di Raffaella Di Meglio
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Analisi:
• La regione e il piacere contro le paure e
le superstizioni
• La paura della morte, causa dell'infelicità
degli uomini
• Effetti della paura della morte sul comportamento
umano
• Degradazione dell'animo umano. Quale rimedio?
• Il linguaggio e la poetica di Lucrezio
• Lucrezio e il suo tempo
• Lucrezio oggi
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La ragione e il piacere contro le paure e le superstizioni
I versi sono tratti dal III libro del De
rerum natura, opera del poeta latino Tito Lucrezio Caro (99? a.C.
– 55? a.C.), pubblicato postumo da Cicerone intorno al 53 a. C.
Il poema, strutturato in sei libri di esametri, rappresenta un’appassionata
opera di difesa e di divulgazione dell’epicureismo, dottrina filosofica
ellenistica fondata da Epicuro alla fine del sec. IV a. C., che proprio
grazie a Lucrezio conobbe ampia fortuna nel mondo romano.
Preceduto dal secondo dei quattro elogi di Epicuro inseriti nell’opera,
il verso 31 si apre con una formula di passaggio tipicamente lucreziana
e propria del genere del poema didascalico, et quoniam docui,
che introduce una sintesi dei contenuti del libro precedente, dedicato
alla teoria dell’aggregazione e disgregazione dei corpi.
Nei due versi successivi Lucrezio anticipa il nuovo argomento, la teoria
dell’anima, con una variatio del soggetto ottenuta attraverso
l’uso della perifrastica passiva (animi natura atque animae
claranda esse), che dà l’idea dell’urgenza didattica
avvertita dal fedele ed entusiasta seguace di Epicuro. Significativo è
l’uso del verbo clarare che, oltre ad indicare la ricerca,
lo sforzo di chiarezza, perseguito non senza difficoltà e con l’orgoglio
di sperimentare una nuova strada, quella della poesia filosofica, introduce
una prima immagine di luce, la luce della ragione e della poesia, contrapposta
all’oscurità dell’ignoranza, secondo quell’antitesi
luce-tenebre, vita-morte, che permea tutto il De rerum natura.
L’espressione claranda meis … versibus esse suona
inoltre come un’implicita dichiarazione di poetica: i versi sono
il mezzo per il fine, la poesia diventa strumento di verità; scienza
filosofica e poesia si integrano, la seconda necessaria alla prima.
L’et del v. 37 introduce una perifrastica coordinata (metus
… agendus), il cui sviluppo maggiore e sintatticamente più
complesso (si prolunga nella relativa introdotta da qui) tradisce la predominanza
dell’altro scopo dell’argomentazione: la rimozione della paura
della morte (metus ille foras praeceps Acheruntis agendus). La
missione a cui si dedica con l’entusiasmo del poeta-vate è
proprio quella di far conoscere la dottrina del suo Maestro ed eroe, Epicuro,
per liberare gli uomini dalle superstizioni, dai falsi timori, dalle angosce,
e restituire loro la gioia, il piacere (la voluptas del v.40, parola chiave
della filosofia epicurea) e la forza della sapienza. Ed è la convinzione
della propria missione profetica, l’ansia di liberazione a dare
al poema una tensione emotiva che stempera l’aridità e l’oscurità
della materia.
La paura della morte, causa dell’infelicità degli uomini
È infatti la paura della morte il tema centrale
su cui Lucrezio si dilungherà, rimandando invece la più
ardua trattazione teorica or ora annunciata.
L’ispirazione del poeta non è solo razionale, è anche
passionale ed è questa che lo induce, a scapito dello sviluppo
logico e ordinato dell’argomentazione, ad un’insistenza quasi
ossessiva sulla paura della morte, la principale responsabile, insieme
alla quella degli dei, dei profondi turbamenti della vita umana, stando
ai dettami epicurei. Questa insistenza trova riscontro nei numerosi sintagmi
sinonimici che Lucrezio “sparge” nei suoi versi per indicare
la paura della morte: metus Acheruntis, mortis nigrore,
Tartara leti (altro pleonasmo), mortis formidine (usato
due volte), leti portas, falso terrore, eodem timore,
Acherusia templa (usata anche nel I libro), terrorem animi;
inoltre quattro volte è usata la parola tenebra (vv. 77,
88, 90, 91).
Nei versi 37-40 colpisce soprattutto la concretezza delle immagini usate,
qualità tipica del linguaggio lucreziano, che tende a dare un rilievo
fisico, tangibile, visibile a concetti astratti - in questo caso quello
della morte - visualizzandoli, quasi a volerli rendere “fisicamente”
cancellabili nella mente del destinatario. La forza visiva del linguaggio
lucreziano emerge in espressioni quali foras praeceps agendus
(v. 37) riferito a metus Acheruntis, o suffundens omnia nigrore
(v. 39) che oggettivizza la morte in una sorta di liquido che si sparge
sulle cose; a questa immagine si richiama, nel verso successivo, l’aggettivo
liquidam riferito a voluptatem, ad indicare la limpidezza,
la chiarezza, la serenità della gioia, contrapposta al torbido
e angoscioso mortis nigrore.
Da notare anche la ridondanza e il disordine del v. 38, dovuti all’uso
dell’iperbato e dell’anastrofe (funditus … ab imo
in rilievo ai due estremi del verso, qui con funzione di soggetto interposto
a metà verso tra humanam e vitam; funditus
è ripreso da suffundens del verso successivo), che possono
essere sì imputabili alla mancata revisione del poema, ma qui sembrano
tradurre sintatticamente il disordine, l’abisso interiore provocato
nell’uomo dal timore della morte.
Effetti della paura della morte sul comportamento umano
A questo punto prende l’avvio una lunga digressione
rispetto alla trattazione teorica, dedicata agli effetti provocati dalla
paura della morte sul comportamento umano. Lucrezio spesso tende ad insistere
sugli aspetti negativi dell’esistenza, sugli errori e sulle debolezze
umane piuttosto che sulla parte positiva della dottrina epicurea.
Da qui nascono quelle pagine cupe e tristi che hanno indotto alcuni studiosi
a vedere una contraddizione tra il pessimismo del discepolo e l’ottimismo
del maestro o a trovarvi una conferma dell’instabilità psicologica
di Lucrezio, della leggendaria insania (pazzia) tramandata da
san Gerolamo. In realtà, dato il carattere insieme filosofico-scientifico
e poetico, razionale e irrazionale proprio del De rerum natura,
dato quell’ardente desiderio di consolare ed illuminare i lettori
che anima il poeta, il pathos e la drammaticità di certe immagini,
l’insistenza sulle false opinioni e sui comportamenti sbagliati
servono a suscitare emozioni forti, a rendere più persuasivo il
messaggio e a far risaltare per contrasto la filosofia epicurea come unico
mezzo per vincere e sradicare questi errori. Rientra in questo intento
anche l’ampio ricorso all’antitesi, come osserva Dionigi nel
suo saggio Lucrezio. Le parole e le cose: non solo luce/tenebre,
ma anche ignoranza/sapienza, religione/filosofia, apparenza/realtà.
Lucrezio mira innanzitutto a screditare la sicurezza, la baldanza ostentate
da certi uomini (vv.41-47). Utilizza un verbo forte, iactari,
che lascia intendere la sostanziale debolezza delle opinioni umane; il
poeta non nasconde il suo ironico giudizio sull’incostanza - si
fert ita forte voluntas, dove l’allitterazione della /f/ rafforza
l’idea di volubilità - di chi si vanta di non aver bisogno
della ratio epicurea (nec prorsum quicquam nostrae rationis
egere), aderendo ora ad un’opinione ora ad un’altra (anima
fatta di sangue o di aria). Fa la sua comparsa un termine fondamentale,
ratio (ricompare al v. 93 in posizione di rilievo), unica fonte
e garanzia di verità, che si oppone verticalmente a voluntas,
l’umano arbitrio, del verso precedente.
Lucrezio passa dunque a smascherare le contraddizioni di questi stessi
uomini (idem), che, quando si trovano in situazioni avverse per
essersi macchiati di crimini tali da essere cacciati, esiliati, cedono
ai fantasmi e ai ricatti della religio. Si noti la climax
in questa sorta di elenco di esempi di quell’infamem vitam
del v. 42, contenuto nei vv.48-50: extorres, fugati,
foedati, adfecti. Il poeta, aspramente critico nei confronti
della religione ufficiale, inserisce qui (vv. 50-54) precisi riferimenti
al culto religioso romano contemporaneo - i Parentalia, il sacrificio
di vittime nere per i morti, le offerte agli dei Mani - con un’enfasi
sarcastica data dal polisindeto incalzante dei vv. 51-53 (et
quocumque, et nigras, et manibu’,
multoque), dalle allitterazioni della /m/ e della
/a/ nei vv. 52-54 (mactant, manibu’,
mittunt, multoque; acerbis
acrius advertunt animos)
e dalla sonora chiusura con la parola-chiave religionem.
A questo inserto di tipo narrativo-descrittivo segue, nei vv. 55-58, una
riflessione conclusiva di carattere sentenzioso - si noti l’uso
dell’impersonale convenit - a conferma della fragilità
e incoerenza del comportamento umano: l’uomo si osserva meglio in
dubiis … periclis (l’iperbato evidenzia dubiis),
si conosce adversis in rebus, sintagma che si ricollega a in
rebus acerbis del v. 53 ed amplifica il concetto delle circostanze
avverse. Spiega Lucrezio (nam) che proprio in queste situazioni
la verità emerge dietro la maschera (persona): anche qui
il sintagma metonimico verae voces, rafforzato dall’allitterazione,
si accorda allo stile icastico di Lucrezio, confermato dalla scelta dei
verbi eliciuntur e eripitur, la cui forza semantica
richiama espressioni come foras praeceps agendus del v. 37 e
iactari del v.47.
Il poeta passa poi (vv. 59-64) a deprecare, preso dal suo furore didattico-moralistico,
i vulnera vitae alimentati dalla paura della morte, che portano
all’avidità, all’ambizione, e quindi al sovvertimento
dell’ordine morale e civile. Si tratta di un topos della letteratura
contemporanea, presente anche in Sallustio e in Cicerone: avarities,
honorum caeca cupido del v. 59 sono gli stessi vizi denunciati dai
prosatori contemporanei. Ciò pare smentire il presunto disimpegno
ed isolamento lucreziano nei confronti del suo tempo, sebbene manchino
nella sua opera riferimenti diretti all’attualità. Anche
in questo passo Lucrezio ricorre ad artifici stilistici quali l’enjambement
che mette in rilievo iuris al v.61 e vulnera vitae al
v. 63, le allitterazioni (socios scelerum,
vulnera vitae), l’inversione
chiastica tra vulnera vitae e mortis formidine del verso
successivo, la litote non minimam partem.
Degradazione dell’animo umano. Quale rimedio?
Ancora più studiati e di grande intensità
espressiva sono i vv.70-73, in cui il poeta insiste sull’argomento
dipingendo un quadro ripugnante della degradazione cui può arrivare
l’uomo per sfuggire al contemptus e all’egestas
associati alla morte: studiata è la collocazione dei due infiniti
perfetti effugisse e remosse collegati dalla ripresa
dell’avverbio longe (su questo tema della fuga da se stessi
e dalle proprie inquietudini, del commutare locum, che sarà
ripreso da Orazio e da Seneca, il poeta ritorna nel finale del libro);
il poliptoto caedem caede, con cui prosegue l’insistente
allitterazione della /c/ che dal verso precedente (conflant)
si prolunga fino ai vv. 72 (crudeles) e 73 (consanguineum);
studiatissima anche la collocazione e la scelta delle parole di tutto
il verso 71, iconico nel rendere l’immagine dell’ammassarsi
di ricchezze e di stragi attraverso i due verbi sinonimici, conduplicant
e accumulantes in risalto per l’insolita lunghezza alle
due estremità del verso. Un’ennesima ridondanza si crea con
conflant del verso precedente, allitterante con conduplicant:
riaffiora ancora una volta la cosiddetta abundantia lucreziana.
La pausa forte al v. 71 segna il passaggio al distico finale di questo
gruppo di versi, cui sono affidate le immagini della massima crudeltà
e brutalità raggiunte persino nella vita privata, nei confronti
dei propri cari: qui sono la pesantezza del ritmo spondaico e la struttura
fonica del v.72 con le insistenti allitterazioni (crudeles …
tristi funere fratris) ad enfatizzare la tristezza del contenuto.
L’uomo, perso ogni sentimento di umana pietà e solidarietà,
si consuma nell’invidia dei potenti - spicca l’antitesi verticale
tra illum e ipsi, entrambi in incipit rispettivamente
al v.76 e 77 - fino a cercare paradossalmente nel suicidio quella stessa
morte tanto temuta.
In tutto questo drammatico, patetico scenario la presenza dell’autore
è rivelata da espressioni, soprattutto aggettivi valutativi, che
esprimono sì il punto di vista dell’intellettuale “illuminato”
dalla dottrina del Maestro, ma tradiscono anche la pietà del poeta
(miseri del v. 51, miseros homines del v. 60, marenti
pectore, v. 81), la compassione verso il triste e tragico spettacolo
di un’umanità smarrita e sofferente, alle prese con la fatica
di vivere, da cui nessuno è immune.
Emerge una intensa capacità di analisi dell’animo umano,
propria di chi, a differenza di quei miseri mortali obliti, conosce
le leggi della natura (rerum natura : da qui il titolo) e sa
che la causa del loro malessere è la subdola (suadet del
v. 84) paura della morte, quasi personificata - come suggerisce anche
l’uso del complemento d’agente ab eodem timore del
v. 74 - che li costringe ad affannarsi (praestante labore, v.62),
a macerarsi (macerat, v. 75), a rotolarsi nel fango e nelle tenebre
(in tenebris volvi caenoque) di un inferno terrestre. Sì,
perché, come il poeta dichiarerà nei vv. 978-1023, la vita
dell’Inferno per gli stolti si avvera sulla terra (Hic Acherusia
fit stultorum denique vita) e le pene, i castighi infernali che si
immaginano nell’Acheronte in realtà sono nella nostra vita,
sono rappresentazioni allegoriche dei tormenti e delle angosce dell’animo
umano (Atque ea nimirum quaecumque Acheronte profondo/prodiga sunt
esse, in vita sunt omnia nobis): il timore degli dei, la passione
amorosa, l’ambizione, l’avidità. Ritorna anche l’immagine
delle tenebre, ripresa in vitae odium lucisque videndae, che
crea una paradossale antitesi con mortis formidine del verso
precedente.
Nei vv. 82-84 sono ribaditi e riassunti gli effetti di questo timore (hunc
timorem) in tre oggettive dipendenti da obliti, dove l’anafora
di hunc enfatizza l’appassionato discorso polemico del
poeta: fonte di angosce, distruzione del senso del pudore, rottura dei
vincoli dell’amicizia. L’ultima conseguenza è espressa
con una variazione della struttura sintattica, per cui timor da soggetto
delle proposizioni infinitive diventa soggetto sottinteso del verbo suadet,
acquistando maggiore risalto: si tratta della perdita della pietas
che, come chiarisce il passo successivo introdotto da nam, sfocia
nel tradimento della patria e dei genitori. Particolarmente solenni questi
due versi 85-86, cui l’uso del perfetto gnomico prodiderunt
conferisce un tono solenne, rafforzato dalle allitterazioni (/p/ e /t/)
e dall’enjambement.
Segue la famosa similitudine tra i timori degli uomini e quelli dei fanciulli
spaventati dalle tenebre, a sottolineare le illusorie e inutili paure
che angosciano l’esistenza umana: spicca in studiato rilievo caecis
alla fine del v. 87, separato in enjambement da in tenebris,
che richiama la caeca cupido del v.59 (questi esametri si ritrovano
identici nel secondo libro). Il poeta insiste sulla metafora dell’assenza
di luce, come conferma anche la ripetizione a breve distanza del termine
tenebrae (v. 77, 88, 90, 91).
La formula dei vv. 91-93 (usata già nel I libro) conclude (igitur),
ricollegandosi ai vv. 36 sgg. (anche nella ripresa dell’idea di
dovere con necessest), e ribadisce lo scopo dei versi: discutere
- ancora un’espressione dal forte impatto visivo come foras
agere del v. 37 - hunc terrorem (riprende hunc timorem
del v. 82) tenebrasque con la ratio, ossia la descrizione
e lo studio della natura, espressa nell’efficace endiadi naturae
species ratioque, centrale nell’ideologia che sorregge il poema.
Ai lucida tela diei (v. 92) si sostituiscono i lucida carmina,
i limpidi versi (I, 933-934), le vere armi del poeta per combattere la
sua battaglia contro l’ignoranza e la superstizione e offrire, addolcita
attraverso la poesia, una vera e propria medicina doloris per guarire
i vulnera vitae.
Nei successivi 775 versi (vv. 94 – 869), infatti, il poeta esporrà
la distinzione tra animus e anima, entrambe corporee
perché formate da atomi e argomenterà la tesi della mortalità
dell’anima attraverso 29 prove, fino a ribadire l’assioma
epicureo “nulla è per noi la morte” (nil igitur
mors est ad nos): al momento della morte le particelle che formano
l’anima si disperdono, pertanto la morte è assenza di ogni
sensazione. La legge fondamentale della natura è che tutte le cose
si rinnovano, si producono l’una dall’altra e in ciò
non può esserci nulla di orribile o di triste, anzi, la morte assomiglia
al più tranquillo dei sonni (non omni somno securius exstat?;
vv. 963-977). Dal v. 870 fino al termine del libro (v. 1094), invece,
Lucrezio riprenderà la riflessione morale sugli irrazionali turbamenti
legati alla morte. Strettamente correlate sono dunque nel poema lucreziano
la fisica e l’etica, l’una in funzione e a sostegno dell’altra.
Il linguaggio e la poetica di Lucrezio
Più volte è stata sottolineata la forza visiva
del linguaggio lucreziano. In questo Lucrezio è aiutato dall’innata
concretezza della lingua latina (specchio della pragmaticità del
pensiero romano), ma tale corporeità rientra nel suo sforzo costante
e coerente, profondamente meditato, di romanizzare l’astratto pensiero
filosofico greco e di renderlo meno ostico all’inesperto pubblico
latino.
In più passi del poema (I, 196-198, 817-829, 907-914; II, 688-699,
1007-1022) inoltre, Lucrezio enuncia un principio poetico fondamentale,
quello dell’analogia tra i versi e cose (versus e res),
tra le lettere che compongono le parole e gli atomi che compongono le
cose:
Anzi, nei miei stessi versi ha somma importanza con quali altre e in quale disposizione ogni lettera sia disposta; infatti sono sempre le stesse a indicare il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, le stesse a designare le messi, gli alberi, gli animali; se non tutte, almeno la più gran parte di esse sono simili: ma il loro ordine diverso distingue i nomi delle cose. Ugualmente accade nei corpi […] (II, 1013-1019).
Questa teoria, oltre a spiegare l’iconicità
del testo più volte osservata, consente a Lucrezio di giustificare
la scelta della poesia, che di per sé è una trasgressione
- l’unica - rispetto alla dottrina epicurea, la quale ammette la
poesia solo come divertimento.
Il suo linguaggio poetico è una sorta di ars combinatoria
che dalle singole parole si estende ai singoli versi o gruppi di versi,
coinvolgendo tutto il poema. I richiami, la ripetizione di singoli versi
o di gruppi di esametri in libri diversi, i legami lessicali e la tendenza
alla sovrabbondanza dell’espressione sembrano dunque avere anche
una motivazione filosofica e dimostrare l’accurata architettura
che sorregge il poema, più che la sua incompiutezza.
Inoltre, la tendenza alla drammatizzazione quasi espressionistica, favorita
dalla scelta della poesia, che raggiunge il culmine nel finale del poema
con la descrizione della peste di Atene, unita alla robustezza del linguaggio,
è un mezzo di persuasione, di presa incisiva, di “impressione”
sui lettori. Lucrezio, consapevole dell’azione psicagogica della
poesia, la sfrutta per avvincere il lettore (animum tenere, I,
948), per alleggerire l’esposizione della dottrina epicurea, come
spiega, rivolgendosi al dedicatario, nel primo libro, dove paragona la
sua impresa a quella dei medici che per somministrare ai fanciulli malati
l’amaro assenzio cospargono di miele l’orlo della tazza (vv.
935-950).
A proposito dello stile di Lucrezio, Italo Calvino nella lezione americana
sulla Leggerezza cita proprio il De rerum natura come
esempio di letteratura che cerca la leggerezza «come reazione al
peso di vivere»:
[…] è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e morbido e leggero. […] è il poeta della concretezza fisica […]. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci.
Al linguaggio del poema non è estranea inoltre
la tradizione epica arcaica, che Lucrezio prende a modello nel suo ambizioso
progetto di creare un linguaggio filosofico latino, così come il
grande Ennio aveva cercato di creare un linguaggio epico latino. Ricorrenti
nei versi analizzati sono i tipici arcaismi lucreziani: suffisso dimostrativo
-ce al v.35, sincope in periclis, ind. perf. 3ª
persona plur. in ere in venere, 5ª declin. preferita
alla 1ª in avarities, infinito passivo in -ier
in cunctarier, gen. plur. della 2ª declin. in -um
in consanguineum, gen. sing. della 1ª declin. in -ai
in amicitiai, aferesi con est in necessest.
Arcaico è anche l’uso frequente dell’allitterazione
e l’esametro, che conserva di quello enniano le lunghe serie di
spondei (come al v. 57 e ai vv.71-73), le clausole spondaiche e monosillabiche
o al contrario le parole lunghissime in fine di verso (qui religionem
al v. 54 o accumulantes al v. 71). Questa patina arcaica si accorda con
l’intonazione solenne e con lo stile sublime del poema.
Le durezze prosastiche del linguaggio lucreziano, invece, - ad esempio
nelle espressioni di passaggio - nascono dalla difficoltà dovuta
alla novitas della materia e all’egestas (povertà)
della lingua romana (I, 139) che il poeta non vuole tradire, evitando
- a differenza di Cicerone - i grecismi.
La scelta della poesia come mezzo di diffusione del pensiero
filosofico è motivata anche dal critica situazione storica contemporanea.
Il dolce miele delle Muse (I, 947) è tanto più utile e rassicurante
nel travagliato momento storico che il civis Romanus sta vivendo.
La genesi del De rerum natura è infatti strettamente legata
ad un quadro storico – l’età delle guerre civili, 78-31
a. C. - tra i più tormentati della storia romana - caratterizzato
dall’instabilità politica, dalla crisi della repubblica e
dei valori tradizionali - e tra i più intensi e significativi della
letteratura latina, che vede emergere, oltre a Lucrezio, altre personalità
di grande rilievo, quali Catullo, Sallustio, Cicerone, nelle cui opere
si riflette la drammatica situazione storica.
A livello sociale tale precarietà si traduce in un ripiegamento
individualistico, nella scoperta di una dimensione privata, asociale;
a livello culturale-letterario si assiste ad un’apertura alle filosofie
ellenistiche (epicureismo, stoicismo, scetticismo) che, sviluppatesi sullo
sfondo della crisi della polis greca, attecchiscono in quel clima
di disorientamento, di indebolimento dei tradizionali valori civili e
religiosi proprio per la loro finalità consolatoria, per la centralità
che in esse riveste l’etica, il problema morale del raggiungimento
della felicità individuale, per il loro carattere antisociale ed
anticonvenzionale, in alcuni casi eversivo. L’intellettuale conquista
maggiore autonomia, e alla letteratura nazionale e popolare si sostituisce
un modello più elitario, rivolto ad un pubblico ristretto.
L’attualità del poema di Lucrezio e in particolare
dei versi analizzati, sta nelle stesse tematiche affrontate, come la morte,
ancora oggi l’evento più inaccettabile per l’essere
umano, oggetto di rimozione da parte del senso comune, di indagine e di
interpretazione da parte dei filosofi contemporanei. La modernità
tematica è amplificata dalle affinità con il contesto storico-culturale
contemporaneo: particolarismi politici, crisi di valori politici e religiosi,
seduzione delle mode mistiche e new age, individualismo, fragilità,
disorientamento.
La stessa battaglia contro le superstizioni e le paure in nome di una
conoscenza razionale della realtà e delle leggi dell’equilibrio
universale, in nome della ricerca del piacere, la stessa fiducia nella
ragione e nella forza rigeneratrice della natura, la stessa visione materialistica
e scientifica, talvolta quasi le stesse parole, le ho inoltre ritrovate
in modo sorprendente nelle riflessioni estremamente lucide e coerenti
di Ramón Sampedro, un uomo che, costretto all’immobilità
a soli 25 anni in seguito ad un incidente nel 1968, ha meditato a lungo
sul senso della morte e della vita ed ha dedicato i restanti trent’anni
della sua esistenza a rivendicare con coraggio il proprio diritto al piacere…
[…] Il timore sublimato come intrattenimento
culturale, magico, mitologico, tragico, si è psicopatizzato e si
è trasformato in un terrore irrazionale facilmente manipolabile
da qualsiasi tipo di potere. Perché provare paura nel passare dalla
coscienza all’incoscienza, se questo passaggio non è altro
che un mutamento di stato della materia? Non si è ancora dato un
senso alla morte. Non la si è ancora umanizzata e razionalizzata
[…] (da Lettera a Joni)
[…] Ogni fenomeno sconosciuto intimorisce l’essere vivente,
ed è facile manipolare psicologicamente questo timore negli uomini,
sfruttando l’ignoranza e la superstizione. Il timore è il
peggiore nemico dell’essere umano. Se la vita è un processo
continuo di trasformazione, quelli che usano la paura della morte e del
dolore per sancire dogmi e averla vinta sono colpevoli di attentare contro
la legge della vita. (da Superstizione e ragione)
[…] Speravo che la ragione riuscisse a imporsi al fanatismo e alla
superstizione. Insomma, che all’individuo venisse restituita la
libertà di coscienza personale. Mi sono sbagliato! Esiste un condizionamento
psicologico insuperabile per gli esseri umani culturalmente ed eticamente
degenerati: la paura del castigo se si disobbedisce. […] (da Agli
agnelli)
[…] La differenza tra la ragione etica e la superstizione fondamentalista
è che la prima è la luce, la liberazione, la seconda la
tenebra, la trappola infernale. (da Il diritto di nascere e il diritto
di morire)
[…] La scienza avrà sempre un’influenza positiva nella
liberazione dell’essere umano dalla nefasta influenza che sette
e religioni esercitano su di lui. La conoscenza libera l’individuo
dalla superstizione e dal timore. Quando si conosce il fenomeno che provoca
l’oscurità della notte, l’individuo non si chiede più
perché ha paura della notte, ma si interroga sul motivo per cui
ha paura. […] (da La scienza, la tecnica e l’intercomunicazione)
Penso che la vita sia un’opera musicale costruita a partire da due
note elementari: la prima è un sì, al piacere. La seconda
è un no al dolore. […] (da Lettera a Line Torres e Kees Vandenberg)
[…] La morte è il principio di un altro spazio e di un altro
tempo per la nostra materia. […] (da La libertà).
[…] Morire è solo questo. Mettersi a dormire quando uno è
molto stanco, sereno e tranquillo, senza paura del sonno […] (da
Lettera a Laura)
Morire non è altro che andare a dormire, per un sonno molto lungo.[…]
(da Lettera d’addio)
Ramón Sampedro, Mare dentro. Lettere dall’inferno,
Mondadori, 2006.
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