POETESSE DI TERRA, UN POCO DI MARE E UN POCHINO DI CITTA'
Una proposta per la classificazione della poesia femminile del 900
di Luigi Nacci
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Vittima dei blues
Il mio uomo è partito stamattina
verso le quattro e mezzo,
il mio uomo è partito stamattina verso le quattro e mezzo,
ha lasciato un biglietto sul suo cuscino dove dice che non gli servo più.
Allora ho afferrato il mio cuscino riversa sul letto,
ho afferrato il mio cuscino riversa sul letto,
ho pianto sul mio tesoro fino a farmi diventare le guance rosse come due
ciliege.
E terribilmente dura da sopportare, è una pillola così amara,
è terribilmente dura da sopportare, è una pillola così
amara,
se la pena non mi uccide quell uomo e l esser così trattata lo
faranno.
Cominci a macerarti, hai voglia di piangere,
vorresti correr via, vorresti startene lì sdraiata,
quell uomo mi ha lasciata senza neanche dirmi addio,
vuoi rimanere qui, pensi di morire,
la gente crede che io sia pazza, sono solo vittima dei blues.
Blues della bella scimmiotta
Ogni volta che ti dico qualcosa tu subito
la vai a spifferare a quel tuo scimmiotto,
ogni volta che ti dico qualcosa tu subito la vai a spifferare a quel tuo
scimmiotto,
sei una bella scimmiotta anche tu e si vede che non puoi fare di meglio.
Dovevi affacciarti alla finestra per ascoltare la sua canzone,
dovevi affacciarti alla finestra per ascoltare la sua canzone,
e lui la cantava a un'altra, tutta la notte è stato a cantare.
Ehi, ragazzina, non ti piacerebbe avere un uomo come il mio?
Ehi, ragazzina, non ti piacerebbe avere un uomo come il mio?
Io lo bacio, ci faccio l'amore, ci parlo continuamente.
Perché non provi un po' a svegliarti, piccola, invece di dormire
tanto?
Perché non provi un po' a svegliarti, piccola, invece di dormire
tanto?
Prova ad alzare le tendine e dimmi da quanto il tuo bello non si fa vedere.
Ehi, perché non ti fermi un momento a sentire il consiglio di una
donna?
Perché non ti fermi un momento a sentire il consiglio di una donna?
Parla una sola volta con lui, le ragazzine non hanno bisogno di dire le
cose due volte.
Digli, mi comincio a stufare a morte di questo tuo modo di fare,
digli, mi comincio a stufare a morte di questo tuo modo di fare,
o mi ami come si deve, caro mio, o lasci perdere la mia pelle scura.
Beh, vuoi sapere che cosa devi fare? Vuoi sapere che cosa devi fare?
Fagli solo capire che chi comanda sei tu e vedrai come lui abbassa subito
la cresta.
Ho deciso di cominciare
questo difficile percorso all interno della scrittura poetica femminile
con questi due blues perché ritengo che essi siano, più
di altri testi, esemplificativi di due condizioni tipiche della donna
che mette la propria anima in versi: la rassegnazione
e la ribellione. Il blues è un profano canto d
amore nato e sviluppatosi all indomani dell avvento della schiavitù
delle comunità nere stanziate ne Sud degli Stati Uniti; manifestazione
popolare di un sofferente stato di emarginazione razziale, sociale, umana,
esso non è stato un privilegio soltanto di cantastorie maschi ma
anche e soprattutto di cantastorie femmine; è stato infatti in
seguito al massiccio esodo degli uomini afroamericani verso le regioni
industrializzate del Nord nei primi anni del 900 che migliaia di donne
si sono trovate sole e costrette a lavorare, a prendersi cura della casa,
dei figli, nell'attesa molte volte vana dei rispettivi mariti. Sbaglia,
a mio parere, chi deve configurarsi nel blues il ritratto di una donna
completamente succube dell uomo, priva di dignità e bagnata da
stucchevoli lacrime dalla testa ai piedi. Questo è vero solo in
parte. La donna Soggetto / Oggetto del canto blues rivela a tratti una
consapevolezza lucidissima della propria posizione, sia rispetto alla
società dell'uomo bianco che la maltratta, sia rispetto all uomo
nero che spesso la maltratta per poi abbandonarla. Dolore e gioia, disperazione
che suscita progetti di suicidio e beato annullamento nelle braccia dell
amato, capacità di trasformare il tempo della vita nel sacrificato
Tempo dell'Attesa e simultaneamente pragmatica attitudine a prendere repentine
decisioni nella sfera del quotidiano, tutto ciò caratterizza la
produzione femminile di questo genere popolare. La scelta di trattare
prima questo filone non è casuale, credo infatti che qui, prima
che in un altrove letterariamente più alto, la donna abbia
avuto la possibilità di delineare un'identità forte, seppure
dai contorni abbozzati, e abbia in special modo avuto la possibilità,
successivamente non attuata fino in fondo se non in maniera contraddittoria
negli anni 70, di stabilire un contatto solidale e fraterno con le proprie
compagne, per originare una coscienza comune e una riflessione, non ancora
organiche, dalle quali partire per realizzare attraverso la scrittura
poetica un progetto di emancipazione.
Non va sottovalutata l'influenza che hanno avuto gli Spirituals
- i canti religiosi - nella costruzione di un immaginario comune di riferimento;
il Cristianesimo filtrato dalle comunità nere si è caratterizzato
per la presenza di simboli nuovi o modificati carichi di significati antropologici:
centrali le immagini di Cristo, degli Angeli e della Madonna rappresentati
con la pelle nera; la tendenza ad ingigantire alcuni personaggi dell Antico
Testamento come Giosuè, colui che guidò il popolo alla conquista
della Palestina (attesa dell uomo nero che guidi il suo popolo alla Terra
Promessa) o Sansone, colui che si sacrificò per annientare i Filistei
(l eroe nero che dà la vita per il suo popolo Malcolm X) o Lazzaro,
il mendicante non soccorso dal ricco che tuttavia è felice dopo
la morte (il nero / Vittima che spera nella ricompensa); e poi Dio visto
non tanto come liberatore ma come creatura presente e partecipe nell umiliazione
quotidiana e nella sofferenza.
E' indispensabile comprendere quale fondamentale ruolo abbia svolto la
donna nella diffusione di questi due filoni popolari, e più tardi
del filone folk, e perché questo medesimo ruolo non sia stato in
grado di svolgerlo nel vecchio continente e, in special modo, in Italia.
Ritengo che il senso di emarginazione provato rispetto ad una terra, l'America,
diversissima e lontanissima dalla Terra / Africa / Madre (nostalgia dell
Origine), rispetto ad una società di bianchi razzisti (non accettazione
da parte dell Altro), rispetto all'uomo nero (subordinazione all'Altro
che è a sua volta subordinato all'Altro e spesso portatore di un
istintività repressa e violenta) e rispetto alla Donna / Madre
(forte e carismatica, dalla personalità ingombrante nella comunità
nera, simile per certi aspetti alla donna nella tradizione ebraica) sia
stata una delle molle a far scattare il meccanismo dell affermazione di
sé attraverso il canto. Parimenti non va trascurata la vitalità
di una cultura che ha potuto esprimersi liberamente, senza quei condizionanti
vincoli che la tradizione letteraria ufficiale ha altresì prodotto
in Europa con il risultato di veder escluse dalle progressive storie letterarie
nazionali le voci femminili.
Non dimentichiamoci che cantautori poeti come Woodie Guthrie e sulle sue
orme Bob Dylan, la magnifica Joan Baez, i vari Kerouac, Ginsberg, Corso
& Com, animatori di quel gran calderone che è stata la beat
generation, tutti coloro che hanno capito in anticipo che i tempi
stavano cambiando e vollero essere i protagonisti di quel cambiamento,
tutti loro sono cresciuti artisticamente affondando le proprie radici
in quei generi popolari afro americani e americani di cui la donna è
stata il propulsore, una donna che ha recitato il ruolo di Co-Soggetto
nella creazione di una forma d arte bassa e ha disseminato nell immaginario
collettivo istanze che sarebbero state elaborate molti anni dopo da generi
letterari e musicali considerati alti.
In Italia fin dalle origini della letteratura nazionale la donna è
stata quasi esclusivamente oggetto di canto, per secoli a venire simbolo
e non realtà corporea degna di entrare nel divino ritmo dei versi;
inoltre, la mancanza di un genere popolare ben sedimentato e riconosciuto
nel suo specifico valore dell'Accademia, anche in quel momento storico
topico che è stato l'unificazione nazionale, ha ostacolato l'aggregazione
di gruppi funzionale alla formulazione di rivendicazioni precise. Per
riflesso le donne, escluse dai canali della cultura erudita, non hanno
trasferito il proprio io sulla carta o, se lo hanno fatto, non hanno ricevuto
l'attenzione dei critici e degli intellettuali del tempo in quanto femmine
e in quanto Çincapaci di regolari gestazioni poeticheÈ e Çpochissimo letterateÈ
per citare un tale di nome Croce che, nonostante una visione elitaria
dell'arte e della poesia ha tentato di integrare la storia letteraria
italiana dopo il maschilista lavoro desanctisiano.
Una situazione soffocante di questo tipo ha caratterizzato molti altri
paesi provocando l'estremizzazione dei due approcci alla realtà
con i quali ho fatto partire il mio tentativo di analisi. Si possono così
individuare, leggendo i testi delle poetesse che si sono affermate nel
panorama internazionale del 900, due raggruppamenti, quello della rassegnazione
e quello della ribellione, corredati da diversi sottogruppi nei
quali le tematiche si sfumano l'una nell'altra individuando la zona confinaria
della rassegnata ribellione.
Capostipite di questa poesia è senza dubbio la russa Anna Achmatova (1889 1966), formatasi nel clima dell'acmeismo (il movimento che nacque ai primi del 900 per contrastare il mondo di corrispondenze ridotto a fantasma dai simbolisti). Essa incarna alla perfezione l'immagine convenzionale di una donna priva di autonomia se lontana dall uomo:
Ansimando gridai: «Tutto è
stato
uno scherzo. Se te ne andrai morirò».
(da Strinsi le mani sotto la scura veletta)
. . .
T'allontanasti, e di nuovo nell'anima
deserto e chiaro si fece
(da Turbamento III)
. . .
E sapere che tutto è perduto,
che la vita è un maledetto inferno!
Oh, io ero persuasa che tu saresti tornato.
(da In una notte bianca)
Anche la religione è vissuta in funzione dell'amato, come un amuleto contro l'abbandono:
Ho appreso a vivere in modo semplice e
saggio,
a guardare il cielo, a pregare Iddio,
e a muovermi a lungo innanzi sera,
per fiaccare l inutile inquietudine.
(da Ho appreso a vivere in modo semplice e saggio)
L'inquietudine che ritorna con frequenza in altre poesie non ha venatura esistenziale, tutt'altro:
E a battere il cuore il sgomenta,
tale è l'angoscia che prova
(da Tappettino consunto sotto l'icona)
L'angoscia deriva da un sentimento non ricambiato, dal terrore di non realizzare quell'unione cercata affannosamente tutta una vita. L'Achmatova descrive un mondo di piccole cose quotidiane (in Italia un operazione non dissimile la stanno facendo negli stessi anni i crepuscolari) nel quale spiccano in quanto grandi avvenimenti l'amore e la morte, per i quali si celebrano i momenti dell'attesa e della rinuncia. Ma il paradosso è visibile se l'impulso alla soddisfazione del proprio desiderio più importante (la coppia perfetta come universo autosufficiente) non può dare origine ad un cammino di ricerca dell'uomo giusto, giacchè ciò comporterebbe un'infrazione della morigerata moralità cristiana con il conseguente marchio infame di peccatrice:
Giudicata già secondo leggi non
terrene,
come peccatrice m'aggiro ancor qui,
sul luogo della lunga pena e dell'onta.
(da Non è per questo che, sciogliendomi dalla dannata levità)
Ne deriva una remissiva staticità, una costretta volontà a non cambiare il proprio destino, anzi, ad accettarlo caricandosi le spalle con vani sensi di colpa. Solo nelle raccolte più tarde la poetessa riuscirà in parte ad allontanarsi dalla sofferente tematica amorosa nel tentativo di crearsi delle nuove illusioni in cui trovare rifugio:
Mi stringo al cuore la crocetta liscia:
Dio, la pace all'anima fa tornare
(da La paura che risfoglia le cose al buio)
. . .
Questa città, a me cara dall infanzia,
nel suo silenzio di dicembre
oggi mi è parsa simile
alla mia eredità sperperata.
Tutto ciò che veniva spontaneo,
che era così facile ridare:
l'ardore dell'anima, i suoni delle preghiere
e la grazia della prima canzone,
tutto è fuggito come fumo diafano,
è imputridito nel fondo di specchi.
Ed ecco ormai su ciò che è irrevocabile
il violinista senza naso ha cominciato a suonare.
Ma con curiosità di forestiera,
affascinata da ogni novità,
io guardavo le slitte veloci
e ostacolavo la lingua materna.
E con selvaggia freschezza, con vigore
mi soffiava in viso la felicità,
quasi l'amico diletto da secoli
salisse con me sul terrazzino d'ingresso.
(da Questa città, a me cara dall infanzia)
Dominano oramai il ricordo dell'infanzia, della Terra / Madre, dei propri avi e l'immagine della patria, la Russia, baciata da Dio e che «ama, ama il gentil sangue». L'ipotesi che qui vorrei avanzare è di una tipicità dei temi ricorrenti nelle poetesse della rassegnazione ricollegabile alla specificità dei temi della cosiddetta benussianamente cultura degli scrittori di terra: il valore del sacrificio, la famiglia come nucleo portante di una società ordinata, la morale cattolica dispensatrice di sensi di colpa, il rispetto degli usi dei propri antenati, l'accettazione dell'ineluttabilità del destino inserito in un ciclo nascita-riproduzione-morte, la memoria che segna i passaggi della vita e dà fiato al dimesso presente, la preferenza verso le forme del sapere evangelico rispetto al sapere astratto. Temi che tornano con insistenza in altre poetesse molte delle quali nate e vissute prevalentemente in quei paesi dell'Est Europa più arretrati rispetto all incalzante tecnologizzazione dell Occidente opulento. Con questo non voglio asserire che sia stato determinante il fattore geografico sociale per la maturazione delle poetiche individuali nelle direzioni di una poetica omogenea (non sarebbe possibile, la vera poesia è una umile e privatissima espressione dell'anima non piegabile ad un modello di riferimento) bensì non faccio altro che rilevare una tendenza riscontrata dopo l'appassionata lettura di antologie poetiche russe, polacche e rumene. Tra quest'ultime va presa in considerazione Magda Isanos (1916 1944), cantrice della Natura, compagna fraterna e conduttrice di stagionale pace:
Vorrei essere nella terra calda,
trasformare il mio corpo in erba buona,
brucata da povere bestie sparse,
che imploreranno anche per me un perdono
al giudizio finale. Scorderò
quel che fui, e in forme nuove dispersa
anche di te io perderò il ricordo!
e poi:
ma le piogge penetreranno in me
a lavarmi i peccati dalle ossa
e come la radice che s'infossa
presentirò i miei giorni più belli
(da Ai margini del cimitero)
Nella Isanos l'attenzione non è focalizzata come nella Achmatova sul rapporto d'amore, ma piuttosto sulla disparità tra i ricchi finti devoti e i poveri senza terra:
Gli uomini ricchi hanno fatto icone,
iconostasi dorate e corone
di stalli, ma Dio non è disceso
in un luogo così difeso.
poi:
Erano proprio tante le fatiche
di Dio, e gli uomini lo importunavano,
chiedendogli il male l'uno per l'altro.
Li udiva urlare: «Questa terra è mia!»
allora
E si adirò
finchè
E Dio rimise il fulmine nel fodero
e tornò alle sue fatiche, soprappensiero.
(da Dio)
Dio che scatena tempeste per colpire gli uomini
avidi è un giudice agguerrito che aiuta i più deboli o una
divinità «soprappensiero» estranea agli eventi terrestri?
A me pare, viste pure altre poesie, che la Isanos manifesti la sua profonda
rassegnazione alle ingiustizie della società e confidi più
che altro nel giorno del giudizio per la realizzazione della legge del
contrappasso.
Un altro Dio, non indaffarato a «volare sugli alberi» ma anzi
disegnato apposta per vigilare sul suo popolo (che popolo? il popolo femminile?
degli emarginati?) è quello di Ewa Lipska:
Il mio Dio è alto un metro e cinquanta
ma è grande come il vostro Dio
Il mio Dio sopravviverà al vostro
anche se la strada del mio Dio è più breve
e soprattutto
Gli sono vicine le cose quotidiane
e dota il suo popolo di una felicità piccola
(da Le confessioni del nano)
Ma esemplare per concludere questa prima parte sono i versi de Il tavolo di famiglia:
Il tavolo di famiglia è molto più
grande
del tavolo normale.
Si vedono sempre di meno quei tavoli.
Stiamo seduti e la nonna di nuovo constato che la rivoluzione le ha interrotto
la cucitura dell'abito che non terminato
se ne andò al fronte.
Le imbastiture si sono certamente scucite - compiange la nonna -
l'hanno fucilato.
Che cosa potrebbe far comprendere meglio di questa simpatica vecchietta il senso del discorso portato avanti fino a qui?
Ben più complessa la situazione delle
poetesse in cui lo spirito di rivalsa nei confronti delle strutture tradizionali
del sapere e della società ha sopraffatto la paziente sottomissione.
Purtroppo sono tentato a credere che esse non abbiano elaborato sulla
pagina bianca un modello alternativo a quello maschile organizzato secondo
l'affermazione di alcune tematiche forti e rivoluzionarie. L'impressione
è di un generale e generico attacco al vecchio stereotipo di donna
forgiato dall'uomo non supportato da un progetto propositivo, un urlo
liberatorio facente il verso alle parallele campagne di emancipazione
cominciate tra la fine dell 800 e i primi del 900 e riaccesesi, dopo una
lunga pausa, negli anni 60. Mi è parso quasi, a volte, di scorgere
dietro gli sfoghi più laceranti un terrore inspiegabile nei riguardi
di quel cambiamento auspicato, un panico inconsueto di fronte alla prospettiva
dell'agognata liberazione, un residuo di volontà a non
stravolgere certi punti fermi dell'esistenza, anche se cause di tormento.
Probabilmente questo non è nient'altro che il riflesso di una tendenza
specificatamente femminile a rimanere ben con i piedi per terra, a non
confondere l'ideale col reale, a sapere l'inevitabilità del dolore
(una creatura che prova le pene dell'inferno per donare la vita può
non conoscere la parola dolore?) e l'altra faccia dura della verità
(chi non ha nulla da perdere perché non dovrebbe avere il coraggio
di guardare in faccia e di dire la verità?) continuando tuttavia
la lotta con la passione del neofita pronto a tutto.
Ma allora perché molte tra queste donne pronte a tutto si sono
suicidate? Perché poetesse consapevoli e spesso note negli ambienti
culturali hanno deciso di darsi la morte? Tenterò di rispondere
al quesito prendendo in analisi i testi di alcune poetesse.
Marina Cvetaeva (1882 1941), russa, colta, si rappresenta
fin da giovane come una strega (quante volte ricorre nella letteratura
femminile questo simbolo?) sul rogo:
Anima che non ha ingoiato l'oltraggio
che gli stregoni non siano più bruciati.
Fumigante sotto un cilicio
come un alta treccia di rèsina!
Digrigante eretica,
- sorella del Savonarola -
anima degna del rogo!
(da Anima che non conosce misura)
Se è possibile notare subito il differente atteggiamento rispetto alla religione altrettanto presto è possibile notare il capovolgimento che mette in atto nel mito di Orfeo e Euridice:
io, morta che posso dirti oltre:
«Dimenticami e abbandonami!»
Non riuscirai a turbarmi! Non mi farò portare!
(da Euridice a Orfeo)
L'angolo visuale adottato è quello della sposa defunta, quasi a volerla destituire dal ruolo di mero strumento attraverso il quale l'uomo giunge alla conoscenza per attribuirle una dignità autonoma, una possibilità di scegliere e non di essere scelta, di cominciare anch'essa un cammino di conoscenza e di esplorazione della propria interiorità in un mondo parallelo a quello dei vivi, giacchè quest ultimo è fatto
di bigodini, pannolini,
calamistri arroventati,
capelli bruciacchiati,
cappelli, cuffiette,
eau-de-toilette,
di felicità volgari,
coniugali (Klein Wenig!)
- «Dov è la caffettiera?» -
di biscotti, cuscini, matrone,
di balie, bagni, bonnes.
Non voglio aspettare l'ultima mia ora
in questa scatola di corpi femminili.
(da Il treno)
Il rifiuto di una vita costruita sulle piccole cose del quotidiano e sulla famiglia s'allarga nella poesia successiva per diventare rifiuto totale di qualsiasi tipo di sicurezza alla quale appigliarsi, sia essa la chiesa, la casa, la patria, la lingua natìa, o il ricordo dell'infanzia:
Nostalgia della patria! Da tempo
smascherata molestia! Per me
è assolutamente lo stesso
dove assolutamente sola
restare, per quali strade
trascinarmi dai mercati
in case caserme, ospedali!
ignare di essere «mie».
nulla le interessa
Neppure il linguaggio natale
ormai mi lusinga, il suo latteo appello.
conclude:
Ogni segno, ogni indizio, ogni data
da me ha cancellato una mano:
anima nata nel nulla.
(da Nostalgia della Patria! Da tempo)
La Cvetaeva si toglie la vita nel giugno 41
impiccandosi a una trave.
Tagliare le radici e diventare «un'anima nata nel nulla» è
un'azione consueta nella scrittura poetica maschile, che genera la figura
classica dall'800 in poi del vagabondo squattrinato maledetto e il più
delle volte alcolizzato.
Tagliare le radici significa per una donna tagliare il cordone ombelicale
che la lega per tutta una vita a sua madre, significa troncare quel rapporto
morboso di amore e odio che può condizionare inevitabilmente un
esistenza. Le poetesse che io ho provocatoriamente chiamato della rassegnazione
hanno aggirato il problema spesso sposando giovanissime il primo uomo
che consentisse loro di andarsene da casa, hanno cioè progettato
la fuga da una prigione per andare a rinchiudersi in un carcere di massima
sicurezza. Le altre, le ribelli, quasi sempre molto colte e dotate di
un alto grado di consapevolezza, hanno abbandonato una cultura, quella
di terra, dall etica totalizzante, e si sono trovate spaesate senza una
bussola. Qualcuna ha deciso di salpare per mari vasti celanti il pericolo
del naufragio dietro ogni scoglio, nell'assoluta instabilità dell'infinito
orizzonte, senza alcun dio a fare da guida, immersa in un tempo tediosamente
ciclico ma mutevole e di guizzi improvvisi come l'onda inaspettata che
travolge la nave, la spezza e frammentata la disperde sul fondo di sabbia
volubile. Ma nello stesso tempo in cui ha intrapreso questo viaggio non
si è fatta moderna Afrodite per attirare l'uomo nelle sue ammalianti
trappole, bensì Diana, protettrice della castità (dell anima
e del corpo che reclamano il diritto a non essere violati né dal
Maschio/Animale né da certo moralismo di stampo puritano) e della
caccia (del Maschio/Animale che merita di essere ucciso ma non merita
di essere trattato alla stregua della prelibata selvaggina) seguita da
un folto gruppo di ninfe sue fedeli allieve e assetate di vendetta verso
chi osò strappare loro la verginità divina.
La solidità della terra, monotona,
ci sembra debole illusione.
Vogliamo la grande illusione del mare,
moltiplicata nella sua sequela di pericoli.
poi:
Il mare è solo il mare, sprovvisto
di legami,
si annulla e si ricompone,
correndo come un toro blu sulla sua stessa ombra,
senza aggredire nessuno con bravura,
per diventare dopo la pura ombra di se stesso,
vinto da se medesimo. E' il suo grande esercizio.
Non ha bisogno della meta determinata della terra,
lui che è, allo stesso tempo,
il danzatore e la sua danza.
e il confronto:
Non vuole trascinarmi come i miei avi
di un tempo,
né condurmi piano piano,
come i miei padri, dai sereni occhi scuri.
Mi accetta solo convertita nella sua natura:
plastica, fluida, disponibile,
identica a lui, in costante soliloquio,
senza esigenze di principio e fine,
indipendente da terra e cielo.
Sono versi tratti dalla poesia Mare assoluto della brasiliana Cecilia Meireles (1901 1961), una tra le più grandi poetesse in lingua portoghese, che ritengo esemplifichino bene lo spostamento compiuto in un altrove all'insegna della molteplicità, della doppiezza, della metamorfosi, mentre l'americana Anne Sexton (1928 1974), iniziatrice della cosiddetta linea confessionale intrisa di un certo gusto beat si spinge oltre e, dopo aver tagliato con una violenza inaudita le radici:
Non sapevo che la mia vita, alla fine,
sarebbe passata sopra quella di mia madre come un camion
(da Quei tempi)
e aver individuato in cosa consiste la propria funzione biologica:
Una donna è sua madre.
Questa è la cosa importante.
(da Casalinga)
taglia pure il frutto nato da quella pianta con le marcie radici:
E' tutto. Non c è più niente
che io possa dire o perdere.
Altri hanno mercanteggiato la vita, prima
e non hanno potuto parlare. Mi costringo a rifiutare
i tuoi occhi di gufo, mio fragile visitatore.
Ti tocco le gote, sono fiori.
Urti contro me. Dimentichiamo. Sono riva
che ti culla e respinge. Ti separi da me. Scelgo
l'unica via, mio piccolo erede
e ti respingo, tremando per le cose che ci perdiamo.
Va' piccolo, sei la mia colpa niente più.
Abbandonare un figlio e trasformarsi in un topos letterario collaudato
In giro sono andata, strega posseduta
ossessa ho abitato l'aria nera, padrona della notte;
sognando malefici, ho fatto il mio mestiere
passando sulle case, luce dopo luce:
solitaria e folle, con dodici dita.
Una donna così non è una donna.
Come lei io sono stata.
(da Una come lei)
e forse, come afferma il penultimo verso,
non essere più una donna. Non essere più mogli, né
figlie, né madri, né donne. Ma per essere cosa?
Nell'ottobre del 1974 la Sexton si suicida; le troveranno addosso la vecchia
pelliccia della madre, quella madre «investita» tanti anni
prima da una figlia straripante di rabbia.
Completa il quadro dell'eliminazione dei punti di riferimento e dell'allontanamento
dai valori di una cultura di terra l'americana Sylvia Plath
(1932 1963) che, nonostante abbia perso il padre solo all'età di
otto anni, lo uccide nuovamente nei versi:
Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent'anni ho vissuto
come un piede, grama e bianca,
Trattenendo fiato e starnuto.
Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
termina appellandolo così:
Papà, carogna, ho finito.
Sylvia Plath muore suicida a Londra. Come
la Cvetaeva e la Sexton ha uttilizzato il canto per attaccare un modello
e per distruggerlo, ma dopo dove si è diretta? Dove si sono dirette,
prima di prendere la strada preannunciata sulla carta dell'auto distruzione?
Sono effettivamente entrate a far parte dell'area in cui gravitano i benussiani
scrittori di mare? O si sono posizionate sul confine, sul limite che esile
e longilineo in superficie nasconde invece lo spazio sconfinato per l'eventualizzazione
dello scontro incontro tra ragione e follia? E non è stato probabilmente
questo stare/vegetare/gridare sul confine, su più confini, con
un occhio disgustato rivolto al passato e un occhio preda del panico rivolto
al futuro, a generare in esse la consapevolezza di un fallimento e la
scelta del suicidio? Non potrei mai rispondere a quest'ultima domanda.
La lascio lì, come ipotesi non sviluppabile da persona umana. Credo
comunque che nella poesia delle cosiddette ribelli si siano fuse assieme
istanze della cultura di mare (e le abbiamo viste) con prerogative della
cultura di città (la protesta verso una verticale struttura socio-economicoÐpolitica;
la perdita del ruolo educativo della famiglia dal momento in cui il concetto
di famiglia è stato demolito; soprattutto la visione di un amore
possibile con l'uomo solamente a pagamento sui marciapiedi; conseguente
a questo, o antecedente, o né l'uno né l'altro, la ribellione
vissuta attraverso la dichiarazione di una eroticità saffica,
sia dal punto di vista strettamente poetico, sia, spesso, dal punto di
vista delle proprie scelte sessuali la leggendaria Natalie Clifford Barney
o papessa di Lesbo, o la Saffo polacca Maria Pawlikowska o l'altra francese
Renée Vivien, fenomeno che mi sembra in bilico tra le due culture,
in quanto da una parte manifestazione di un eros non funzionale alla natalità
ma al piacere fonte di conoscenza, e dall'altra manifestazione di un disagio
nei confronti del maschio visto come Pappone/Mercante di corpi o come
cliente sprovvisto di tatto e adulatore dell'atto sessuale che soddisfi
soltanto se stesso) mischiate a loro volta alla Rifiutata Nostalgia di
una weltanschauung rassegnata ma senza dubbio totalizzante.
c) Poesia della rassegnata ribellione
Qui sostano, tra una peregrinazione e l'altra,
le poetesse di origine ebraica. Esse hanno alle spalle una corposa tradizione
(nella storia, non nei testi biblici) che pone la donna al centro dell'istituzione
famigliare e parallelamente la vede non di rado impegnata direttamente
nella gestione di attività economiche all'interno del ghetto. Hanno
un modello presente con cui confrontarsi e di contro sentono in maniera
viscerale l'assenza di una patria, l'impossibilità di ritornare
alla Terra/Madre accompagnata dall'orrore di una persecuzione razziale
che ha toccato il suo apice nel XX secolo.
Coltissime, non sono affatto timorose di duettare con gli intellettuali
più in vista (l'esempio lampante è la francese Simone Weil)
mentre in poesia paiono mettere in luce gli aspetti più tragici
della propria condizione e le debolezze di un popolo condannato a sentirsi
straniero ovunque:
E' l'ora planetaria dei fuggiaschi.
E' la fuga travolgente dei fuggiaschi
nella vertigine, la morte!
(da E' l'ora planetaria dei fuggiaschi)
Uno straniero porta sempre
la sua patria fra le braccia
come un'orfana
per la quale forse
cerca solo una tomba.
(da Se venisse qualcuno)
Così scrive Nelly Sachs
(1891 1970), ebrea tedesca vincitrice del Premio Nobel nel 1966, trattando
un tema comune a tutti gli scrittori di matrice ebraica e dimostrando
che scrittura maschile e femminile si sovrappongono quando le penne sono
impugnate da mani egualmente capaci e l'inchiostro si dispone a simulare
la situazione dell'esclusione.
Nonostante il ruolo importante che la donna giochi nel mondo ebraico e
la forza morale di cui sia provvista, è naturale intuire che essa
nel mondo non ebraico possa sentire il peso di un'emarginazione maggiore
rispetto alle sue compagne di religione diversa, giacchè al muro
alto della Società e dell'Uomo Padre/Figlio si affianca il muro
che recinta la Terra/Madre. Per riallacciarmi ai discorsi iniziali potrei
affermare che la condizione d'esclusione della donna ebrea è vicina
a quella della donna nera del Sud degli Stati Uniti a cavallo tra 800
e 900. Non a caso, pur se ovviamente con stati di coscienza disuguali,
gli atteggiamenti - di ribellione profetizzante a tratti, a tratti di
serena rassegnazione, in sostanza di rassegnata ribellione - si rispecchiano
abbastanza bene nel canto poetico e provano che una grande cultura e una
profonda consapevolezza di sé e della propria storia probabilmente
non bastano a mitigare il dolore dell'umiliazione e della speranza sopraffatta.
I versi di Leah Goldberg (1911 1970) calzano a pennello:
E così mi ha lasciata, Dio straniero
in una città di cui nulla conosco
fra i canali, la camera d'albergo (cella monastica)
finestra spalancata, luce del mezzogiorno
Cocci sparsi sul tetto qui di fronte
e un frammento di rima: Dio, riportami dov'ero ieri!
Nel putrido dell'acqua verdastra
striscia una gondola silente
Una grassa colomba trionfa lenta
polvere ancestrale nel cielo bianco
Aumenta la calura e s'appisolano i leoni
appostati davanti al canale
(Che afa a Venezia)
Qui la poetessa, abbandonata da un uomo che viene elevato - o abbassato? - al rango di Dio straniero, dichiara la sua doppiezza: sua serva, ovvero monaca nella cella monastica e contemporaneamente prostituta lasciata in una camera d'albergo. L'unico elemento di disturbo che spezza il ritmo lento della poesia è l'irruzione del vero Dio, invocato in molte altre circostanze:
Insegnami, Iddio, a pregare
sul mistero di una foglia appassita, sulla luce che manda un frutto maturo
su queste libertà: vedere, sentire, respirare
sapere desiderare e fallire.
Insegna alle mie labbra a ringraziarti e darti lode
nell'eternità del tuo tempo, il mattino e poi la sera
affinché il mio giorno non sia mai come quello di ieri
una pigra abitudine.
(da Strofe in fondo alla via)
Dio non compare nella prospettiva della salvezza
di un popolo, ma, come già visto in precedenza per le poetesse
rassegnate, risulta essere presenza quotidiana, compagno che scaccia la
«pigra abitudine» e che insegna a «sapere desiderare
e fallire».
Vorrei concludere con una poesia della sudamericana di origine ebraica
Alejandra Pizarnih (1939 1972):
Uno sguardo
uno sguardo dalla fogna
può essere una visione del mondo
la ribellione sta nel guardare una rosa
finché gli occhi non siano consumati
Credo stia tutto in questo quadretto dipinto
a versi quello che fino a qui non sono stato capace di dire, tutto quello
che ho espresso male.
Mi si potrà forse rimproverare di avere a volte intrecciato il
livello della vita con il livello del testo, ma sono convinto che la poesia
onesta sia l'autobiografia fedele di un'anima obbligata a camminare, a
correre e a strisciare su un sentiero impervio senza che nessuno le abbia
mai insegnato l'arte del cammino, della corsa o della strisciata.
Il problema è soltanto riuscire a riconoscere quest onestà.
Problema irrisolubile, affascinante, meritevole di essere via via affrontato
senza l'illusione di essere giunti alla soluzione finale.
Bibliografia delle opere utilizzate
per i testi in traduzione italiana delle poetesse:
- A. Achmatova, Poesie, Edizioni Fussi, Firenze 1951
- Poesia russa del Novecento, a cura di A. M. Ripellino, Guanda, Parma
1954
- M. I. Cvetaeva, Poesie, Rizzoli, Milano 1967
- Poesia polacca contemporanea, a cura di Irena Conti, Editori Riuniti,
Roma 1977
- Blues, Spirituals, Folk Songs, a cura di Elena Clementelli e Walter
Mauro, Newton, Roma 1996
- L'altro sguardo, a cura di Guido Davico Bonino e Paolo Mastrocola, Mondadori,
Milano 1996
per l'approccio critico:
- Cristina Benussi, Scrittori di terra, di mare, di città, Nuova
Pratiche Editrice, Milano 1998
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