiero filosofico greco e di renderlo meno ostico all’inesperto pubblico latino.
In più passi del poema (I, 196-198, 817-829, 907-914; II, 688-699, 1007-1022) inoltre, Lucrezio enuncia un principio poetico fondamentale, quello dell’analogia tra i versi e cose (versus e res), tra le lettere che compongono le parole e gli atomi che compongono le cose:

Anzi, nei miei stessi versi ha somma importanza con quali altre e in quale disposizione ogni lettera sia disposta; infatti sono sempre le stesse a indicare il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, le stesse a designare le messi, gli alberi, gli animali; se non tutte, almeno la più gran parte di esse sono simili: ma il loro ordine diverso distingue i nomi delle cose. Ugualmente accade nei corpi […] (II, 1013-1019).

Questa teoria, oltre a spiegare l’iconicità del testo più volte osservata, consente a Lucrezio di giustificare la scelta della poesia, che di per sé è una trasgressione - l’unica - rispetto alla dottrina epicurea, la quale ammette la poesia solo come divertimento.
Il suo linguaggio poetico è una sorta di ars combinatoria che dalle singole parole si estende ai singoli versi o gruppi di versi, coinvolgendo tutto il poema. I richiami, la ripetizione di singoli versi o di gruppi di esametri in libri diversi, i legami lessicali e la tendenza alla sovrabbondanza dell’espressione sembrano dunque avere anche una motivazione filosofica e dimostrare l’accurata architettura che sorregge il poema, più che la sua incompiutezza.
Inoltre, la tendenza alla drammatizzazione quasi espressionistica, favorita dalla scelta della poesia, che raggiunge il culmine nel finale del poema con la descrizione della peste di Atene, unita alla robustezza del linguaggio, è un mezzo di persuasione, di presa incisiva, di “impressione” sui lettori. Lucrezio, consapevole dell’azione psicagogica della poesia, la sfrutta per avvincere il lettore (animum tenere, I, 948), per alleggerire l’esposizione della dottrina epicurea, come spiega, rivolgendosi al dedicatario, nel primo libro, dove paragona la sua impresa a quella dei medici che per somministrare ai fanciulli malati l’amaro assenzio cospargono di miele l’orlo della tazza (vv. 935-950).
A proposito dello stile di Lucrezio, Italo Calvino nella lezione americana sulla Leggerezza cita proprio il De rerum natura come esempio di letteratura che cerca la leggerezza «come reazione al peso di vivere»:

[…] è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e morbido e leggero. […] è il poeta della concretezza fisica […]. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci.

Al linguaggio del poema non è estranea inoltre la tradizione epica arcaica, che Lucrezio prende a modello nel suo ambizioso progetto di creare un linguaggio filosofico latino, così come il grande Ennio aveva cercato di creare un linguaggio epico latino. Ricorrenti nei versi analizzati sono i tipici arcaismi lucreziani: suffisso dimostrativo -ce al v.35, sincope in periclis, ind. perf. 3ª persona plur. in ere in venere, 5ª declin. preferita alla 1ª in avarities, infinito passivo in -ier in cunctarier, gen. plur. della 2ª declin. in -um in consanguineum, gen. sing. della 1ª declin. in -ai in amicitiai, aferesi con est in necessest. Arcaico è anche l’uso frequente dell’allitterazione e l’esametro, che conserva di quello enniano le lunghe serie di spondei (come al v. 57 e ai vv.71-73), le clausole spondaiche e monosillabiche o al contrario le parole lunghissime in fine di verso (qui religionem al v. 54 o accumulantes al v. 71). Questa patina arcaica si accorda con l’intonazione solenne e con lo stile sublime del poema.
Le durezze prosastiche del linguaggio lucreziano, invece, - ad esempio nelle espressioni di passaggio - nascono dalla difficoltà dovuta alla novitas della materia e all’egestas (povertà) della lingua romana (I, 139) che il poeta non vuole tradire, evitando - a differenza di Cicerone - i grecismi.

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Lucrezio e il suo tempo

La scelta della poesia come mezzo di diffusione del pensiero filosofico è motivata anche dal critica situazione storica contemporanea. Il dolce miele delle Muse (I, 947) è tanto più utile e rassicurante nel travagliato momento storico che il civis Romanus sta vivendo. La genesi del De rerum natura è infatti strettamente legata ad un quadro storico – l’età delle guerre civili, 78-31 a. C. - tra i più tormentati della storia romana - caratterizzato dall’instabilità politica, dalla crisi della repubblica e dei valori tradizionali - e tra i più intensi e significativi della letteratura latina, che vede emergere, oltre a Lucrezio, altre personalità di grande rilievo, quali Catullo, Sallustio, Cicerone, nelle cui opere si riflette la drammatica situazione storica.
A livello sociale tale precarietà si traduce in un ripiegamento individualistico, nella scoperta di una dimensione privata, asociale; a livello culturale-letterario si assiste ad un’apertura alle filosofie ellenistiche (epicureismo, stoicismo, scetticismo) che, sviluppatesi sullo sfondo della crisi della polis greca, attecchiscono in quel clima di disorientamento, di indebolimento dei tradizionali valori civili e religiosi proprio per la loro finalità consolatoria, per la centralità che in esse riveste l’etica, il problema morale del raggiungimento della felicità individuale, per il loro carattere antisociale ed anticonvenzionale, in alcuni casi eversivo. L’intellettuale conquista maggiore autonomia, e alla letteratura nazionale e popolare si sostituisce un modello più elitario, rivolto ad un pubblico ristretto.

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Lucrezio oggi

L’attualità del poema di Lucrezio e in particolare dei versi analizzati, sta nelle stesse tematiche affrontate, come la morte, ancora oggi l’evento più inaccettabile per l’essere umano, oggetto di rimozione da parte del senso comune, di indagine e di interpretazione da parte dei filosofi contemporanei. La modernità tematica è amplificata dalle affinità con il contesto storico-culturale contemporaneo: particolarismi politici, crisi di valori politici e religiosi, seduzione delle mode mistiche e new age, individualismo, fragilità, disorientamento.
La stessa battaglia contro le superstizioni e le paure in nome di una conoscenza razionale della realtà e delle leggi dell’equilibrio universale, in nome della ricerca del piacere, la stessa fiducia nella ragione e nella forza rigeneratrice della natura, la stessa visione materialistica e scientifica, talvolta quasi le stesse parole, le ho inoltre ritrovate in modo sorprendente nelle riflessioni estremamente lucide e coerenti di Ramón Sampedro, un uomo che, costretto all’immobilità a soli 25 anni in seguito ad un incidente nel 1968, ha meditato a lungo sul senso della morte e della vita ed ha dedicato i restanti trent’anni della sua esistenza a rivendicare con coraggio il proprio diritto al piacere…

[…] Il timore sublimato come intrattenimento culturale, magico, mitologico, tragico, si è psicopatizzato e si è trasformato in un terrore irrazionale facilmente manipolabile da qualsiasi tipo di potere. Perché provare paura nel passare dalla coscienza all’incoscienza, se questo passaggio non è altro che un mutamento di stato della materia? Non si è ancora dato un senso alla morte. Non la si è ancora umanizzata e razionalizzata […] (da Lettera a Joni)
[…] Ogni fenomeno sconosciuto intimorisce l’essere vivente, ed è facile manipolare psicologicamente questo timore negli uomini, sfruttando l’ignoranza e la superstizione. Il timore è il peggiore nemico dell’essere umano. Se la vita è un processo continuo di trasformazione, quelli che usano la paura della morte e del dolore per sancire dogmi e averla vinta sono colpevoli di attentare contro la legge della vita. (da Superstizione e ragione)
[…] Speravo che la ragione riuscisse a imporsi al fanatismo e alla superstizione. Insomma, che all’individuo venisse restituita la libertà di coscienza personale. Mi sono sbagliato! Esiste un condizionamento psicologico insuperabile per gli esseri umani culturalmente ed eticamente degenerati: la paura del castigo se si disobbedisce. […] (da Agli agnelli)
[…] La differenza tra la ragione etica e la superstizione fondamentalista è che la prima è la luce, la liberazione, la seconda la tenebra, la trappola infernale. (da Il diritto di nascere e il diritto di morire)
[…] La scienza avrà sempre un’influenza positiva nella liberazione dell’essere umano dalla nefasta influenza che sette e religioni esercitano su di lui. La conoscenza libera l’individuo dalla superstizione e dal timore. Quando si conosce il fenomeno che provoca l’oscurità della notte, l’individuo non si chiede più perché ha paura della notte, ma si interroga sul motivo per cui ha paura. […] (da La scienza, la tecnica e l’intercomunicazione)
Penso che la vita sia un’opera musicale costruita a partire da due note elementari: la prima è un sì, al piacere. La seconda è un no al dolore. […] (da Lettera a Line Torres e Kees Vandenberg)
[…] La morte è il principio di un altro spazio e di un altro tempo per la nostra materia. […] (da La libertà).
[…] Morire è solo questo. Mettersi a dormire quando uno è molto stanco, sereno e tranquillo, senza paura del sonno […] (da Lettera a Laura)
Morire non è altro che andare a dormire, per un sonno molto lungo.[…] (da Lettera d’addio)

Ramón Sampedro, Mare dentro. Lettere dall’inferno, Mondadori, 2006.

 

Raffaella Di Meglio (classe 1971) si è laureata in Lettere moderne e insegna materie letterarie in un liceo. Ama camminare e fare trekking, ama il contatto con la natura, viaggiare, leggere.

 

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