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Cornelio Tacito,
Il matricidio di Nerone
(Annales XIV, 8)

di Raffaella Di Meglio

Nella categoria: HOME | Articoli critici

Testo
Traduzione
ANALISI
- Prima sequenza: una scena corale
- Seconda sequenza: l'irruzione del sicario nella villa di Agrippina
- Terza sequenza: l'ansia e la solitudine di Agrippina
- Quarta sequenza: i sicari entrano nella camera di Agrippina
- Quinta sequenza: l'uccisione di Agrippina
- Lo stile potente e drammatico di Tacito: osservazioni conclusive
- Il metodo storiografico e il pensiero politico di Tacito

Testo

1. Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. 2. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. 3. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. 4. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. 5. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.

Traduzione

1. Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. 2. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. 3. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. 4. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. 5. I sicari circondarono il letto e il trierarca per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.

Testo e traduzione tratti da Lidia Pighetti (a cura di) Tacito. Annali XI-XVI, Oscar Mondadori

Analisi

Il capitolo, tratto dal libro XIV degli Annales di Tacito (scritti intorno al 117 d. C.), descrive il momento culminante del matricidio programmato da Nerone. Emerge in esso l’abilità artistica dello storico, l’impianto tragico che caratterizza in particolar modo questa sua ultima opera. Come un regista, egli sposta l’occhio da uno spazio esterno e aperto ad uno chiuso, dal campo lungo al primo piano, seguendo un percorso spaziale cui corrisponde un passaggio dall’anonimato della folla al dramma interiore di Agrippina, dai moti esterni ai ritmi interni.

Prima sequenza: una scena corale

Nella prima sequenza Tacito costruisce una drammatica scena corale, incentrata sulla reazione della gente alla notizia dell’incidente di Agrippina, descritto nel capitolo 5 (il primo tentativo fallito di uccidere la donna, attraverso la simulazione di un naufragio). È una scena confusa, concitata: un accorrere sul litus, luogo dell’incidente, disordinato, caotico che rispecchia il disorientamento, l’ignoranza del popolo (quasi casu evenisset), escluso dai meccanismi del potere, dagli intrighi di corte. È un populus ridotto oramai a ingens multitudo, a massa amorfa, privata della libertas, dell’indipendenza di pensiero, passivamente soggiogata dal fascino perverso di un princeps estraneo, lontano, personificazione di un potere imposto e ridotto a pura esteriorità, a pura magnificenza. Il rapporto con la politica, esclusa la partecipazione attiva e criticamente consapevole, è degenerato in un ambiguo vincolo pseudoaffettivo (come suole accadere nei regimi autoritari): l’incertezza sulla sorte dell’imperatrice induce questa massa ad abbandonarsi a reazioni istintive, irrazionali (quidam manus protendere), manifestazione e dichiarazione di dipendenza e di inferiorità rispetto ai regnanti.
Il ritmo stesso della narrazione rende l’agitazione della folla, nell’ellissi del soggetto di decurrere e di evenisset, nella serie rapida degli infiniti narrativi (decurrere, scandere, vadere, protendere, compleri, adfluere, expedire), nei veloci spostamenti dell’inquadratura da un gruppo all’altro attraverso frasi serrate e concise coordinate per asindeto (la variatio del soggetto hi, alii, quidam accresce la vivacità del racconto), nell’uso dell’asindeto nella formula questibus, votis, clamore, nella densità dei sintagmi diversa rogitantium aut incerta respondentium, dove i due aggettivi chiave riassumono lo stato d’animo della folla.
Alla sensazione uditiva trasmessa dall’espressione questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri, che visualizza la scena della spiaggia risuonante del vocio confuso della moltitudine, segue un’immagine visiva, quella dei luminibus che dà un tocco chiaroscurale.
È come se l’artista dall’alto seguisse questo esercito minuscolo (come di formiche) ondeggiante fisicamente e psicologicamente, prima disperso (hi, hi, alii, quidam), poi compatto (adfluere infens multitudo e ad gratandum sese expedire), poi di nuovo sparpagliato (deiecti sunt con constructio ad sensum) dal vero esercito (agmen indica la schiera in marcia) senza avere il tempo di rallegrarsi per l’incolumità di Agrippina.
Vi si può riconoscere il disprezzo dell’aristocratico per l’incostanza e la vigliaccheria della folla che, pronta ad esultare per lo scampato pericolo dell’imperatrice, non esiterà ad accogliere trionfalmente il matricida (XIV, 13).
Questo efficace affresco di psicologia di massa fa da sfondo e prepara la tragedia della protagonista: i fattori attivi della storia per Tacito sono gli individui, non il popolo.

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Seconda sequenza: l’irruzione del sicario nella villa di Agrippina

Il luogo dell’azione si sposta infatti nella villa dell’imperatrice sul lago Lucrino, dove era stata condotta in salvo dai pescatori. La sequenza si apre con un ritmo incalzante che segue le mosse fulminee (da qui l’uso del presente storico) di Aniceto, il sicario mandato da Nerone, dall’esterno (villam statione circumdat) alla porta di ingresso (refractaque ianua) alle porte della camera della vittima. La violenza e la rapidità dell’irruzione è condensata nell’enfatica ridondanza del sintagma terrore exterritis e amplificata dall’iterazione fonica della /r/ (ceteris terrore inrumpentium exterritis). Funzionale alla drammaticità della sequenza è l’ellissi narrativa sulla sorte dei pauci rimasti a guardia della stanza che al lettore è facile immaginare.

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Terza sequenza: l’ansia e la solitudine di Agrippina

Nella sequenza successiva la prospettiva cambia nuovamente: Tacito ferma l’azione di Aniceto, lasciandolo sospeso ad fores cubiculi ed introduce una lunga pausa, il cuore del capitolo, per ritornare un po’ indietro e seguire la vicenda di Agrippina.
Prima di Aniceto, Tacito fa entrare il lettore all’interno del cubiculum. Con brevissime notazioni egli crea un’atmosfera funerea e cupa: basta il particolare del modicum lumen, l’insistenza fonosimbolica sul suono inquietante e minaccioso della /u/ e della /m/ (cubiculo modicum lumen, ancillarum una) a delineare lo sfondo di tetra solitudine del dramma della protagonista. Significativo il contrasto tra il modicum lumen e i luminibus della folla nella scena iniziale, che accentua l’isolamento della donna.
Da questo momento è Agrippina a concentrare su di sé lo sguardo dello storico ed è qui che emerge l’acutezza psicologica di Tacito: la prospettiva da esterna si fa interna al personaggio, i cui pensieri sono riprodotti attraverso una tecnica che pare anticipare l’indiretto libero del romanzo moderno.
Quel magis ac magis anxia (parola chiave, da angere: stringere) prepara la sequenza più drammatica dell’intero capitolo. Gli eventi stanno precipitando, gli indizi sono inequivocabili: il mancato ritorno di Agermo, il liberto che aveva inviato come messaggero al figlio (Nerone se ne servirà per giustificare davanti a tutti il delitto facendolo passare per un sicario mandato dalla madre), le grida improvvise che rompono il silenzio e la solitudine della villa che si sta svuotando.
Il ritmo sintattico affannato, franto e conciso traduce l’agitarsi di questi pensieri nell’animo di Agrippina, la concitazione della donna nel suo inesorabile approdo alla rassegnazione alla verità; i periodi sono tormentati da forti pause interne e da violente e continue ellissi: omissione del verbo (venerat) della causale introdotta da quod, ellissi del verbum sentiendi (cogitabat) da cui dipendono le due oggettive, di esse nella seconda oggettiva, nella quale il valore fortemente avversativo di nunc e il polisindeto variato ac et rendono efficacemente l’incalzante insinuarsi nell’animo della donna dell’intuizione della prossima fine. Particolarmente incisiva l’espressione brachilogica aliam fore laetae rei faciem che condensa in una breve oggettiva l’apodosi di un periodo ipotetico dipendente da una proposizione reggente sottintesa (la frase completa sarebbe: Agrippina cogitabat, si res laeta esset, aliam fore eius faciem).

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Quarta sequenza: i sicari entrano nella camera di Agrippina

La narrazione riprende affrettandosi verso la soluzione del dramma: la porta finalmente si apre, esce l’ultima ancella rimasta accanto all’imperatrice (estremamente concentrata l’espressione abeunte dehinc ancilla ‘tu quoque me deseris’ prolocuta dove l’ablativo assoluto e il participio congiunto a breve distanza nel periodo fanno risaltare le solenni parole di Agrippina), entra Aniceto.
Solo adesso Tacito svela l’identità degli inrumpentes, ma lo sguardo è ancora su Agrippina: nelle parole che Tacito le fa rivolgere ai sicari in forma indiretta (in effetti Agrippina si rivolge solo ad Aniceto in qualità di capo della spedizione), c’è l’angoscia di una donna disperata che tenta un’ultima, illogica difesa mostrando di credere ad una visita di piacere (si ad visendum venisset), c’è l’angoscia di una donna che ha invece intuito il reale motivo della visita (sin facinus patraturus) e di una madre si rifiuta di credere al matricidio (nihil se de filio credere; non imperatum parricidium). C’è, insomma, l’angoscia di una donna che si rifugia nell’autoinganno (in questo Tacito sembra veramente anticipare la psicoanalisi).
La sintassi, complicata dai due periodi ipotetici dipendenti da un sottinteso verbum dicendi (dixit), con la prima apodosi costituita da un congiuntivo esortativo a sua volta reggente una oggettiva (refotam), la seconda all’infinito, ha la stessa spezzatura del precedente monologo interiore: l’ellissi del verbum dicendi, del verbo esse e del soggetto (se) nell’oggettiva (refotam) dipendente dal congiuntivo esortativo nuntiaret, la variatio della proposizione finale (gerundio preceduto da ad in ad visendum e participio futuro in patraturus), la concisione dell’espressione nihil se de filio credere.
Agrippina ora non è più la donna spregiudicata, ambiziosa, avida di potere, manipolatrice del figlio, cui il lettore era abituato, è una donna anxia, sola, indifesa, vicina alla morte, e una madre tradita dal figlio, verso la quale Tacito indirizza la pietà e l’angoscia del suo pubblico, accresciuta dalla crudeltà del delitto. Egli pare qui più umano ed indulgente verso quella donna che aveva definito sprezzantemente atrox e falsa, mentre la condanna si riverbera indirettamente sulla depravazione morale di Nerone (che emergerà proprio nei capitoli successivi).

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Quinta sequenza: l’uccisione di Agrippina

Il dramma precipita: il letto è circondato, Agrippina è colpita al capo. Da notare il passaggio dal presente storico circumsistunt al perfetto adflixit; il primo funzionale alla vivacità drammatica, l’altro alla violenza e irrimediabilità del gesto. Nella sequenza finale l’uso costante del perfetto (exclamavit, confecta est) conferisce solennità alla morte del personaggio: Agrippina non perde la sua dignità, Tacito la vuole presentare quasi come un’eroina tragica, anch’essa vittima immolata ad un potere corrotto e degenerato. Basti considerare la solennità delle sue parole (anche l’uso di un termine giuridico parricidium rispetto al precedente più generico facinus) e in special modo delle uniche due frasi che le fa pronunciare attraverso il discorso diretto, dal forte effetto teatrale: la prima è l’apostrofe all’ancella, tu quoque deseris, chiaro richiamo alle parole rivolte in punto di morte da Cesare a Bruto, in cui risuona l’amarezza, la rassegnazione ma anche il rimprovero all’ancella per aver tradito il suo dovere (significativa la scelta del verbo desero in luogo del più neutro linquo); l’altra è ventrem feri, il comando rivolto al sicario, un ordine dunque, con il quale la donna conserva anche nella morte l’autorità di madre del Princeps. È una sorta di vendetta “virtuale” attraverso l’uccisione simbolica del figlio e nello stesso tempo una volontà di autopunizione. In queste ultime parole si legge la disperazione ma anche l’orgoglio, la fierezza della donna che vuole controllare e comandare anche la sua morte (protendens uterum richiama quidam manus protendere della prima sequenza: lì la patetica agitazione della folla, qui la patetica solennità del gesto).

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Lo stile potente e drammatico di Tacito: osservazioni conclusive

Nel testo esaminato emerge l’abilità con cui Tacito cerca di far corrispondere la parola al sentimento, attraverso uno stile drammatico, che in alcuni passi diventa una sorta di “guerra alla regolarità retorica e grammaticale” secondo la formula di Marchesi. Lo storico utilizza una tecnica narrativa che tende all’espressione brachilogica, ai rapidi scorci, ai trapassi temporali. Il linguaggio teso e incisivo si adatta alla drammaticità degli eventi narrati e pare riflettere l’inquietudine, la visione cupa e tragica dello scrittore stesso. Il suo è uno stile imprevedibile, libero, violentemente sintetico ed ellittico, che ama la variatio, l’asimmetria e che genera un ritmo nervoso, spezzato.
Allo stesso tempo Tacito, per dare maggiore solennità e forza a ciò che racconta, non rinuncia a conferire alla sua prosa musicalità, color poeticus (agisce su di lui la lezione di Virgilio e di Lucano), tanto che la critica lo ha definito “poeta della storia”: qui ne abbiamo degli esempi in alcune espressioni, come cui pauci adstabant, dove compare il dativo (cui) al posto del costrutto con preposizione, cubiculo inerat in luogo del più prosastico in cubiculo erat, e negli effetti chiaroscurali segnalati nel corso dell’analisi, tipici della prosa di Tacito, “il più grande pittore dell’antichità” secondo la definizione di Racine.

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Il metodo storiografico e il pensiero politico di Tacito

Il testo è emblematico del metodo storiografico tacitiano. Egli riprende l’impostazione moralistica dal suo principale modello, Sallustio, cui lo accomunano l’intento di ricercare le cause della crisi della respublica, la passione derivante dall’esperienza diretta della vita politica (Tacito fu console), il culto dell’eroismo. La prospettiva etica caratterizza del resto tutta la storiografia antica ed è responsabile di quelli che allo sguardo dagli storici moderni sono apparsi dei gravi limiti (eccesso di soggettività, di moralismo, quindi scarsa attendibilità).
Circa un secolo separa però l’opera dei due storici, anni di radicali rivolgimenti politici. Se nel De Catilinae coniuratione di Sallustio (42-41 a. C.) si avverte la passione dello storico che non ha perso la speranza di recuperare lo Stato, dietro le opere di Tacito c’è il principato dinastico dei giulio-claudi, l’assolutismo imperiale dei Flavi, quindi l’esperienza dell’oppressione politica, la mortificazione della libertà e della dignità dell’individuo.
E se lo storico è ancora convinto sostenitore della potenza romana e riconosce il principato come una necessità, come unica soluzione al disgregamento totale dell’impero dopo le guerre civili, non di meno ne constata amaramente l’inconciliabilità con la libertas. Egli accetta il principato, o meglio lo subisce rassegnato senza cedere ad ingenue ed anacronistiche aspirazioni alla ricostituzione di una res publica di optimates. Il passato è irreversibile, il presente è l’unica realtà da accettare perché senza alternative né prospettive future. In questo Tacito è più realista ed acuto di Sallustio.
Non c’è in lui l’energia di Sallustio né la fede di Livio nel progetto provvidenziale della storia romana, nell’indistruttibilità di Roma (intuisce la potenziale minaccia delle popolazioni barbare).
Negli Annales il male trionfa definitivamente sul bene, le ombre sulle luci, lo scetticismo sulla speranza. L’entusiasmo iniziale per l’impero di Traiano, per la rara felicitas che sembrava garantire, cui Tacito aveva programmato di dedicare la sua ultima fatica (dopo aver severamente presentato i precedenti principi nelle Historiae), a poco a poco si smorza. Di qui il pessimismo funereo e sconsolato circolante negli Annales che, da omaggio nei confronti del principato traianeo, diventano un’impietosa analisi a ritroso dell’istituto stesso del principato, a cominciare dal suo fondatore, Augusto, il primo responsabile di quella che ai suoi occhi è una grossa montatura.
La sfiducia e la delusione del presente portano Tacito a rifugiarsi nel passato e a trasformare quella storia in una sorta di palcoscenico (in questo si avverte l’influenza di Seneca tragico) dove vanno in scena le simulazioni, le adulazioni, gli intrighi, le corrotte passioni, i contrasti di personalità ambigue guastate dalla cupido dominandi. Alla concentrazione stilistica (e concettuale) ripresa da Sallustio, filtrata attraverso l’inconcinnitas senecana, egli unisce la tendenza alla storia drammatica e patetica che rispecchia il gusto del suo tempo.
Più che nelle sue opere precedenti (dove la materia è più calda, recente) negli Annales Tacito rinuncia alla ricerca delle cause generali, ai grandi affreschi e si sofferma all’interno dei suoi personaggi, ne indaga le motivazioni interiori, quasi a voler ricercare nell’animo stesso dei protagonisti delle vicende una spiegazione, destinata però a restare contingente e sfuggente.
Alle battaglie militari preferisce quelle psicologiche, proprio come quella tra Agrippina e Nerone, una guerra tra due ambizioni troppo simili per non distruggersi a vicenda. Per questo Tacito non è diretto e netto come Sallustio nei ritratti dei suoi personaggi, è più sottile e sfumato, quindi più obiettivo, e negli Annales in particolare è più umano e meno moralista, ma non meno critico. In ogni caso il suo moralismo non è mai astratto, generico perché nasce da un’analisi concreta della vita politica.
In Tacito convivono dunque la serietà e la scrupolosità nella documentazione e il fine artistico, che nella storiografia romana tende a prevalere su quello storiografico: arte e storia sono complementari. Forse è proprio la rassegnazione, la perdita delle speranze, oltre alla visione “antropocentrica” della storia, a far emergere, soprattutto negli Annales, l’artista, il poeta.
La grandezza di Tacito risalta ancora di più dal suo isolamento: scegliendo il genere annalistico, anziché quello monografico, egli si pone come l’ultimo continuatore della gloriosa tradizione storica romana. Dopo di lui, la storiografia imperiale scadrà nell’indagine biografica, cedendo al gusto dell’aneddoto, del pettegolezzo (ne è un esempio già il De viris illustribus di Svetonio, pressoché contemporaneo agli Annales).

 

Raffaella Di Meglio (classe 1971) si è laureata in Lettere moderne e insegna materie letterarie in un liceo. Ama camminare e fare trekking, ama il contatto con la natura, viaggiare, leggere.

 

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