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Edgar Allan Poe
Sulla traduzione della poesia "To Helen"

di Giorgio Rigon

Nella categoria: HOME | Articoli critici

 

Il modulo di letteratura angloamericana relativo ad Edgar Allan Poe prevedeva la traduzione di questa delicata poesia, opera di un autore conosciuto e celebrato per altri meriti letterari. Personalmente, e non ne nascondo l'ignoranza, nemmeno conoscevo un Poe poeta, se si fa eccezione per la celeberrima "The raven".

Il parallelo svolgersi del corso di "Teoria e storia della traduzione" mi ha dato modo di apprezzare meglio tutte le potenzialità offerte da quelle che Steiner definisce " descrizioni ragionate di procedimenti "da utilizzare nell'impari, ma oltremodo stimolante, compito di tradurre un'opera così "polished" dell'autore americano.

Proprio la traduzione di una poesia così "perfetta" mi fa essere in sintonia con l'autore di After Babel nel considerare la lingua, e quella poetica in special modo, forza formatrice di umanità: se da una parte la frantumazione linguistica dovuta alla caduta della Torre va considerata un disastro per l'umanità, il fascino derivato dal tentativo di portare all'interno della nostra lingua un capolavoro " straniero " come questo, può farcela considerare una benefica "stardust”.

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To Helen

Helen, thy beauty is to me
Like those Nicéan barks of yore,
That gently, o’er a perfumed sea,
The weary, way-worn wanderer bore
To his own native shore.

On desperate seas long wont to roam
Thy hyacinth hair, thy classic face,
Thy Naiad airs have brought me home
To the glory that was Greece,
And the grandeur that was Rome.

Lo! In yon brilliant window-niche
How statue-like I see thee stand,
The agate lamp within thy hand!
Ah, Psyche, from the regions which
Are Holy-Land!

Ad Elena

O Elena, la tua bellezza è per me
Simile ai legni niceni che un tempo,
Gentilmente, sopra un mare odoroso
Lo stanco viandante conducevano
Alla sua riva natale.

A mari disperati da tempo avvezzo,
La tua chioma di giacinto, il tuo classico volto,
Le tue Naiadi grazie mi portano a casa
Alla gloria che fu di Grecia
Alla grandiosità che fu di Roma.

Mira! Lì, nella tua nicchia risplendente,
Come statua io ti veggo eretta,
di agata la lampada hai nella mano
Ah, Psiche, da quelle lande che
Terra Santa sono!

Pubblicata per la prima volta nel 1831 in Poems, ma rivista e rimodellata fino alla forma attuale nel corso di 12 anni. Il titolo è sicuramente un riferimento ad Elena di Troia, considerata la donna più bella dell'antichità; ma non bisogna dimenticare la particolare preferenza di Poe per il nome Helen e per le sue varianti, che usò in opere quali "Lenore” e "Eleonora”.

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BREVE BIOGRAFIA DELL’AUTORE

Edgar Allan Poe (Boston 1809 - Baltimora 1849), scrittore, poeta e critico letterario statunitense. Figlio di attori girovaghi, rimase orfano in tenera età e fu allevato da un ricco commerciante della Virginia, che lo portò con sé in Inghilterra. Qui iniziò gli studi, che proseguì poi negli Stati Uniti, dove tornò nel 1820. Nel 1827, per aver contratto pesanti debiti di gioco fu costretto dal tutore ad abbandonare gli studi e a cominciare a lavorare. Insofferente al lavoro impiegatizio, si trasferì a Boston, dove pubblicò anonimamente il suo primo libro, Tamerlano e altre poesie (1827). Servì poi per due anni nell'esercito statunitense e nel 1829 diede alle stampe il secondo volume di poesie, Al Aaraaf. Riconciliatosi col tutore, entrò all'accademia militare di West Point, dalla quale tuttavia fu espulso dopo pochi mesi per cattiva condotta, e in seguito a questo nuovo episodio fu ripudiato definitivamente dal tutore. Il terzo volume di liriche, Poesie, apparve nel 1831. Stabilitosi a Baltimora l'anno seguente, Poe scrisse Manoscritto trovato in una bottiglia, col quale vinse il concorso indetto dalla rivista "Baltimore Saturday Visitor", e collaborò a diversi periodici. Dopo la lunga malattia e poi la morte, nel 1847, della moglie Virginia, anche Poe si ammalò; alla sua scomparsa prematura contribuirono con tutta probabilità l'abuso di alcol e droghe.

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Farei innanzitutto una considerazione sul linguaggio di Poe nell’inglese del primo Ottocento per quanto riguarda il linguaggio in poesia e il linguaggio in prosa.

George Steiner sostiene che "un'analisi grammaticale sistematica è dunque necessaria e penetra profondamente nel testo, ma glossari e sintassi sono soltanto strumenti. Il compito principale del lettore completo è di stabilire, per quanto gli è possibile, la piena qualità intenzionale del monologo di Postumo, in primo luogo all'interno del dramma, in secondo luogo all'interno delle convenzioni drammatiche shakespeariane ed elisabettiane da noi conosciute, e, imprese più ardua, entro l'ampio contesto della lingua parlata nel primo Seicento. Viene qui chiamato in causa il nucleo stesso del processo interpretativo ."[1]

Pervasa, come la sua narrativa, di temi inquietanti, la produzione poetica di Poe è caratterizzata da un uso sapiente della costruzione e del metro e rivela l'influenza di autori inglesi quali Milton, Keats, Shelley, Coleridge e dell'interesse tipicamente romantico per l'occulto e il satanico. Significative del suo stile e dei suoi motivi ispiratori sono le poesie della raccolta Il corvo (1845), che mescola malinconia e presagi di morte.

Poe sfrutta il successo della sua prosa per far conoscere le sue poesie, che inserisce all’interno dei suoi racconti. In poesia, ai momenti neoclassici di “To Helen”, contrassegnati da un movimento lento, contrappone gli altri più romantici di “Israfel”, mossi da un crescendo di passioni che fanno oscillare la sua ricerca del bello estetico fino alla “poetica del sublime” di burkiana [2] memoria. Nel frattempo però viene ingiustamente bollato negli States con l’appellativo “the jingle man”.

In prosa il suo linguaggio è tutto volto alla ricerca scientifica dell’effetto. Nei suoi racconti “germanici” Poe è maestro nell’avvolgere i suoi personaggi liminali all’interno di un alone di “suspence”, capace di raggiungere il livello di terrore che quasi mai scade nel più banale ”horror”.

Il suo linguaggio risente della sua vorace cultura autodidattica: innumerevoli sono i titoli dei più disparati autori, molteplici le sue prove di amore per la lingua francese, mai banali i suoi inserti di parole di origine arcaica (il greco “hypocondriac” o il latino “incubus” solo per citarne qualcuno da “The fall of the house of Usher”) che, insoliti certamente rispetto all’orizzonte d’attesa del lettore medio americano dell’epoca, servono a rallentare e a scandire il ritmo unico della prosa di Poe.

Generazioni di artisti si sono cimentati nella celebrazione della bellezza muliebre e fra questi anche Poe che in “To Helen” si rivolge nientemeno che a Elena, la donna più bella per antonomasia.

L’attività traduttiva possiede indiscutibilmente il fascino di tutto ciò che richiama al concetto di creazione da parte dell’uomo: se da una parte uno, almeno nella sua elaborazione finale, è il testo da cui partire, molteplici sono le possibilità offerte al traduttore. La connotazione erotica poi conferita all’arte del tradurre (amore per il testo di partenza, uomo traduttore che violenta l’opera letteraria donna, penetrazione all’interno di un testo, concetto di bellezza vicino a quello di infedeltà con “les belles infidèles”, e quant’altro) si aggiunge al fascino implicito di quella che, uscendo dalla penna e dalle mani del valido traduttore, e Baudelaire fu il primo grande traduttore di Poe, può legittimamente definirsi “opera d’arte”.

Per Steiner "ogni atto linguistico ha una determinazione temporale; nessuna forma semantica è atemporale: quando si usa una parola risvegliamo gli echi di tutta la sua storia precedente. Ogni testo è radicato in un preciso tempo storico; possiede ciò che i linguisti definiscono una struttura diacronica. Leggere in maniera totale significa recuperare il più possibile i valori e le intenzionalità immediate in cui di fatto si presenta un discorso dato."[3]

Proprio in considerazione di ciò ho voluto significare l’uso di certi termini "chiave" da me scelti per tradurre in italiano l’inglese ricercato ed elaborato usato da Poe per conferire il gusto neoclassico ed apollineo a quest’opera, ricercando l'uso fattone dai più illustri letterati nazionali.

Ho tenuto conto, secondo quanto sostiene Newmark, di un lettore di riferimento al quale spiegare le allusioni, allo scopo di attivare una comprensione ricettiva. Ho cercato di produrre su questo ipotetico lettore, tramite la traduzione, lo stesso effetto da me provato nel penetrare l'opera originale, cercando di riprodurne l'enfasi. La scelta del mio operato viene pure confermata da Bertozzi il quale sostiene: "in questo senso si comprende come sempre più si chieda al traduttore stesso di rendere ragione delle sue scelte, di spiegare i criteri, le motivazioni, il perché delle sue soluzioni."[4]

Considerando che non si tratta di un testo contemporaneo non mi è stato possibile effettuare su di esso un'operazione di sincronizzazione. Al contrario, tradurre questo testo che per certi versi potremmo definire "classico" significa rendere accessibile al lettore l'idioma antico, per cui non va utilizzato un idioma moderno, ma bensì il lessico appartenente al periodo storico dell'autore, effettuando un'opera di vera e propria "anticazione".

Per fare ciò mi sono avvalso dell’Oxford Dictionary e soprattutto del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia.

Ho letteralmente seguito le indicazioni di Steiner: "Esistono strumenti per tale impresa. Il vero lettore è un maniaco del dizionario, sa che l'inglese è particolarmente ben fornito, dall’Anglo-Saxon Dictionary di Bonworth, tramite il Middle English Dictionary di Kurath e Kuhn fino alle risorse quasi incomparabili dell’Oxford English Dictionary.”[5]

Il continuo riferimento, all’interno dei racconti di Poe, tra l’altro, agli autori più disparati, mi ha incoraggiato a cercare gli autori più illustri che hanno usato quei particolari termini da me scelti per interpretare la versione neoclassicheggiante di. questo suo “sonetto caudato”.

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Analisi della poesia

Prendiamo in considerazione i primi due versi:

Helen, thy beauty is to me

Like those Nicéan barks of yore,

Il riferimento è, secondo me, alla località nella quale si svolse il Concilio Ecumenico del 325 che condannò l’eresia di Ario, proclamando nel simbolo niceno (detto anche simbolo nicenocostantinopolitano perché perfezionato dal consiglio tenutosi a Costantinopoli nel 381) la consustanzialità del figlio a Dio Padre. Altri commentatori fanno riferimento a Nicea come città associata a Dioniso oppure a “niceo” (aggettivo e sostantivo) come appellativo di Zeus apportatore di vittoria (la celebre Nike di Samotracia in mostra al Louvre). Personalmente opterei per la prima ipotesi, trattandosi di un inno alla bellezza femminile intesa nel doppio aspetto, quello sensuale legato ad Elena e quello spirituale legato a Psiche: proprio il riferimento al dogma che ribadisce la natura divina di Gesù Cristo è ricollegabile all’esaltazione della bellezza femminile interiore, assoluta, divina, che va da Elena a Psiche. Da qui la correzione della mia precedente traduzione,da “nicei” a “niceni”, in diretto collegamento al simbolo niceno.

That gently, o’er a perfumed sea,

The weary, way-worn wanderer bore

To his own native shore.

Nel quarto verso si è cercato di riprodurre l’allitterazione musicale dovuta alla sequenza di semivocali velari “w” con il fonosimbolismo delle nasali “n”e delle fricative “v”.

C'è molto tatto e profumo in queste prime due strofe. Nell'ultima, quella in cui Elena diventa Psiche, prevale invece il senso della vista. Ho cercato quindi di rendere adeguatamente la sensazione "perfumed " di questo mare sul quale il marinaio viene cullato sull'onda di quell'allitterazione di cui abbiamo appena parlato, nonché la sensazione derivata dal contatto delle dita con questi capelli di giacinto.

On desperate seas long wont to roam

Thy hyacinth hair, thy classic face,

Thy Naiad airs have brought me home

To the glory that was Greece,

L’associazione “gloria-nazione” è stata spesso usata in letteratura.

Dante, nel Purgatorio: “O gloria de’ Latini” disse “per cui/ mostrò ciò che possa la lingua nostra”.

Lancia: “ …e disse ‘O gloria de’ Troiani, Iove ha trasportato tutti li sacrifici e li onori alli Greci’”.

Foscolo, nei Sepolcri: “Ma più beata ché in un tempio accolte/serbi l’itale glorie”

Manzoni, nell’Adelchi: “Ad Efreta/vaticinato ostello/ascese un’alma Vergine/la gloria d’Israello”.

And the grandeur that was Rome.

Per quanto mi riguarda questo verso costituisce il cuore del mio lavoro di traduzione. A questo proposito potrei anche ristrutturare questa mia opera di riflessione metalinguistica a mo' di ipertesto, nella stessa maniera in cui vengono visualizzate e consultate le pagine del Web: partire da questo verso per attingere, di volta in volta, alle altre parti del ragionamento che più ci interessano e farne una sorta di paratesto.

Ho inteso tradurre il termine francese “grandeur”, preferendo “grandiosità” al più immediato “grandezza”, che avevo scelto in un primo momento: il senso che veniva evocato non era però quello da me ricercato.

Mi sono chiesto: "Ma qual è l'effetto, giacché l'effetto costituisce una componente fondamentale del suo lavoro letterario, che Poe voleva procurare facendo echeggiare nelle orecchie del lettore americano del 1831 questo roboante termine d'oltreoceano?". Ed anche: "qual è il grado di invarianza che devo conferire a questo termine? "

Proprio a questo proposito avevo anche pensato di lasciarlo intradotto e ho cercato di visualizzare l'effetto che esso avrebbe suscitato nelle mie orecchie di lettore una volta associato al concetto di romanità: il risultato non mi è parso assolutamente all'altezza di quello senz'altro ottenuto da Poe.

La considerazione circa la corretta dizione di questo termine, vale a dire quella di un termine francese pronunciato però da un inglese, non faceva altro che aprire nuovi e più ampi orizzonti traduttivi difficili da percorrere.

Ovviamente non possiamo dire che, in assoluto, la scelta di un termine per la traduzione sia più "giusta "di un'altra.

D'altronde stiamo parlando di una poesia, di un testo letterario, la traduzione del quale è un unicum irripetibile, dove tutto si tiene (tout se tient).

Anche secondo la Teoria Traduttologica Generale si deve, a priori, distinguere tra testo letterario e testo concreto.

Nelle lingue naturali i segni si distinguono nettamente sia sul piano del contenuto che sul piano dell'espressione. Nella lingua letteraria invece i segni hanno un carattere iconico e rappresentativo. Nel testo letterario il significante ha un'importanza maggiore che nel linguaggio normale, tanto da riuscire addirittura a sganciarsi dall'altra faccia del segno linguistico (in altre parole ad "autonomizzarsi").

Bellissima è la definizione che Bertozzi dà al segno linguistico: " è una sorta di emporio di tratti semantici, nel quale elementi referenziali, caratteristiche metaforiche e simboliche vengono a formare quella che è la vera area semantica di un segno linguistico, nella quale possono confluire gli elementi più disparati per costituire un'area in cui la polisemia viene spinta a un grado iperbolico. "[6]

La poesia soprattutto non si esaurisce nel suo significato e Steiner afferma l'estrema difficoltà della traduzione del testo poetico perché la poesia attraverso il particolare esprime l'universale.

Ogni affermazione, ogni lessema aggiungerei io, è irripetibile: è proprio questo che fa oscillare la traduzione tra irripetibilità e intraducibilità.

Per Levi-Strauss[7] la poesia può essere tradotta con molti tipi di distinzione del significato, mentre è solo il mito ad essere universale, e quindi non sottoposto alla mercé del traduttore.

Per Newmark, il quale sostiene che i testi letterari vadano tradotti con più licenze di quelli pragmatici, la traduzione di poesia è la più difficile poiché è l'unica forma letteraria che usa tutte le qualità della lingua. Nella poesia la lingua si dispiega in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue potenzialità espressive.

Jakobson afferma che la poesia è dominata dalla paronomasia, in una relazione in cui tra l'unità fonetica e quella semantica si viene a creare un gioco di parole intraducibile, che viene reso solo per trasposizione creativa. Il ruolo del traduttore secondo Jakobson è quello di rendere concreto il senso implicito sia a livello denotativo che connotativo. Chi dissente totalmente da questo assioma è Bertozzi, per il quale non è assolutamente indispensabile rendere chiaro ciò che non lo è ( quello da me espletato è solamente un tentativo, con la traduzione di "grandiosità", di riproduzione nella lingua di arrivo della magica connotazione racchiusa nel termine " grandeur ".)

Magistrale la considerazione di Umberto Eco: "il problema della traduzione è drammatico in poesia perché si tratta di un'arte dove il pensiero è determinato dalla parola e cambiando lingua cambia il pensiero. Se gli occhi «ridenti e fuggitivi» di Silvia perdono almeno due «i», bisogna cambiare tutto il verso, e forse anche il nome della fanciulla. Per questo sappiamo che le traduzioni poetiche sono atti di ricreazione."

Mi piace l'immagine usata da San Gerolamo, secondo cui il testo viene invaso dal traduttore, che ne estrae il significato (come se si fosse in una miniera all'aperto) e se lo riporta a casa.

Ancora secondo Bertozzi: "Si traduce, si trasla non il codice, ma il testo, non l'intera potenzialità semantica del segno a livello di langue, ma la sua attualizzazione parziale nell'atto di parole, non il complesso dei valori possibili che l'unità linguistica può assumere entro il codice, ma lo specifico valore che essa effettivamente assume entro un certo testo, in virtù di quei meccanismi di contestualizzazione, ovvero di costituzione del senso del testo, che operano sui valori virtuali di langue dell'unità linguistica ".

Siamo ovviamente agli antipodi rispetto al concetto di equivalenza adottato per la traduzione automatica per la quale " il tradurre si configura come un processo di transcodificazione che comporta la sostituzione degli elementi di un codice con altrettanti elementi di un altro codice in modo tale che resti invariato il significato iniziale." [8]

Già Montesquieu nel 1734 aveva denominato una sua opera “Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence”.

Svariati gli autori italiani che associano il termine "grandiosità" alla romanità.

Tommaseo: “Ella [Roma] non altro domanda al sole se non ch’e’ non possa vedere cosa più grande di lei; grandiosità tutta municipale la quale doveva provocare contr’essa la vendetta di tutte le nazioni”.

Benedetto Croce: “La stessa radice ha la sua predilezione per la storia, sopratutto per la romana, …trasformata in una storia esemplare di virtù civili, di sacrifici, di eroismi, di grandiosità volitiva”.

Milizia: “Le più vistose grandiosità di Roma sono il suo disegno”.

Casti: “ Principe magnifico,… anche dopo l’abdicazione dell’impero, [Diocleziano] non seppe mai rinunciare né alla grandiosità delle idee, né all’ambizione di regnare”.

Carducci: “Attesta [il sarcofago]…la grandiosità romana di Leon Battista Alberti”.

Lo! In yon brilliant window-niche

Qui “Mira!” traduce l’ interiezione arcaica “Lo!” = (old use) Look! See!

Tra i suoi significati abbiamo quello di “fissare attentamente lo sguardo su un oggetto definito”, “levare gli occhi verso qualcosa”, “cercare con lo sguardo”, “guardare con intenzione”, “fissare con intenso desiderio”, “vagheggiare la persona amata, ammirandone le bellezze”. Da qui la vicinanza tra “mirare” ed “ammirare”, come evidenziato dal Tasso. Innumerevoli gli autori che si sono avvalsi del verbo “mirare”.

Dante, nella Vita Nova: “Ne li occhi porta la mia donna Amore/perché si fa gentil ciò ch’ella mira”.

Dante, nell’Inferno: “Mira colui con quella spada in mano/che vien dinanzi ai tre si come sire/quelli è Omero poeta sovrano”.

Petrarca: “Mira quel colle, o stanco mio cor vago”. E ancora: “Qual donna attende a gloriosa fama/di senno, di valor, di cortesia/ miri fisso nelli occhi a quella mia/ nemica che mia donna il mondo chiama.”

Tasso: “Mira il ciel com’è bello e mira il sole”. Ancora: “Egli mirolla, ed ammirò la bella/sembianza e d’essa si compiacque, e n’arse”.

Varano: “Alza lo sguardo/e mira il Nazareno, il vero Figlio/di Dio vivente”.

How statue-like I see thee stand,

Ho qui tradotto con l’arcaico “veggo” sulla scia del Leopardi de La Ginestra (vedi nel passo proposto più avanti), composta nel 1836 e contemporanea di “To Helen”, a sua volta pubblicata la prima volta nel 1831 e perfezionata nella forma attuale nell’arco di 12 anni.

The agate lamp within thy hand!

Ho riproposto i tre punti esclamativi che caratterizzano la terza strofa che hanno la funzione enfatica di distanziare la figura idealizzata, archetipo della donna bellissima.

Ah, Psyche, from the regions which

Qui ho voluto riprodurre l’enjambement “which”, mentre con “lande” ho voluto rievocare il suono evocato dalla “Land” di “Terra Santa”. Certo il primo significato a cui viene associato questo termine è quello di un vasto territorio pianeggiante per lo più incolto e disabitato. Tuttavia ho trovato in molti autori una connotazione che va dal malinconico al misterioso e comunque con una valenza meno negativa.

Dante: “Giovane e bella in sogno mi parea/donna vedere andare per una landa/cogliendo fiori”.

Leopardi, ne La Ginestra: “Sovente in queste rive…/seggo la notte; e su la mesta landa/in purissimo azzurro/veggo dall’alto fiammeggiar le stelle”.

Monti: “Nelle verdi lande/del fiume s’arrestar gremiti e spessi/come le foglie e i fiori di primavera”.

Tommaseo: “Rocce vedrai vestite/ di pendenti ghirlande:/ lussureggiar le lande/ l’isole, le con valli/ di verdeggianti viste”.

Are Holy-Land!

Viene ripresa la rima Hand/Land con la consonanza Mano/Sono.

***

Non ho nemmeno per un attimo pensato di voler ricalcare la rima ABABA CDCDC EFFEF delle tre strofe originali: ho preferito, con la sola eccezione dell'ultima consonanza, cercare una certa equivalenza all'interno di uno schema di versificazione libera, riproducendo l'enfasi non la rima.

Per Koller, così come riporta Bertozzi, " l'incongruenza delle lingue coinvolte dal processo traduttivo, la diversità di ambiente, di società, di cultura, la distanza temporale, le mutate condizioni della situazione comunicativa entro cui nasce la traduzione rispetto al testo originale, e poi ancora l'ineliminabile presenza della componente soggettiva legata alla persona del traduttore, sono tutti fattori di eterovalenza. "

Ancora Bertozzi riporta come: " Originale e traduzione sorgono entro contesti di lingua, di società, di cultura comunque diversi. Originale e traduzione sono sempre necessariamente in un rapporto di distanza temporale che rende elastico il significato del testo, e trasforma la ricezione, l'effetto. "

E l'effetto è proprio ciò che ricercava Poe nelle sue opere: ciò non fa che rimarcare la titanica impresa di rendere, nell'italiano attuale, seppur "anticato", la lingua ottocentesca con la quale il nostro autore caricava di enfasi la sua poesia. Solo il consumatore finale, quel lettore che da personaggio virtuale è diventato reale, rappresentando egli la ragion d'essere del traduttore, potrà giudicare se è passata o meno l'intenzione comunicativa con la quale Poe aveva progettato il suo testo.

Se invece avesse ragione Frank il quale sostiene " che un traduttore-anche se vuole produrre null'altro che equivalenza-produce inevitabilmente sempre differenza" ci consolerebbe la speranza di aver fatto rivivere, reinterpretandola e donandole una forma diversa, questa gemma del patrimonio letterario mondiale.

Preferisco piuttosto dare ragione a Jacques Deridda per il quale la traduzione rappresenta il bellissimo ossimoro dell'impossibilità possibile e di conferire la dignità dell'autonomia a questa mia fatica sostenuto dalle parole del Magris: "Questa sua dignità si afferma proprio nel rapporto con il cosiddetto originale, ma anche, come in ogni rapporto vero, anche sul piano umano, nell'autonomia. Un rapporto è autentico quando avviene fra pari, altrimenti è falso."

Concluderei con le parole di Albrecht, che nel 1987 dichiarava: "Pertanto ogni traduttore-anche se ogni probabilità deponi in favore del fatto che egli finirà col lavorare come traduttore tecnico-dovrebbe essersi confrontato con i testi letterari; ciò non sarebbe una perdita di tempo."

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BIBLIOGRAFIA

[1] G.Steiner, 1992, Dopo Babele – Aspetti del linguaggio e della traduzione, Garzanti Ed.

[2] Edmund Burke, nel 1757, pubblicò Indagine filosofica sull'origine delle nostre idee sul sublime e sul bello, in cui individuava nella guerra l'origine dell’idea di sublime e nell'amore la fonte della concezione del bello (una teoria che verrà ripresa da Lev Tolstoj nel 1895).

[3] G.Steiner, op. cit.

[4] Roberto Bertozzi, 1999, Equivalenza e sapere traduttivo, LED-Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto

[5] G.Steiner, op. cit.

[6] Roberto Bertozzi, opera citata

[7] Claude Lévi-Strauss, (Bruxelles 1908), antropologo francese e principale teorico dell'approccio strutturalista in antropologia.

[8] Roberto Bertozzi, op. cit.

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