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Bartleby, il clown triste

di Tiziano Gorini

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Quando, iniziando le lezioni universitarie, entrai per la prima volta nell’atrio della facoltà di Lettere di Pisa, essa recava ancora le evidenti tracce delle trascorse contestazioni; tra queste un grande NO rosso dipinto proprio sulla sbiadita parete di fronte al portone d’ingresso. A me, che per temperamento sono un bastian contrario, che preferisco dissentire piuttosto che acconsentire e negare piuttosto che approvare,  sempre incline allo scetticismo, alla riluttanza, perfino al risentimento, parve una sorta di accogliente benvenuto. E proprio studiando in quelle aule a cui  quel NO introduceva mi imbattei nel racconto di Melville Bartleby lo scrivano, storia di un uomo che continua ostinatamente a ripetere: “Preferirei di no”. Lo lessi confidando di trovarvi un modello o una conferma, un prototipo del mio atteggiamento verso il mondo e gli esseri umani, un eroe dissidente in cui immedesimarmi; ma non fu così: trovai invece un enigma.


Un avvocato newyorchese il cui lavoro è aumentato assume un nuovo scrivano. Ben presto il nuovo impiegato si rivela una persona singolare, indisponente ed inquietante: non ha un nome, non ha un passato, non mangia che qualche biscotto, non esce mai dall’ufficio, non ha relazioni sociali e affettive, non si cura di ciò che gli sta intorno, trascorre il tempo concentrato  su chissà cosa o fissando il muro fuori dalla finestra. La sua pare un’esistenza sospesa nel vuoto. Commenta l’avvocato che “sembrava solo, assolutamente solo nell’universo”. Sembrerebbe in un  primo momento la rappresentazione squallidamente sublime dell’ideale impiegato moderno, il travet indefessamente impegnato nel proprio lavoro, quindi immemore della vita che dalla routine del lavoro appunto potrebbe distrarlo; sennonché quando gli viene richiesto un’ulteriore attività, la semplice collazione di alcuni documenti, imprevedibilmente si rifiuta, cortesemente e candidamente rispondendo: “Preferirei di no.” Inizia così una sconcertante sequenza  di rifiuti e di comportamenti bizzarri non giustificati da una qualsiasi motivazione, sempre accompagnati da quella sorta di formula inesplicabile, che fatalmente, nonostante le buone intenzioni dello stupito avvocato, condurranno Bartleby al licenziamento, all’arresto per vagabondaggio. all’incarcerazione, alla morte per inedia. Infatti, benché il suo ex datore di lavoro cerchi pietosamente di sostenerlo anche nella sua prigionia, egli si rifiuta di mangiare e muore di fame, infine accasciandosi nel cortile del carcere, in posizione quasi fetale, con gli occhi aperti.


Cosa rappresenta Bartleby? Qual è il senso della sua miserevole vicenda? Pare un rebus  inestricabile; infatti ha partorito innumerevoli  tentativi di risolverlo, a cui da  sempre resiste.

Gianni Celati nel 1991, in occasione della propria traduzione dell’opera, ne fece una puntigliosa ricognizione contandone 88 (ma erano sicuramente di più, ad esempio non citava quello di Giorgio Agamben); da allora altri se ne sono aggiunti, l’ultimo credo sia quello proposto in Pensare altrimenti da Diego Fusaro, nel 2017, dove Bartleby è interpretato ancora una volta come un esempio paradigmatico di ribelle (l’altro esempio è Pereira) e la sua storia come un romanzo di formazione del dissentire. Nel 2002 lo scrittore Enrique Vila-Mates gli ha dedicato il suo Bartleby e compagnia: un eccentrico catalogo di scrittori tutti accomunati da “una sindrome di Bartleby”, ovvero dal rifiuto della scrittura, dalla rinuncia alla letteratura; da Walser a Tolstoj, da Kafka a Gadda, essi rappresentano la più inquietante tendenza della letteratura contemporanea, quella di negare se stessa, poiché tutti – come Bartleby – ospitano dentro di sé una profonda negazione del mondo (credo che Vila-Mates abbia ragione per quanto riguarda il paradossale rifiuto letterario  della letteratura ma che il riferimento a Bartleby, al di là della suggestione,  sia del tutto fuori luogo,  essendo lui  uno scrivano, non uno scrittore:non c’è neanche bisogno di scomodare Roland Barthes e la sua distinzione tra écrivain ed écrivant per comprendere la differenza).

Sono talmente tante le interpretazioni che conviene riunirle sinotticamente, in base alla chiave che gli interpreti hanno prescelto:

  1. la chiave biografica: Bartleby sarebbe l’alter ego di Herman Melville, la sua storia riflette il  fallimento letterario dello scrittore dopo la pubblicazione di Moby Dick e il silenzio artistico che ne conseguì;
  2. la chiave ideologica: Bartleby rappresenterebbe la rivolta contro il pragmatismo utilitaristico della società statunitense intenta ad edificare una società capitalistica, quindi la sua sarebbe una forma di resistenza passiva tesa ad affermare la libertà dell’individuo, come sosteneva Thoreau nel celebre saggio Disobbedienza civile, del 1849. Tuttavia c’è anche chi sostiene che in realtà, dato il suo drammatico esito, si tratterebbe piuttosto di una ironica reductio ad absurdum di tale resistenza;
  3. la chiave sociale: Bartleby sarebbe il tipo del lavoratore alienato, imprigionato nel meccanismo impersonale ed ingiusto dell’attività  monotona e ripetitiva che si sta diffondendo nel mondo del lavoro contemporanea, un precursore dello Charlot di Tempi moderni;
  4. la chiave religiosa: in qualche modo la vicenda di Bartleby implica elementi religiosi, più o meno vaghi, cristiani ma anche induisti e buddisti, nonché riferimenti biblici ed evangelici, tanto che si sono azzardate analogie con la figura di Cristo;
  5. la chiave psicologica, ma anche psichiatrica o psicoanalitica:  Bartleby manifesterebbe i sintomi della schizofrenia o della depressione, soffrirebbe di autismo o della sindrome di Asperger, oppure di un irrisolto complesso edipico.

Alcune interpretazioni sono banali, perfino ridicole (come quella che vede Melville, per il tramite di Bartleby, ingaggiare una lotta contro il demonio, a cui il suo “no” sarebbe rivolto), altre più acute o puntuali; tutte colgono più o meno, meglio o peggio, i vari aspetti del racconto e del personaggio, talvolta concentrandosi sul simbolismo che ne promana o sulle sue implicazioni sociali, talaltra sulla misteriosa frase che ossessivamente è ripetuta e sulla logica che la potrebbe determinare; ma nessuna – io credo – può aspirare ad essere risolutiva. Data l’indeterminatezza dell’opera letteraria questo è ovviamente il destino di ogni esegesi testuale, tuttavia Bartleby lo scrivano sembra che manifesti una resistenza particolare all’analisi, che sia una sorta di “buco nero” ermeneutico.

Un “buco nero” con cui io sentivo di dovermi prima o poi cimentare, poiché  le pagine di questo libro le sfoglio da una vita. E siccome gli esegeti sono appunto molti uno in più al massimo corre il risibile rischio di scomparire nella loro folla.

Il racconto inizia con movenze dickensiane: sullo sfondo appena accennato di Wall Street, che si appresta a diventare il centro finanziario del pianeta, si presenta il piccolo mondo – che già può esser giudicato anacronistico – dello studio dell’avvocato, un po’ asfittico e limitato, popolato appunto dal bonario legale, dai suoi due copisti, bizzari impiegati dai soprannomi animaleschi, Turkey e Nippers, e Ginger Nut, uno svagato fattorino dodicenne il cui compito principale sembra quello di andare a comprare biscotti alla zenzero per i due copisti. Un piccolo mondo operoso e noioso, tutto rinchiuso nelle pratiche dell’ufficio, la cui attività sembra quasi temporalmente scandita dalle intemperanze mattutine di Nippers e quelle pomeridiane di Turkey, che comunque l’avvocato benevolmente sopporta. Finché, come una nube che oscura il cielo spargendo un’inquietante penombra, non compare sul proscenio Bartleby, facendo dissolvere la monotona quiete dello studio, contagiando tutti con la sua misteriosa inerzia e con la sua stereotipata formula che non si riesce a comprendere: “preferirei di no”. E davvero è un contagio, poiché quella frase s’insinua nel modo di parlare dell’avvocato e degli altri membri dello studio:

In qualche modo, negli ultimi tempi m’accadeva d’usare involontariamente questa espressione, “preferirei”, in ogni genere di circostanza non esattamente adatta al caso. E tremai al pensiero che il contatto con lo scrivano avesse già seriamente intaccato il mio stato mentale. Quali ulteriori e più profonde abiezioni non avrebbe egli potuto produrre?

Ciò che soprattutto sconvolge l’avvocato, che invano cerca spiegazioni e perfino giustificazioni allo strano comportamento di Bartleby, è l’indiscernibilità che si manifesta nelle sue risposte; nel tentativo di interpretarle sprofonda perfino in elucubrazioni filosofiche sull’intenzionalità, su quelli che lui chiama “assunti”, giungendo alla conclusione che Bartleby

era uomo di preferenze, più che di assunti

L’assunto è una premessa, un giudizio che implica appunto un’intenzione che dovrà realizzarsi, attraverso un processo razionale; ma Bartleby, almeno apparentemente, non ha un comportamento razionale, così come non pare avere intenzioni. Infatti quando l’avvocato lo invita a comportarsi ragionevolmente l’esito è sempre lo stesso:

“Bartleby, non importa se non volete rivelarmi la vostra storia; ma lasciate che vi preghi, quale amico, d’adeguarvi nei limiti del possibile agli usi di questo ufficio. Ora, ditemi che darete una mano ad esaminare i documenti, domani o in seguito; insomma, ditemi che, nel giro di qualche giorno, comincerete ad essere un poco ragionevole... ditemelo, Bartleby.”
“Al momento preferirei non essere un poco ragionevole”, fu la sua mite quanto esangue risposta.

E’ ovvio che questo copista refrattario finirà per divenire un incubo: non lavora, non interlocuisce con gli altri, segretamente comincia a vivere nello studio e una volta scoperto si rifiuta di abbandonarlo, viene licenziato ma non se ne va, costringendo l’esasperato avvocato a trasferirsi in un altro edificio; infine il nuovo inquilino dello studio, dato che questo strano tizio non vuole andarsene, lo farà arrestare per vagabondaggio. E,  finalmente, morirà.

Perché? Ciò che è sconcertante nel personaggio di Bartleby è l’assoluta mancanza di volontà, l’inerzia che incessantemente manifesta, la pertinace vocazione alla distruzione di sé.
Per questo è riduttivo pensarlo come un ribelle: la ribellione è una straordinaria volizione, un motivato agire contro qualcosa che si ritiene ingiusto, ma Bartleby non ha intenzioni, o comunque non ha intenzioni manifeste; piuttosto lo si potrebbe definire  una specie di anacoreta (il religioso che abbandona la società per condurre nel deserto una vita solitaria dedicata alla preghiera e alla contemplazione): anachōrèin significa “ritirarsi” ed è propriamente questo il  comportamento di Bartleby: non nega, non rifiuta, ma si ritira,  si sottrae al mondo degli uomini per abitare il suo deserto. In fondo l’enigma che Melville ci ha lasciato è proprio questo: qual è il deserto di Bartleby?

E l’indizio principale che ci ha lasciato per tentare di risolverlo è appunto quella frase: I would prefer not to, in cui il predicato è un condizionale, che è il modo della penombra, delle  sfumature, dell’indeterminatezza: una sorta di stigma che irrita ed inquieta per la sua reticenza.

La frase è inusuale, come notano tutti quelli che l’ascoltano, come Turkey:

“Oh, preferirei? Ah, sì...strano modo di dire. Io non l’uso mai.”

Infatti comunemente in lingua inglese si usa piuttosto la frase: “I would rather not”. Inoltre è una frase agrammaticale, la cui agrammaticalità ha appunto generato ipotesi ermeneutiche, quali la possibilità che si tratti di un enunciato fàtico, dunque una attestazione di presenza e consistenza da parte di un Bartleby per altri versi evanescente, o dell’espressione di un poetico linguaggio clandestino soggiacente a quello usuale, come suppone Deleuze. Perciò la sua interpretazione ha provocato complesse analisi linguistiche ed estetiche.

Invece io ne espongo una molto modesta, perfino banale e - per il cultori di Melville - probabilmente anche deplorevole. Nella tripartizione dei personaggi melvilliani elaborata da Deleuze: i profeti e testimoni (come Ismaele in Moby Dick), i monomaniacali (le cui “preferenze” sono demoniache, determinate dalla volontà del Nulla, come Claggart in Billy Budd e, soprattutto, l’incattivito avversario della balena bianca Achab) e gli ipocondriaci (come Billy Budd), Bartleby appartiene a quest’ultima tipologia: dei deboli ingenui e innocenti, talmente ingenui e innocenti da apparire dementi, espressione di una sublime inettitudine, indecifrabile e pur nobile incarnazione della schopenhaueriana noluntas. La mia ipotesi invece la rende implicitamente ignobile, perché  suppongo che la formula di Bartleby sia una sorta di tormentone, ed è evidente che questa mio supposizione reca con sé il giudizio che Bartleby sia un personaggio comico.

Sono consapevole di correre il rischio di confondere la profondità con la superficialità e di far forse slittare l’analisi verso una dimensione impropria al racconto, tuttavia il tormentone è appunto una tecnica teatrale che consiste nella continua ripetizione all’interno di un dialogo di una locuzione, allo scopo di provocare effetti comici; come il “minerale naturale” di Achille Campanile, il “bravo sette più” di Cochi e Renato e il celebre “Vieni avanti, cretino!” dei Fratelli De Rege. D’altronde se ci facciamo guidare dalla classificazione dei tratti comici che Bergson individuò nel suo Il riso, di quei tratti in Bartleby ne ritroviamo più d’uno: la rigidità dei movimenti, i comportamenti stereotipati, la distrazione, l’insocievolezza, gli atti privi di scopo e premeditazione e infine, appunto, la tendenza alla ripetizione delle parole e delle frasi. Dunque, pur non negando che dietro quella formula: “Preferirei di no” si possano celare ineffabili significati, io ritengo che prima di tutto sia l’espressione della comicità di Bartleby, ovvero della rappresentazione di quella particolare inadeguatezza nei confronti della realtà e della vita che caratterizza il tipo comico facendone una vittima esposta alla punizione sociale che si esprime appunto nel riso.

Ma allora, se Bartleby è un personaggio comico, perché non fa ridere e invece fa pena?
Se si legge il romanzo di Pirandello Il fu Mattia Pascal ci imbattiamo in un altro possibile tormentone, poiché il protagonista presentandosi al lettore dice che ogni qualvolta qualcuno dei suoi amici o conoscenti inopinatamente gli si rivolgeva  per avere un consiglio lui sempre rispondeva: - Io mi chiamo Mattia Pascal. E’ solo una coincidenza, non voglio alludere ad una qualche somiglianza tra i due personaggi o le due storie; piuttosto l’esempio mi serve per ricordare la definizione pirandelliana dell’umorismo: la fusione del comico e del tragico.
E Bartleby è veramente comico e tragico. Lo si comprende subito sin dalla sua comparsa sulla scena del racconto, quando l’avvocato rievoca il momento in cui egli si presentò per la prima volta nel suo ufficio, così descrivendone la figura:

scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta! Era Bartleby.

Dunque una figura mesta, accompagnata da un’aura di tristezza che appunto smorza il riso che altrimenti susciterebbe. Perciò a me pare che Bartleby appartenga alla famiglia del grottesco sonderling e del Pierrot, figure romantiche che si sviluppano nella forma del clown triste, eroe tragicomico dello scacco perenne ed essere marginale che sembra appartenere ad un altro mondo: un deserto, come ho scritto prima, un limbo da cui esce per poi precipitarvi nuovamente. E mi pare anche che somigli al vecchio saltimbanco narrato da Baudelaire in Lo spleen di Parigi:

In fondo in fondo alla fila dei baracconi, come se per vergogna avesse voluto esiliarsi da tutti quegli splendori, vidi un povero saltimbanco, curvo, caduco, decrepito, un rudere d’uomo, appoggiato a un palo della sua baracca: una baracca più misera di quella del più abbrutito selvaggio; e due mozziconi di candela, sgocciolanti e fumosi, ne illuminavano anche troppo lo squallore.
Per ogni dove la gioia, il guadagno, l’orgia; per ogni dove la certezza del pane di domani; per ogni dove lo scoppio frenetico della vitalità, Qui l’assoluta miseria, agghindata, per colmo d’orrore, di comici cenci: contrasto introdotto, assai più che dall’arte, dalla necessità. Non rideva, l’infelice! Non piangeva, non ballava, non gesticolava, non strillava; non cantava nessuna canzone, né lieta né lamentosa; non implorava. Era muto e immoto. Aveva rinunciato, aveva abdicato. Il suo destino era compiuto.

E’ lo stesso comportamento di Bartleby alla fine, quando si lascerà morire: anch’egli ha abdicato, ha lasciato che il suo destino si compisse disertando la vita. Perché? Perché così quel varco che conduce nel suo mondo, in quell’abisso da cui noi vogliamo distogliere lo sguardo per non esserne guardati, possa richiudersi.

 

Tiziano Gorini (Livorno, classe 1953), ha trascorso una vita estenuandosi nel provare ad insegnare Lingua e letteratura italiana e Storia; all'insegnamento ha sempre affiancato la ricerca, spaziando dalla critica letteraria all'epistemologia, dalla storia della scienza alla pedagogia. Ha pubblicato con M. Carboni e O. Galliani Le stanze di Ophelia, il manuale di storia della letteratura Excursus e Il professore riluttante. Di se stesso pensa di essere una brutta copia dell'uomo rinascimentale, perché come gli umanisti del Rinascimento girovaga tra i molteplici campi della conoscenza e dell'arte, ma - a parer suo - con mediocri risultati. Nel tempo libero soprattutto legge e scrive, altrimenti se ne va a contemplare il mare e le nuvole.

   

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