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Tanto si è discusso sopra la bellezza e la bruttezza, quest’ ultima spesso intesa come antitesi della prima. Per secoli filosofi ed artisti hanno cercato di definire i due concetti ed i criteri su cui essi poggiano. I due termini, come spiega Umberto Eco, sono relativi ai vari periodi storici o alle varie culture, e sovente le attribuzioni di bellezza o di bruttezza sono da attribuirsi non a criteri estetici, ma a criteri politici, sociali ed etici. Bello e brutto sono termini che nella storia hanno acquisito una certa flessibilità, ed è necessario fare una distinzione tra arte dove la misura, la proporzione fanno tendere ad un’armonia di bellezza, e arte dove la partecipazione espressiva sconvolge ogni canone, deforma, non si preoccupa di armonia, di bellezza, ma di espressione, come scrive Ballo, 1966. Attraverso le varie epoche, le idee e le teorie sul bello e sul brutto non hanno mai smesso di rinnovarsi: i due concetti continuano a sorprendere, a trasformarsi, e per questo a sfuggire ad ogni definizione univoca e conclusiva.
Una ricerca etimologica sui termini bello e brutto ci consente di avvicinarci ad una migliore comprensione del loro significato originale. E’ interessante osservare come il concetto di bello sia strettamente legato all’idea di perfezione morale: la forma latina bellus è un diminutivo di bonus, e un altro termine usato per designare la bellezza è pulcher, riferito anch’esso al concetto di bontà. Il termine greco di kalòs ha all’origine il significato di bello, ma nel neogreco significa propriamente buono. Il nostro italiano brutto deriva dal la latino brutus, che rinvia alla natura spregevole e vile delle bestie. La forma greca aischron è associato all’immagine di ciò che è moralmente vergognoso, umiliante e turpe, come scrive Remo Bodei nel 1995.
La civiltà greca è la cultura che più ha segnato la nostra concezione di bellezza. Essa identifica la bellezza dell’arte nell’armonia delle proporzioni, nel rapporto di misura e di ordine, forgiando il mito del bello ideale. Questa concezione, nei secoli successivi, avrà una forte influenza sullo sviluppo del classicismo. Le prime riflessioni sul concetto del bello si riscontrano nella scuola pitagorica: il modello, in tale contesto, fa riferimento ai fenomeni della natura e alla sua ciclicità. L’idea della bellezza rassicurante nasce proprio da qui: l’uomo è sempre stato attratto dai fenomeni che esprimono ordine e simmetria, fenomeni che si manifestano attorno a lui, e a questa misura e proporzione egli attribuisce le sensazioni di sicurezza ed equilibrio (Bodei 1995). Nulla pare ai pitagorici più rassicurante dei fenomeni del mondo che obbediscono alle leggi dei numeri: esse sono basate su misure calcolabili ed armoniche, diventando così belle perché vere. Se il vero è bello, per opposizione il falso è brutto e malvagio.
La teoria per cui ordine e proporzione sono belli e utili, mentre disordine e mancanza di proporzione sono brutti e inutili, secondo Bodei, ha avuto in Europa la durata più lunga; solo nel 700, infatti, questa teoria vive la sua crisi. Si può affermare che dalla fine del XVIII si assiste ad una vera e propria “rivincita” del brutto. Viene a crearsi una rottura con la concezione rassicurante del bello, con quel concetto di bellezza necessariamente accompagnato dalla valenza morale e dal piacere.
Con l’estetica di Baumgarten l’oggetto seduttivo è più facilmente quello orrendo, o comunque, fuori dalla norma. Di questo argomento si interessa anche Ballo quando si pone i seguenti quesiti:
….Come mai l’arte invece di essere bella, è brutta, addirittura orribile in certi casi?....E’ veramente arte, o non si tratta di aberrazione, di moda, di esibizionismo?
A suo parere la valutazione del brutto non deve avvalersi di pregiudizi, ma è opportuno distinguere caso per caso.
Nella metà del 700 viene riscoperto il concetto di sublime. L’idea del sublime era già esistente nel Medioevo e si torna a parlarne alla fine del 500 quando un mini trattato del I secolo, Del Sublime di Pseudo Longino, viene stampato e diffuso in Europa, come scrive Bodei. In questo testo il sublime è considerato un’espressione di grandi e nobili passioni, che mettono in gioco una partecipazione sentimentale sia del soggetto creatore sia del soggetto fruitore dell’opera d’arte, come scrive Umberto Eco. Secondo l’autore l’essere umano è in grado di avvicinarsi al sublime attraverso l’arte: il sublime diventa in questo modo effetto dell'arte stessa.
Nel 700 il concetto di sublime non è più associato all’arte, bensì alla natura. Il 700 è un’epoca di grandi scoperte, di imprese coraggiose e alla ricerca di emozioni. L’uomo è in grado di raggiungere luoghi fino ad allora inesplorati, dalle profondità degli oceani alle quote più alte: l’esotico diventa interessante e curioso. Bodei (2008) parla del sublime di quei luoghi come di una bellezza che nello stesso tempo attrae e allontana da sé, che seduce e ripugna, che esalta e incute rispetto con la sua tremenda maestà. La posizione dell’uomo di fronte alla natura diventa duplice: se da un lato egli può vantare la propria superiorità intellettuale, dall’altra non può negare la propria fragilità e piccolezza. Il sublime è dunque riconoscibile nel sentimento di panico che viene prodotto dalla consapevolezza dell’infinita distanza tra l’uomo e l’universo tutto. Edmond Burke definisce il sublime un sentimento misto di piacere e di dolore, un dilettoso orrore, “una specie di tranquillità adombrata dall’orrore”. Se il bello è seducente, il sublime è travolgente, il sublime mette l’uomo di fronte, in solitudine,al peniero tormentoso dell’irrecuperabilità della vita che scorre via e della propria ineluttabile morte, come sottolinea Bodei nel suo saggio a pag. 42.
Burke sostiene che tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è, in un certo senso, terribile è una fonte del sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire. Queste affermazioni andranno a forgiare le idee moderne del bello: assistiamo ad un’inversione di gusto per cui il brutto diventa bello, ed il bello diventa brutto.
Repellente, orrendo, schifoso, sgradevole, abominevole, disgustoso, mostruoso: questi e tanti altri aggettivi vengono utilizzati per parlare e rappresentare la bruttezza. Dopo secoli di estetiche della bellezza, finalmente anche la bruttezza ha una sua storia, finalmente costituisce un campo di interesse ben definito. Si dice che le ombre contribuiscono a far risplendere meglio le luci; si tende quindi a considerare il brutto come semplice concetto la cui presenza è giustificata unicamente dalla sua funzione antitetica rispetto al bello, quasi che la definizione dell’uno implichi necessariamente quella dell’altro, in un rapporto di dipendenza in cui il soggetto principe è sempre e comunque la bellezza. Da Platone in poi, infatti, i pensatori di ogni secolo hanno scritto sul bello, mentre l’unica estetica sul brutto è quella di Karl Rosenkranz del 1853 edita in Italia a cura di Remo Bodei. E’ opportuno sottolineare, come ci fa notare Eco, che le manifestazioni della bruttezza attraverso i secoli hanno risvolti più ricchi ed imprevedibili di quanto si possa pensare. Il vero flirt dell’arte con il brutto esplode in epoca romantica, ed è proprio Hugo ad introdurre l’idea che l’arte cominci con il brutto, e a creare l’informe Quasimodo. Ed è quasi nella stessa epoca che si impone la bruttezza del mondo industriale di Dikens, la figura del malato ed il culto della morte (con la Traviata di Verdi ed appunto Fosca di Tachetti), la poetica della decadenza di Baudelaire.
Per comprendere l’effettiva percezione del brutto nelle varie epoche è necessario quindi avere come riferimento le sue rappresentazioni artistiche; ma, mentre è abbastanza semplice effettuare una storia della bellezza seguendo precisi criteri storici e temporali, per poter effettuare un’analisi organica e verosimile del brutto talvolta è inutile procedere per epoche, sembra più proficuo procedere per temi. E, anche se Eco ci avvisa che il brutto è relativo ai tempi e alle culture, è anche vero che una cosa orribile resta orribile: ciò che cambia è la nostra disponibilità percettiva, il sentimento del disgusto e dell’orrore.
Per capire la bruttezza, come la bellezza, bisogna soffermarsi sui vari momenti storici, sul susseguirsi dei canoni estetici. E’ comunque sbagliato pensare che per capire i gusti di un’epoca vadano analizzati soltanto i filosofi e letterati, anzi, è necessario capire soprattutto cosa fosse la bruttezza in senso amplio, comune. Il discorso di Eco spazia quindi dall’arte classica, con riferimenti alle Arpie, ai Ciclopi e al Minotauro, passando per la satira di Orazio e Marziale e proseguendo con i versi di Cecco Angiolieri e le novelle di Boccaccio e ancora rflettendo sul rapporto tra estetica e rappresentazione del dolore, partendo dal concetto hegeliano secondo cui "il brutto entra nell’arte solo col cristianesimo", per arrivare attraverso Bosch e Lombroso (vanno evidenziati proprio gli studi di Lombroso sulla fisiognomica, riconducibili in qualche modo al concetto di kalogatia greca), al moderno trionfo del brutto, in cui la bellezza non è più categoria usata nel giudizio estetico, ma è sostituita con quella di sperimentazione formale; l’opposizione sparisce, e brutto e bello diventano due opzioni possibili da vivere in modo assolutamente neutro. Nonostante il ribrezzo che evocano le ossa scoperte di modelle e non anoressiche, rimaniamo a guardare, attoniti e nello stesso tempo affascinati. E’ la seduzione del brutto, il suo implicito ma palpabile legame col bello. Ed è questo che vuol dirci Eco nella sua “Storia della bruttezza”, è questo che si percepisce osservando e leggendo; un paradosso così intuibile che persino il primo editore straniero dell’opera di Eco non ha potuto che esclamare: “Com’è bella la bruttezza!”
In questo romanzo l’autore come il lettore va a ricercare l’amore di Fosca, un amore totalizzante, dilagante, mortifero ed estraneo ai chiaroscuro; tale ricerca è un atto rivoluzionario: l’abnegazione a un uomo come unico mezzo d’amore percepito, simile a quello che muoveva la Sagan quando sosteneva di avere amato alla follia, simile a quello della Fedra di Seneca che definiva il suo amore per Ippolito, suo figliastro, follia per lei, nella tragedia, unico modo di amare.
Fosca di Tarchetti incarna appieno il fascino della creatura appassionata, volubile e incostante e fatale, più demonio che angelo, come nella più consolidata tradizione letteraria della seconda metà dell’Ottocento in cui le figure femminili portavano con sé un velo, una evocazione di angelicità. Inoltre riscontriamo le donne dannunziane belle, raffinate ammaliatrici, capaci di imporre i loro desideri.
Tarchetti, importante esponente della Scapigliatura milanese, nel suo breve romanzo rappresnta una figura letteraria molto intensa, la rappresentante idealmente perfetta della dedizione totale all’oggetto d’amore. Tarchetti non creò l’immagine di Fosca dal nulla, ma s’ispirò ad una sua storia personale con una non ben definita donna Carolina o Angiolina, parente di un suo superiore, quando a Parma nel 1865, prestava servizio nel commissariato militare. Questa donna, come sarà poi Fosca, era epilettica e malata, prossima alla morte: con lei condivideva anche le sembianze: occhi grandi nerissimi e capelli color ebano. Prima dell’incontro con Carolina, l’autore aveva trattenuto una relazione di mesi, forse sette, con una donna sposata a Milano, che gli fornirà poi l’ispirazione per il personaggio di Clara.
Il romanzo gravita interamente attorno all’amore folle di Fosca, persino dopo la morte della stessa, infatti questo legame per Giorgio non si spezza, in quanto contagiato dalla sua stessa malattia. Giorgio, giovane ufficiale, all’incipit del romanzo ama ed è riamato da Clara, sposata, da cui è costretto a separarsi a causa del proprio trasferimento. Fosca è malata, ma oltre la mortifera malattia, ciò che offende Fosca come donna è la sua indicibile bruttezza, lievemente mitigata dalla folta chioma “corvina” e dagli occhi neri:
“….conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del connello e mi trovai solo con lei. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna1 Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare un’idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, che anzi erano in parte regolari, quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovane “
Fosca è il simbolo della malattia e della morte, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali; così epilettica ed isterica incarna l’alter ego femminile di Tarchetti, poi morto per tisi e impossibilitato a terminare il suo manoscritto impugnato dall’amico Salvatore Farina. Il contrasto netto tra Fosca e Clara non attiene solo all’aspetto fisico, ma anche alle realtà che le circonda: Clara (nomen omen), ha un aspetto florido e sano e l’amore con Giorgio ha tutte le peculiarità di un rapporto romantico idillico, tendente alla perfezione. Clara rappresenta la luce (clarus= luminoso) e la vita, è forza e dolcezza che risana. Fosca, suo malgrado, rappresenta il contrario: il morbo oscuro ed indefinito, l’inquietante mistero ancor prima della sua apparizione, i prodromi di una follia che si manifesta nelle grida orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate che echeggiano nella sala da pranzo e a cui Giorgio associa, per la prima volta, l’idea della morte. Fosca è indubbiamente brutta, poiché la vissuta afflizione (un matrmonio sbagliato, un aborto e la perdita dell’agiatezza) le si riverbera sul viso (imago animi vultus), così magra e provata dalla malattia, con gli zigomi sporgenti al punto da rimandare all’idea di un teschio, con le ossa a vista; tuttavia la sua persona ha una grazia e un’eleganza sorprendenti:
“ un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era nei suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati occhi d’una beltà sorprendente”
Una figura femminile consapevole di risultare repulsiva, tuttavia dal suo volto strano ed imperfetto promana un fascino che finirà per seducere Giorgio, il suo simulacro d’amore vivo e vitale finché non verrà contagiato dalla sua stessa malattia e provato, indebolito dall’abbandono di Clara; un corto circuito emotivo, questo, che finirà per aprirgli, seppur tardivamente, gli occhi sulla meritevole abnegazione di Fosca, e che lo porterà a concederle il tanto agognato atto d’amore. E’ di questa morbosa passione che Giorgio scriverà nel romanzo:
“più che l’analisi di un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”
Anche in questo sta la modernità e attualità di Tarchetti: la sua donna brutta rinfaccia a noi lettori e alla società, l’ingiustizia di una società appunto che impone alle donne il ruolo di seduttrici, l’essere “oggetti d’amore”, perché il copione si ripete:
“Tu non sai cosa voglia dire per una donna non esser bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di esseri avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture”.
Fosca appartiene, coesiste in Giorgio, molto più di quanto lui non creda: le due donne della sua storia, Fosca e Clara (il buio e la luce), rappresentano la dicotomizzazione della sua personalità o metaforicamente, l’etico dilemma del buono e del diavolo.
Esiste, a mio avviso, un leitmotiv che ricorre nel romanzo e che attiene all’universo femminle e mi riferisco, nello specifico, alla chioma, ai capelli, in particolare a quelli di Fosca: innanzitutto la “s-capigliatura” la corrente cui apparteneva Tarchetti, altro non significa che “disvelamento della chioma”e questa sorta di “tricomania sottile” è già ben evidente nella presentazione che lo scrittore fa della malata, come nel passo riportato. Fosca possiede ciocche di capelli che, rigogliosamente folti e lunghi, diventano un ricorrente segno di pericolo del “disordine” che lei scatena. La chioma, forse sintomo più tenue degli altri quali la bruttezza e l’isteria, resta qualcosa di intrattabile in sé e perché è una manifestazione fisica del disordine psichico di cui entrambi, Fosca e Giorgio, soffrono. Poco dopo il loro incontro, Giorgio mette infatti molta enfasi nel descrivere la testa e i capelli di Fosca:
“ Ella stessa non mi parve in quel momento sì brutta,come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza……i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti sulle spalle e ne incorniciavano il viso,la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme”
Cosa c’è nei capelli di Fosca che cattura Giorgio in questo modo? Il leitmotiv dei capelli non è certo peculiare della Scapigliatura, porta con sé una ricca storia letteraria ed è un modo per mettere a fuoco una visione generale della letteratura del diciannovesimo secolo e non solo, poiché i capelli coprono la testa, ma sembrano crescere da questa e in una zona esterna della massa cerebrale, essi finivano per essere una parola chiave presente in molte culture e letterature. Nel diciannovesimo secolo il corpo, soprattutto i capelli, gli occhi e i piedi, sono diventati un simbolo importante della onirologia freudiana. Le parti del corpo divennero, come Freud provò, simboli molto leggibili e dicibili, una voce somatica per la psiche. Il topos della chioma è ravvisabile in un’altra opera di Tarchetti, “Le leggende del Castello Nero”. Il protagonista sogna una donna che correva sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e con l’abito bianco come la neve. In Fosca, il finale e più decisivo evento del leitmotiv dei capelli costituisce un preludio alla scena catartica in cui Fosca tenta di tagliarseli:
“ Mossi un passo verso Fosca . Ella rivolse il capo con un moto risoluto in tal modo, che i capelli appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo.Mi guardò con le pupille scintillanti di passione…i capelli nerissimi e abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d’ebano…..Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente con la sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, aruffò bizzaramente i capelli…….”
E ancora:
“ Si levò d’un balzo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede, trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo: “Recidili, mio bello, mio amore, recidili, sono tuoi. E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla. Hai ragione - mi disse ella - hai ragione; più tardi”.
Per molti popoli antichi i capelli erano simbolo di forza vitale, quasi emanazione della potenza del cervello. Quando Fosca implora Giorgio di tagliarle i capelli, lei gli sta anche pronosticando una fine, perché lei li taglierà prima o poi, lasciandolo meditare sulle sue parole agghiaccianti. Giorgio sa anche che quando Fosca avrà tagliato i capelli, lei morirà, perché lo spirito di ribellione sessuale è la sua unica forza vitale. Una particolare simbologia, infatti, connette i capelli al dolore e al lutto: tagliarsi i capelli, lasciarli trascurati, cospargersi di cenere o semplicemente coprirsi per un certo periodo i capelli sono atti simbolici stereotipati, di diffusione largamente attestata, con cui si manifestavano in forma visibile il dolore, l’amore non ricambiato o la disperazione.
Sebbene Fosca non partecipi direttamente al duello tra Giorgio e il colonnello, la sua assenza da tutte le altre scene restanti conferma il suo sospetto che, indipendentemente dall’esito, è lei che sarà, in effetti, la perdente e inevitabilmente sottoposta alla morte. La sua unica soluzione e ultima risorsa è, forse, il più potente di tutti i gesti per la libertà, vale a dire il non vivere affatto; un gesto incompiuto questo, poiché la malattia sceglie per lei.
Tarchetti aderisce, fa proprio il gusto sepolcrale; in Fosca i simboli e le vicende funeree si strutturano in avventure e suggestioni psicologiche complesse. Anche Tarchetti intende il cadavere come rifiuto umano, oggetto di ipocriti giochi sentimentali; anche Tarchetti gioca provocatoriamente con quei simboli sepolcrali con cui tende a rappresentare la società presente. L’insorgere dello scheletro durante l’atto d’amore costituisce un’ossessione tematica del poeta; si tratta di una mania macraba che culmina nel ritratto di Fosca, la donna orrida non solo perché brutta, ma anche perché in lei la carne viva maschera l’immagine della morte. Esiste un nesso che lega figurazione femminile e parvenza macabra. Credo sia utile ricordare, come nel personaggio di Fosca, l’affiorare dello scheletro si faccia segno delle “malattie” patite dalla protagonista. Secondo quanto dirà il suo medico, ella “è una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali”. In realtà Fosca non è malata. L’isteria diagnostica si risolve in comportamenti sessuali devianti (almeno apparentemente) rispetto all’erotismo chiamiamolo pure borghese, comunque dominante. E soprattutto quest’ultimo segno, a mio avviso, pur se meno noir degli altri, ossessiona Tarchetti.
Fosca incalza Giorgio con una profferta d’amore tanto insistente da trasformarsi in destino inevitabile. La persecuzione operata dal suo “affetto” finisce davvero con l’essere “la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta”. Per questo assistiamo alla trasfigurazione della donna in scheletro animato, immagine di morte che rimanda la mia memoria non tanto all’iconografia sepolcrale tardo romantica, quanto alla tradizione mitica e letteraria della donna-mantide, inquietante emblema di sessualità femminile che affascina l’uomo per condurlo, terrorizzato, ad un amplesso dove l’essere amati corrisponde all’essere distrutti, in analogia con la mantide, appunto, che spesso divora il maschio dopo l’accoppiamento. Il riferimento non è esplicito nel breve romanzo di Tarchetti, eppure lo scrittore stabilisce inconsciamente l’associazione tra la donna, lo scheletro ed un animale inferiore. Giorgio conosce la sua orrida mantide grazie alla descrizione che ne fa il dottore (sicché Giorgio pone tra Fosca e i suoi timori di renitente “innamorato” una sorta di sapere scientifico) e accondiscende a frequentarla perché il medico lo convince della sua funzione terapeutica insostituibile (così sembra dalla lettura). Emblematica è la resa di Giorgio all’amore di Fosca, quando il giovane per raggiungere la camera della donna, si accorda con il medico per usufruire del passaggio segreto attraverso il suo studio. La sua presenza nella camera di Fosca si camuffa nella presenza di colui che deve intervenire per curare Fosca e in cuor suo Giorgio sa invece che il fine è l’amore, amare Fosca perché lei lo vuole ma inconsciamente anche Giorgio ne è attratto.
In Fosca fa da contraltare Clara, angelo femminile e solo in parte, perché Clara, dal canto suo, distrugge Giorgio rifiutando, ponendo fine alla loro relazione per tornare in famiglia. L’adulterio è sempre uno scandalo. Per Giorgio è meglio accettare l’orrore di una donna scheletro che è veramente innamorata, devota. Se Clara è fonte di delusione, Fosca, l’inquietante femminilità nevrotica, è il vero amore. La paura, il timore di una donna troppo attiva cede il passo alla donna iperbolicamente passiva. L’incontro è vissuto forse con una certa riluttanza da Giorgio, con saggezza da Fosca.
Passion è un “musical” scritto e musicato daStephen Sondheim con il libretto di James Lapine, messo in scena dal regista Keith Warmer ed eseguito da Rolan Boer. “Passion” deriva da “Fosca”. Inizialmente in Italia Fosca ispirò nel 1981 il regista Ettore Scola che realizzò un film di straordinaria pregnanza, dal titolo “ Passione d’Amore” che, seppur in presenza di alcune differenze con il testo originale, risulta comunque fedele allo spirito; una pellicola apprezzata a livello intellettuale che non riscosse però significativo successo tra il pubblico italiano. La versione cinematografica di Scola, a testimonianza della sua validità artistica, ispirò sul finire del secolo scorso Stephen Sondheim e James Lapine, che ne trassero un adattamento in forma di musical dal titolo Passion, che debuttò a Broadway nel 1994, con Donna Murphy nel ruolo della protagonista, ottenendo un notevole successo che consentì a Passion di entrare nel mondo del musical valicando, poi, i confini degli Stati Uniti per arrivare, nel 1996, a Londra dove la parte di Fosca fu affidata a Maria Friedman e, successivamente oggetto di due “revival”, sempre nella capitale inglese nel 2010, protagonista Elena Roger, e nel 2013 una nuova produzione a Broadway con Judy Kuhn nel ruolo della protagonista.
Con le rappresentazioni di Montepulciano poi, Passion, è giunto così anche in Italia, colmando una lacuna che sicuramente ha reso felici gli appassionati di questo particolare genere di teatro in musica. Per quanto riguarda l’azione rappresentata è movimentata dalle gesta del Capitano Giorgio Becchetti, giovane di famiglia agiata e di bella presenza che ha una relazione amorosa con Clara, donna appartenente alla buona borghesia milanese, ma in crisi matrimoniale e madre di un figlio in tenera età. Improvvisamente Giorgio viene trasferito presso una guarnigione militare in un luogo isolato della Val Padana dove entra in contatto con un ambiente piuttosto ristretto, di soli uomini, tranne la presnza di Fosca, cugina del colonnello che comanda quell’avamposto, donna ammalata nel fisico e nella mente a causa di una vita sfortunata. L’incontro tra i due è il fulcro della tragedia. Fosca è morbosamente attratta da Giorgio, considerandolo una salvezza dal grigiore nel quale è precipitata la sua vita. Nasce in lei una passione travolgente dove amore e follia coesistono. Mi permetto di fare riferimento a Fedrra innamorata di Ippolito: in lei coesistono amore e follia, la nutrice la richiama su quanto sia folle questo amore, ma Fedra perde se stessa proprio nella follia di questo amore. Questo binomio amore-follia è un fil rouge che percorre la letteratura in generale di tutti i tempi.
Giorgio è una persona gentile ed educata e cerca di avvicinarsi a Fosca nonostante la sua bruttezza, il suo aspetto esteriore ripugnante, come scrive Tarchetti. Il medico della guarnigione, Tamburi, cerca di favorire questo avvicinamento consideranolo una sorta di terapia per Fosca. In un rientro a Milano per incontrare la sua amante, Clara gli comunica di aver avuto un ripensamento circa il rapporto con il marito e dichiara conclusa la relazione. Giorgio ne soffre ed è questo inaspettato abbandono che lo avvicina a Fosca nell’intento di cercare e trovare in lei una sorta di affinità psicologica. Il loro rapporto si intensifica e provoca la reazione del cugino Colonnello che lo sfida a duello; rimane ferito e Giorgio ne esce vincitore. Fosca però morirà dopo pochi giorni lasciando Giorgio nella disperazione ed in lui avviene una sorta di reincarnazione degli stati d’animo di Fosca che lo condurranno ad una vita randagia e dissennata.
Passion mette in evidenza un doppio filo che lega i tre elementi fondamentali del tessuto narrativo: Amore, Passione e Follia. A tal proposito citerò le parole usate da Roland Boer direttore artistico e musicale:
“ Quando siamo innamorati di una persona….., una corrente impetuosa di emozioni dolcissime e fortissime, reciproche e contrastanti, ci trascina inevitabilmente nell’universo di amore, pssione e follia”
Della rappresentazione la protagonista, l’inglese Janie Dee, artista dalla straordinaria esperienza, sia nel musical che nel teatro di prosa, ha restituito una Fosca intensa e credibile.
Agli occhi di Giorgio, Fosca non appare come una persona in carne ed ossa, ma una realtà mortifera, brutta non tanto per difetti fisici quanto per la rovina che il dolore e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora giovane. Fosca potremmo osare scrivere è una “bellezza” affetta dal difetto della malattia, un evento d’eccezione che esce dalla norma e con la norma non è commisurabile. Tra le due donne del romanzo, Clara e Fosca, esiste un passaggio, dall’Eros si passa a Thanatos, segretamente desiderato dal desiderio inconscio. La persecuzione del corpo malato di Fosca diventa la giusta punizione per espiare le gioie proibite e provate da Giorgio per Clara. Se Fosca è la negazione dell’amore tra Clara e Giorgio, l’amore per Fosca è, a sua volta, un anti-amore, ovvero un amore negato dall’aspetto abnorme della donna, ma anche e soprattutto negato dalla sua morte che la farà uscire definitivamente di scena, al termine del romanzo.
Col tempo, la vicinanza alla donna orribile, incoraggiata come abbiamo scritto dal medico, si fa sempre più stretta e asfissiante; lentamente, la resa diventa un fatto compiuto. Il febbrile trasporto della donna, l’impeto dei suoi abbracci sembrano non lasciare scampo al giovane ufficiale. Tra moti di ribellione e tentativi di fuga, il legame tra i due sembra rafforzarsi, mentre la posizione di Clara si fa sempre più oscura ed incerta. Giorgio finirà ben presto col sentirsi prigioniero di un amore dominato dalla perversione del suo carceriere: è Fosca che, assetata di vita e di amore, assorbe nutrimento dal povero ufficiale, il quale, a sua volta, l’aveva prelevato a Clara. E’ un gioco di simmetrie ben articolato nel triangolo Clara-Giorgio-Fosca, in cui il protagonista maschile è contemporaneamente vittima e carnefice delle due donne, oggetto e soggetto di una passione che da una parte lo solleva, dall’altra lo precipita rovinosamente verso il baratro.
Ma di quale malattia soffre Fosca?
Fosca è una giovane donna di venticinque anni, dal passato burrascoso e tormentato; soprattutto è una donna inferma, consumata dai dolori di una malattia oscura, di cui gran parte delle manifestazioni si riscontrano nei coevi trattati scientifici che descrivono la fenomenologia isterica, anche se in tal caso i contorni clinici sono meno precisabili e definibili, pertanto la vicenda risulta pù ombrosa. Nei libri di scienza, la nevrosi è spesso connessa a disturbi di diversa natura che procurano febbri, allucinazioni, inappetenza, vertigini, nevralgie, svenimenti, oltre alle manifestazioni propriamente epilettico-isteriche. A questo vasto serbatoio attinge la scienza tanto quanto la letteratura per poter descrivere le nevrosi letterarie; ma il male di Fosca non ha cause conosciute né caratteri ben determinati, non presenta un quadro clinico dettgliato. Il medico deputato all’analisi della malattia di Fosca le prescrive dei palliativi, come la valeriana, il riposo e la sostiene nei momenti di grande fragilità, è lui che detiene la scienza del bene e del male e si fa arbitro dei comportamenti, diventando, più o meno intenzionalmente, fautore di una mortifera passione.
Benché sofferente, brutta e ripugnante, Fosca esercita su Giorgio un’enorme carica attrattiva; avviluppandosi tra le sue braccia lo trascina quasi fino all’abisso, sino a trasmettergli la sua stessa malattia.
“mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar la salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto”
L’ammorbante presenza di Fosca rivela tutta la sua fragilità nelle continue suppliche che rivolge al giovane amante, nelle ilusioni di un amore vissuto a metà perché non ricambiato, dunque menzognero, svelando un vuoto d’amore, motore dei suoi tormenti. Per Fosca l’amore doveva essere il mezzo e lo scopo di tutta la sua esistenza. Il vuoto di Fosca è l’estrinsecazione, la manifestazione di un’assenza d’amore, la stessa presente nelle anoressiche dei tempi moderni: l’anoressia, infatti, secondo Lacan, è sintomo di una mancanza d’amore, del resto l’etimologia del termine rinvia ad un’assenza, una privazione: dal greco, “anorexia”, assenza di appetito, una forma di ricatto dove il soggetto utilizza il proprio corpo come se fosse il corpo di un ostaggio per estrarre dall’altro quello che l’altro non gli ha mai concesso: il segno del suo amore. Ecco che, da tale prospettiva, la malattia di Fosca, unica e straordinaria, diviene una eccezionale malattia d’amore, che può rivelarsi mortale. Mi sembra opportuno, esemplificativo approfondire la tematica dell’anoressia, che può essere definita la manifestazione più evidente del sintomo del corpo ed è attraverso il corpo che si mostra la nevrosi di Fosca.
“Il corpo è il segno della nostra finitudine. Esso è ciò che rinvia a tutto quello che non si vorrebbe essere: fragilità, debolezze, limiti, malattie, morte”.
Michela Marzano scrive in La philosophie du corps, e cito:
“La magrezza induce alla negazione del corpo, il corpo dell’isterica parla attraverso le sue sofferenze, le sue conversioni, per non dire la sua singolarità di soggetto. I geroglifici del corpo ci mettono sulla via del meccanismo somatico che è centrale nella sintomologia isterica. Il sintomo somatico si situa nel punto limite del reale e del linguaggio. Tutta l’operazione isterica consiste nel far scivolare il suo corpo dentro un involucro. Potremmo dire che l’isteria reiventa un corpo nel corpo, fomenta sintomi che istituiscono un’audace geografia corporea…….La sfida dell’isterica è fare corpo col suo sintomo”.
L’incertezza di Giorgio nel giudicare il corpo di Fosca è dovuta alla rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona, alterandone le forme. Fosca descritta come una donna dall’aspetto orrendo, perché troppo magra, di una magrezza inconcepibile, donna di anomale abitudini alimentari …viveva di caffè. La sua magrezza aumentava sempre più. La magrezza eccessiva su cui insiste Tarchetti, rende Fosca un’ipostasi mortifera e rimanda alla magrezza cadaverica delle anoressiche. Cito Michela Marzano in “Volevo essere una farfalla”:
“La domanda anoressica, esibendo provocatoriamente le stimmate del proprio corpo, di un corpo che presenta l’mmanenza del rischio della morte, è una domanda d’amore (rivolta, come afferma anche Recalcati) all’Altro: “ Fammi vedere se ti manco, fammi vedere i segni del tuo amore, io che ti mostro i segni del mio amore disperato, fammi vedere se in te c’è un segno d’amore”.
Giorgio sente di essere tormentato dalle sfibranti richieste di Fosca, sente di non avere più né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere a questa sciagura. Sente di essere stato invaso dalla presenza della morte che c’è in lei.
La magrezza di Fosca potrebbe alludere al desiderio delle anoressiche di neutralizzare i segni vistosi della femminilità e la volontà di essere giudicate meno come corpo e più come soggetto padrone di se stesso. L’anoressia potrebbe essere definita una modalità che l’isterica utilizza per cecare di nominarsi come donna attraverso l’immagine del proprio corpo, cercando di risolvere così la questione della femminilità.
Non di meno Fosca è convinta che se fosse stata bella come Clara, Giorgio l’avrebbe amata (non ero né brutta, né spiacevole, ma non ero bella).
“Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere.., l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture. …..”
Fosca non può vivere senza Giorgio e lo tiene legato a sé attraverso una sottile ma ben orchestrata strategia intimidatoria che segue lo schema del “io non posso vivere senza di te, e tu non potrai fare a meno di me”.
Giorgio è vittima, più o meno consapevole, di una donna che strumentlizza i propi sintomi isterici per legarlo a sé, circuendolo giorno dopo giorno, caricandolo di attenzioni, opprimendolo con tutto il peso della sua tenerezza, supplicandolo di restare o di farla finita qualora lui desistesse e decidesse di abbandonarla.
E’ la manifestazione del sintomo ad incutere terrore e paralizzare Giorgio di fronte alle atroci sofferenze della vittima, che approfitta della sua compassione per manipolarlo; ad ogni sua piccola insubordinazione, Fosca reagisce con atti estremi, minacce, tentativi di suicidio.
In Fosca, Tarchetti usa la metafora della nevrosi per descrivere l’idea dell’amore malato, di una passione che consuma, che rende trasparenti, opachi. Al momento dell’abbandono, Clara rivela il suo volto malefico, la sua crudeltà, rivela di non esere diversa da Fosca. L’antinomia Clara-Fosca scompare e così che si arriva alla risoluzione del romanzo, che raggiungerà l’acme del delirio durante l’ultima notte fatale in cui Giorgio, pur combattuto da dubbi e paure, appagherà lo smisurato desiderio di Fosca, ma tra il volto di eros e quello di thanatos ancora una volta prevale il volto di Thanatos. Aiutato ancora una volta dal medico, Giorgio riesce ad introdursi nella stanza di Fosca; solo, completamente disarmato di fronte all’abnorme ed incontenibile passione della sua amante, le si concede affinché la smisurata onda del desiderio possa appagarsi in una febbricitante ultima notte d’amore.
Nella breve premessa che precede il manoscritto dell’Ultimo canto di Saffo, oggi conservato nella Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III a Napoli, Leopardi designa l’epistola di Saffo a Faone, nelle Heroides di Ovidio, letta da Leopardi e considerata come sua principale fonte d’ispirazione: “Il fondamento di questa Canzone, egli scrive, sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, epist.15 v. 31 segg. “Si mihi difficilis formam natura negavit”. Il poeta allude in particolare ai v.31-34 segg, così resi nel 1989 da Giampiero Rosati:
“Se a me la natura ostile negò la bellezza ( forma), compensa( repende) la mancanza di bellezza col mio ingegno. Sono piccola( brevis)ma ho un nome che riempie ogni terra: la mia vera altezza (mensuram) è quella del mio nome.”
Il rinvio ad Ovidio può apparire scontato, dal momento che l’eroide del poeta latino è l’unica fonte poetica antica a noi giunta che insceni l’amore di Saffo per Faone e la sua decisione di spegnere il fuoco della propria passione nelle acque di Leucade, gettandosi in mare dalla rupe che lo sovrasta. Ma può anche meravigliare, e per due diversi motivi, che mi accingo a spiegare. In primo luogo, Leopardi non è un grande ammiratore di Ovidio, e può anche sembrare strano che scelga una sua lirica come modello. In un appunto dello Zibaldone del 1821 Leopardi rimprovera al poeta latino una mancanza di naturalezza, una prolissità e un’ “affettazione” di stile che tediano presto il lettore.
Perché è debole lo stile di Ovidio, e non molto piacevole, quantunque egli sia un ostinatissimo e acutissimo cacciatore di immagini?
“Perché queste immagini risultano in lui da una copia di parole e di versi, che non destano l’immagine senza un lungo circuito, e così poco o nulla v’ha di simultaneo, giacchè anzi lo spirito è condotto a veder gli oggetti a poco a poco per le loro parti”
Queste le considerazioni leopardiane contenute nello Zibaldone pag. 2042 sullo stile lento e “tortuoso” di Ovidio.
Leopardi depreca la verbosità, o come lui scrive l’ “intemperanza” di Ovidio. Preferisce a quello ovididiano uno stile conciso e rapido, che concentrando in poche parole una molteplicità di pensieri, immagini, sensazioni, stimola la mente del lettore, la mantiene continuamente in attività, e così le impedisce di annoiarsi e saziarsi (Zibaldone, pag. 2041). Come noto, per Leopardi il piacere estetico non scaturisce né dall’esperienza della forma conclusa né da quella dell’infinito in atto, che non esiste e che comunque, se anche esistesse, non potrebbe essere percepito, ma dall’impressione di un’abbondanza, di una dovizia quasi illimitata di sensazioni.
Alla luce di questa considerazione acquista un particolare significato il fatto che nelle proprie annotazioni manoscritte all’Ultimo canto di Saffo Leopardi citi più volte come proprie fonti Virgilio, Orazio, Monti, Ariosto e Tasso in particolare, mentre solo due volte cita Ovidio e mai l’epistola 15. I versi virgiliani circoscrivono con precisione il canto funebre di Didone, e risultano affini per stile ed argomento al canto funebre di Saffo; proprio le ultime parole di Didone, e non i versi di Ovidio, potrebbero essere designate come la fonte più significativa dell’Ultimo canto di Saffo.
Sia Virgilio che Leopardi, infatti ed in modo molto simile, si concentrano sull’attimo in cui l’eroina decide e proclama, con risoluzione “virile”, la propria morte; e la brevità dei versi in cui si consuma la decisione reitera il fatto che il tempo delle recriminazioni è passato, è giunto ormai quello di agire. Cos’è invece la lunga epistola della Saffo ovidiana se non una lunga manovra dilatoria, un modo per rinviare il viaggio a Leucade e il salto, e far ricadere ogni responsabilità su un’altra persona?
L’unica decisione della Saffo ovididina è quella di rimandare ogni decisione a quando giungerà la risposta di Faone, risposta che certo prenderà delle settimane o forse dei mesi. L’ “intemperanza” stilistica di Ovidio, la ripetitività, la monotonia non sono solo un vizio stilistico, ma penetrano e connotano lo spirito del suo personaggio, Saffo.
Va inoltre sottolineato, evidenziato, il peso del motivo amoroso, in quanto illustra perfettamente la convinzione evocata da Leopardi che rapidità e concisione diano più forza allo stile che un lungo giro di frasi. In tre soli versi, l’aggettivo “lungo” reiterato nella stessa linea due volte, l’amore detto in quattro accezioni diverse (amore, fede, implacato desio e furore), la sua vanità, espressa a sua volta con due parole diverse (indarno e vano), ma un solo verbo, posto in forte rilievo, esprime il legame della passione al suo oggetto (mi strinse), sono molto più efficaci, sul piano stilistico, di tutte le lusinghe, le preghiere, le minuziose visualzzazioni, le iperbole, le similitudini e i paradossi che si succedono nei versi di Ovidio.
Nel canto leopardiano il desiderio di Saffo accanto ad un amore deluso è presente il desiderio della poetessa di riacquistare quella dimensione cosmica che era forse presente nelle versioni più arcaiche del mito, in cui il legame fra la rupe bianca, splendente come la luce del sole (leukòs), il tramonto dell’astro e il parallelo tramonto di chi si getta nel mare, suscita però la speranza di un’imminente resurrezione, analoga a quella del sole che a ogni aurora rinasce, ma era stata soppressa da Ovidio nella sua versione della leggenda. Attraverso l’infelice vicenda di Saffo Leopardi si interroga, all’antica, ma con accenti suoi propri, sull’infelicità umana, sul fato e sulla possibile giustizia divina.
A questo punto si deve concludere che la canzone leopardiana non abbia alcun rapporto con l’eroide ovidiana e che il rinvio al poeta latino sia solo una manovra di diversione? La maggior parte degli studiosi a tal proposito pensa, ed è questo che ora vorrei dimostrare, che l’Ultimo canto di Saffo sia legato all’epistola latina in un modo strettissimo, che però non è un nodo di imitazione ma di opposizione, un nodo di tipo agonistico e antagonistico. Con il Canto di Saffo Leopardi replica alla Saffo di Ovidio, ne capovolge l’immagine e le restituisce quella fama e grandezza che, come dimostrerò, le ha tolto Ovidio, pur proclamando il suo ingegno.
Dal punto di vista della rielaborazione leopardiana del mito antico, ci si trova davanti ad una situazione inedita. Nella lettura delle Operette morali sono presenti miti ed eroi antichi con intento parodico in cui il poeta si lascia influenzare da Luciano. Nell’Ultimo canto di Saffo avviene invece il contrario: a svilire Saffo (che questa fosse realmente la sua intenzione, o che così sia stata percepita la sua operazione da Leoprdi) aveva pensato Ovidio; Leopardi in realtà riabilita la grande poetessa di Lesbo, la colloca (come indica anche iconograficamente la sua posizione in cima alla rupe) su un altissimo piedistallo.
L’affermazione della Saffo ovidiana - sono piccola e brutta ma il mio nome riempie ogni terra - è insomma al centro di entrambe le composizioni, ma acquista un significato diverso a causa delle circostanze e del contesto diverso in cui è pronunciata. Per cogliere questa differenza è necessario quindi ricostruire con precisione i suoi due diversi contesti. E comincio con l’eroide di Ovidio.
Un elemento essenziale del testo di Ovidio è il suo impianto retorico, legato al suo carattere epistolare, all’intenzione con cui si deve supporre che sia stato scritto da Saffo, all’azione che vuole provocare nel destinatario (sia pure fittizio), cioè in Faone. Letta in questa propspettiva, l’epistola si divide in tre sezioni. Nella prima, la più lunga, Saffo si sforza con diversi argomenti e lusinghe di riconquistare Faone, di indurlo a tornare. Saffo prima di tutto dichiara quanto sia forte ed esclusivo il suo amore: arde di un fuoco che non è inferiore a quello dell’Etna, non è più attratta dalle cento e più fanciulle amate in passato, pensa a lui notte e giorno. Loda, in secondo luogo, la sua bellezza definita prodigiosa, di cui nessuna donna sarà mai degna, lo paragona ad Apollo, scrive che Aurora e Febe (la luna) avrebbero potuto innamorarsi di lui e rapirglielo, ma gli ricorda anche che a sedurla è stata la sua adolescenza, gli anni della sua prima barba, di cui può innamorarsi anche un uomo, e lo invita quindi a tornare subito fra le sue braccia, prima che la sua età cessi di essere propizia ai piaceri. In terzo luogo, Saffo tenta di risvegliare il suo amore e eccitare i suoi sensi ricordandogli i tempi in cui lui amava i suoi baci, e ancor più il loro congiungimento carnale (amoris opus), la lascivia e i movimenti continui del corpo di lei, le parole che pronunciava per eccitarlo (aptaque verba ioco), e poi, una volta raggiunto insieme il piacere, l’intenso languore dei loro corpi sfiniti. Con lo stesso scopo, senza pudore, pur fingendo un’improbabile reticenza (ulteriora pudet narrare), Saffo racconta le carezze e i baci che gli dà in sogno, l’orgasmo che prova, le secrezioni che stimola in lei il piacere, benché solo sognato (siccae non licet esse mihi). In quarto luogo, Saffo tenta di eccitare la sua compassione raccontandogli le proprie numerose sventure domestiche: il padre morto quando era ancora bambina, il fratello persosi dietro una cortigiana e che ora cerca di riacquistare in modo disonesto le ricchezze perdute, la figlia che le dà tanti affanni e insieme la violenza della propria passione, il dolore e gli atti inconsulti da essa causati: non porta più gioielli e altri ornamenti, ha smesso di profumarsi, corre delirando nei boschi, le sue vesti sono laceree, le chiome sconvolte, si batte il petto nudo come una madre che porti al rogo il corpo esanime del figlioletto perduto. Se Faone non la vuole come amante, l’accolga almeno come madre, e infatti essa non gli chiede di amarlo, ma solo di lasciarsi amare da lei. Come non ricordare Seneca: Fedra madre se non amante di Ippolito, non essere amata da lui, ma lasciare che lei lo ami.
Infine, come ricordato da Leopardi, Saffo si sforza di convincere Faone che se non è bella, se è piccola e scura di pelle, il suo ingegno però compensa questa mancanza, le muse le dettano infatti canti dolcissimi (blandissima carmina), la fama della sua poesia, benché di argomento meno solenne, non è inferiore a quella di Alceo, e infatti un tempo quando gli leggeva i suoi versi gli sembrava più bella, e quando cantava lui le rubava dei baci.
La seconda sezione, molto più breve, sembra cancellare bruscamente tutto ciò che Saffo ha scritto fin lì, e prefigurare la fine della sua sventurata passione, la sua guarigione. Saffo racconta che accanto ad una fontana sacra, presso cui piangeva dopo aver deposto le membra sfinite, le è apparsa una Naiade che le ha consigliato di recarsi alla rupe di Leucade, dove si trova un tempio di Apollo, e da lì precipitarsi in mare. La rupe avrebbe infatti una proprietà terapeutica: chi vi si getta è liberato dalla sua fiamma. E questa è ora l’intenzione di Saffo, dichiarata da lei con forza: si recherà a Leucade, si getterà dalla rupe, l’aria sosterrà il suo corpo leggero, Amore aprirà le sue ali a frenare la sua caduta, e di ritorno da Lesbo, non più innamorata, essa consacrerà a Febo la lira, loro dono comune, poiché entrambi, il dio e lei, sono poeti.
Saffo aveva aperto la sua lettera chiedendo a Faone se ne riconosceva l’autore. La passione ha infatti a tal punto alterato la sua personalità che non è più capace di intonare i canti, accompagnati dal suono della lira, che l’hanno resa famosa; le riescono ormai distici elegiaci, carmina alterna, versi lacrimosi in cui piange il proprio amore. Adesso però, dopo essere stata a Leucade ridiventerà quella di prima, riacquisterà la sua arte e proprio per questo, in segno di gratitudine, consacrerà la sua lira ad Apollo, dio della poesia e della musica. Faone uscirà insomma dalla sua vita.
La terza sezione dimostra che l’annuncio della decisione di recarsi a Leucade è stata solo una minaccia, escogitata per spaventare Faone, per eccitare la sua vanità, e renderlo corresponsabile del proprio destino. Perché dovrei recarmi alle coste di Azio? - gli scrive Saffo - tu puoi essere per me più salutare dell’onda di Leucade, sarai tu per me Apollo. La mia lira tornerà a suonare, e sarò di nuovo la vostra poetessa (vates) o donne di Lesbo, giovani sposate o destinate alle nozze, ma solo se convincerete Faone a tornare, perché è lui (non Apollo) che dà vigore al mio ingegno, è lui che lo toglie. Saffo, tuttavia, non si fa troppe illusioni: chiede a Venere e Cupido di renderle favorevoli i venti, di riportarle rapidamente Faone. Ma se il giovane non ha intenzione di ritornare, che almeno glielo faccia sapere con una lettera. Allora forse troverà la forza di andare a cercare il proprio destino nelle acque di Leucade ma intanto, finchè non sarà arrivata l’epistola, potrà ancora aspettare e sperare. Come intuito e ben evidenziato, la fermezza d’animo, il coraggio di rinunciare al piacere e alla vita non sono le doti principali della Saffo ovidiana. La critica ovidiana si è spesso chiesta se si debba attribuire al poeta latino un’intenzione ironica nei confronti di Saffo, mostrandone inoltre incertezze e debolezze. Secondo una diversa ipotesi critica che approvo, possiamo invece apprezzare la determinazione con cui la sua Saffo, intendo quella ovidiana, cerca di raggiungere l’oggetto del proprio desiderio e alterna, a tal fine, strategie diverse e apparentemente contraddittorie.
A sua volta anche Leopardi, attribuendo a Saffo, in questo canto, l’ingegno più alto, e una straordinaria nobiltà di sentire, spazza via alcuni pregiudizi, antichi e moderni, intorno alle donne. Tutto induce a pensare che Leopardi abbia voluto rovesciare l’immagine di Saffo proposta da Ovidio. Leopardi adotta, infatti, una strategia discorsiva completamente diversa da quella ovidiana.
Anche il canto della Saffo leopardiana nasce dal ricordo del tempo felice della sua fanciullezza, quando essa amava la natura e tendeva a lei con fiducia le palme. e confessa d’essere ancora sensibile al fascino della natura:
“alle vezzose / tue forme correvano le pupille invano / supplichevoli intendo”.
Questi versi rendono palpabile il fatto che il suo amore non si è ancora spento. In un primo tempo, l’atteggiamento della Saffo leopardiana non è dunque meno implorante e devoto di quello della Saffo ovidiana, anche se oggetto del suo desiderio è la natura, e non soltanto Faone. Subito però affiora una differenza importante: la Saffo ovidiana ricorda il tempo in cui anche Faone la desiderava e l’amava, in cui si intrecciavano i loro corpi, e in cui lui amava i suoi canti. La Saffo leopardiana si attribuisce invece un atteggiamento di ammirazione passiva, la sbigottita contemplazione di un paesaggio che però per lei è solo spettacolo, di cui è testimone, ma non agente e protagonista.
La seconda strofa in modi diversi esprime l’attitudine ostile della natura, il volto arcigno che essa oppone alle lusinghe di Saffo:
“A me non ride l’aprico… dell’eterea porta il mattutino albor”, “ me non il canto de’ colorati uccelli, e non de’ faggi il murmure saluta”.
Saffo è ospite molesta, amante dispregiata e sdegnata, e questo non solo oggi, ma da quando era fanciulla.
A questo disprezzo la Saffo leopardiana non risponde tuttavia, come quella ovidiana, implorando, pregando, tentando di riconquistare l’amante perduto. Il suo comportamento passato, desiante e contemplativo, si trasforma, in un attivo rifiuto, l’unico che sia consono ai suoi “disperati affetti” e che possa ancora ravvivare il suo gaudio. Saffo è così indotta, da un lato, ad evocare oggetti molto diversi cui rivolgeva un tempo il suo desiderio: non più la “placida notte” o “il verecondo raggio della cadente luna” , ma “il flutto polveroso de’Noti”, “il grave carro di Giove”, “il suono e la vincitrice dell’onda”. E dall’altro lato essa si sente attratta da azioni energiche, che forse le danno l’impressione di ribellarsi attivamente e di vendicarsi, oppure quella di non essere più esclusa, di muoversi in sintonia con le forze della natura.
A questo primo tempo, svolto nelle prime strofe, in cui Saffo prende atto dell’atteggiamento ostle della natura nei suoi confronti, e le contrappone la propia reazione agonistica, segue, nella terza strofa una pausa meditativa (assente nell’eroide ovidiana), durante la quale Saffo si interroga sulle ragioni della propria infelicità. Finge allora di chiedersi in che cosa abbia sbagliato da bambina, “qual fallo” l’abbia macchiata privandola poi di giovinezza e felicità, ma in realtà stila un atto d’accusa contro “l’arcano consiglio”, contro il “cieco dispensator de’ casi” che non le ha fatto nessuna parte “dell’infinita beltà”. A che servono infatti “dotta lira o canto” e “prode ingegno”, quando si ha corpo deforme. Saffo è nata al pianto, e non potrà conoscere nessuna gioia su questa terra. A differenza della Saffo ovidiana, essa non crede che l’ingegno possa compensare un corpo sgraziato e renderla accetta agli umani.
Da qui la decisione, proclamata sin dall’attacco dell’ultima strofa, e che fa eco all’esclamazione di Didone: “Morremo”. La luna è tramontata, il nunzio del giorno è appena spuntato, presto sorgerà il sole, ora favorevole agli umani speranzosi. Ma Saffo, sapendosi ormai “scema di giovinezza”, rifiuta l’epifania della luce, rifiuta l’alba e il sole che sorge, e si sottrae agli allettamenti ingannevoli dell’astro di Venere, che cerca di riconciliarla con l’esistenza. Contro il giorno, contro “il divo cielo”, contro “il candido rivo” che dispiega il suo “puro seno”, contro “il canto de’ colorati uccelli,” “il murmure de’ faggi,”, Saffo sceglie ciò che di tutte queste voci e di tutti questi colori è la negzione: Saffo sceglie il silenzio, la notte, il fiume infernale. Come Didone, anche lei va “sub umbras” ,” sub terras”. L’explicit del canto ne rovescia completamente l’attacco, e così porta alla sua logica conclusione quel rifiuto della natura e dell’essere che Saffo ha annunciato sin dalle prime strofe.
Mi sembra opportuno concludere questa disamina evidenziando il piacere annunciato da Leopardi nella premessa: essere riuscito a suscitare “interesse per una persona brutta” e, più ancora di essere riuscito a “supplire al suo difetto” di avere sottratto ai nostri sguardi la sua bruttezza nel momento stesso in cui è stata enunciata.
E’ questa la riscrittura di Cesare Pavese, che, in uno dei Dialoghi con Leucò ( 1947), immagina Saffo dialogare con la ninfa Britomarti subito dopo il suicidio della prima. Pavese presentando Saffo nel suo tentato suicidio, risulta come colui che accoglie una lunghissima tradizione che, a partire dai commediografici attici, faceva morire Saffo volontariamente a causa del rifiuto di Faone, traghettatore di Lesbo reso incredibimente affascinante da Afrodite, trasportata gratuitamente dall’uomo nelle vesti di anonima anziana. Il salto in mare che causò la morte della poetessa sarebbe avvenuto dal promontorio di rocce bianche che dall’isola di Leucade guarda verso Cefalonia, secondo quanto riportato da Strabone (che, sua volta, cita il frammento di Menandro riguardante la scomparsa della poetessa). Sulla leggenda del salto saffico e sul rapporto con Faone, nonostante l’enorme diffusione che ebbe nell’antichità, non si può dire molto di più, ma un elemento va necessariamente enfatizzato: dietro la morte della poetessa si stende l’ombra lunga di Afrodite. La ragione dell’amore della donna per Faone è da ricercare, infatti, tra l’Afrodite che trasforma il traghettatore e l’anzianità di una Saffo che spera di conquistare, insieme alla bellezza dell’uomo, una ritrovata gioventù. Certamente è da rilevare l’incertezza che segue al salto di Saffo, la quale si apre a quella possibilità di riscritture e rivisitazioni che si sono succedute sul motivo della poetessa suicida: Perché si è gettata? Cosa provava sospesa nell’aria? Cos’è stato di lei dopo l’incontro col mare?
Un primo dato emerge con chiarezza: la riscrittura di Pavese si rivolge direttamente al personaggio di Saffo per approfondirne la dirompenza che è in linea con la lunghissima tradizione sviluppatasi a ridosso della poetessa di Lesbo. L’evento del suicidio, della sua biografia e delle parole da attribuirle è stato, almeno a partire da Ovidio, la zona dell’immaginario dove far convergere visioni del mondo, dell’amore, nonché teorizzazioni poetiche e istanze di genere. Nonostante la tradizione dell’amore per Faone e il conseguente suicidio possano avere ben poco a che fare con la realtà, è evidente quanto questa versione abbia acquisito un tale successo perché fondata su temi che già appartenevano all’immaginario poetico di Saffo.
Tra questi, la presenza di Afrodite assume nuovamente un ruolo di grande centralità, non soltanto in riferimento al suicidio finale. La dea è costantemente presente nell’immaginario di Saffo, che ne canta l’incredibile potere nel fr. 1, unico componimento giuntoci nella sua interezza, che così recita:
“Immortal Afrodite dal trono variopinto/ figlia di Zeus, tessitrice di inganni, io ti supplico: /non prostrare con ansie e tormenti, o dea/augusta , l’animo mio, ma qui vieni, se mai altra volta/udendo la mia voce di lontano/ le porgesti ascolto”
supplica l’io lirico nei primi versi, per poi lasciare sul finale del componimento la parola alla stessa, implacabile divinità.
“Chi,/ di nuovo debbo indurmi al tuo amore?/Chi o Saffo, ti fa torto? /Perché se fugge, presto inseguirà/ se doni non accetta anzi donerà/, se non ama presto amerà/ pur contro il suo volere”.
A questo si aggiunga il fr.16, in cui l’esaltazione dell’amore convive con la malinconia innescata dalla lontananza della donna amata:
“Alcuni dicono che sulla terra nera la cosa più bella sia un esercito di cavalieri, altri di fanti, altri di navi, io invece ciò di cui uno è innamorato; ed è assolutamente facile farlo intendere a chiunque: perché colei che di gran lunga superava in bellezza ogni essere umano, Elena, abbandonato il suo sposo impareggiabile traversò il mare fino a Troia nè si ricordò della figlia e degli amati genitori: lei…disviò ( Cipride) che inflessibile (ha la mente)…facilmente…così (ella) ora mi ha fatto ricordare di Anattoria lontana, di cui vorrei contemplare il seducente passo e il luminoso scintillio del volto ben più che i carri dei Lidi e i fanti che combattono in armi”
Questi frammenti, letti alla luce delle riscritture saffiche, acquistano un significato particolare. L’assolutizzazione del desiderio e della forza negativa che esso è in grado di scatenare, muovendo in particolare dal commovente ritratto del fr.105, che ritrae una mela dimenticata sul ramo più alto dai coglitori che non riuscirono a raggiungerla, ci permette di parlare di un’estetica del frammento che si dipana, in consonanza con l’estetica romantica, tra i poli del desiderio e dell’assenza. L’impossibilità di raggiungere l’oggetto amato, secondo la critica recente, si riflette così non solo nella natura frammentaria dell’esperienza amorosa e del suo locutore, ma anche nelle modalità di fruizione del testo saffico, che sembra quasi riprodurre nei suoi molteplici spazi bianchi le medesime rotture provocate da Eros.
La convergenza tra rielaborazione biografica e poetica saffica rimanda al testo che ha dato il maggior impulso alla versione della Saffo suicida, ovvero l’epistola fittizia inviata da Saffo a Faone contenuta nelle Heroides di Ovidio. La versione ovidiana ha contribuito molto a tramandare il desiderio amoroso e il tragico momento dell’abbandono di Faone ed il suo rivolgersi da relitta all’amato prima di “cercare il destino nell’acqua di Leucade”. Il momento in cui viene colta la poetessa si situa inoltre a ridosso del suicidio, inteso come l’esito più naturale della natura soverchiante del desiderio della donna: la Saffo ovidiana conclude la sua lettera richiamando il mar benevolo unicamente con gli eroi maschili (e così infausto per molte eroine), mentre si congeda accennando al compimento del suo destino dalla rupe di Leucade:
“Sciogli gli ormeggi: Venere, nata dal mare, garantisce il favore del mare agli amanti; il vento aiuterà la tua rotta, tu, soltanto, sciogli gli ormeggi. Cupido stesso,sedendo a poppa, farà da timoniere; sarà lui, con le sue mani delicate, a spiegare e a serrare le vele. Se invece hai piacere di fuggire lontano dalla pelasgica Saffo, e non troverai, tuttavia, una ragione per cui io sia degna di essere fuggita, che almeno una lettera crudele me lo faccia sapere, ahimè infelice, perché io vada a cercare il mio destino nell’acqua di Leucade!”
Nei Dialoghi con Leucò Saffo dialoga con la ninfa marina Britomarti. Pavese immagina, infatti, che al salto della poetessa non sia succeduta la morte, bensì una trasformazione in schiuma d’onda e la fa divenire simile e diversa dalla sua interlocutrice: simile, in quanto anche Britomarti si è trasformata in ninfa dopo essere saltata in mare (per sfuggire alla violenza di Minosse), e diversa, poiché mentre quest’ultima ha accettato il ritmo dell’acqua e la conseguente nuova dimensione dell’essere, Saffo non si rassegna alla nuova realtà del mondo in cui si trova letteralmente sommersa:
Saffo: E’ monotono qui, Britomarti. Il mare è monotono. Tu che sei qui da tanto tempo, non t’annoi?
Britomarti: Preferivi quand’eri mortale, lo so. Diventare un po’ d’onda che schiuma, non vi basta. Eppure cercate la morte, questa morte. Tu perché l’hai cercata?
Saffo: Non sapevo che fosse così. Credevo che tutto finisse con l’ultimo salto. Che il desiderio e l’inquietudine, il tumulto sarebbero spenti. Il mare inghiotte, il mare annienta, mi dicevo.
Britomarti:Tutto muore nel mare, e rivive. Ora lo sai.
Tra le due dialoganti si staglia così una distanza che trova nello stato marino il suo principale correlativo oggettivo: a Britomarti, che ha accettato la nuova vita del mare, risponde la Saffo che non si rassegna al suo ritmo immutabile. Questa, nonostante la metamorfosi, rimane la poetessa che ha cantato le più contradditorie implicazioni del desiderio e che, anche dopo il salto dalla roccia, continua a essere tormentata dalla medesima inquietudine che provava a Lesbo. Oltre al luogo dell’identico e della sua ripetizione, il mare tratteggiato da Pavese si presenta come uno spazio sessuato, ovvero un paesaggio caratterizzato da una spiccata presenza femminile e, al contempo, intriso delle vicende mitiche legate ai desideri, spesso delusi, traditi o stravolti, delle eroine che lo attraversarono. In modo quasi identico a questa dinamica lo spazio di Schiuma d’onda si apre sia alle sofferenze delle due dialoganti sia a una vera e propria teoria delle eroine (Fedra, Cassandra, Medea) le cui storie, talvolta appena accennate da Pavese, contribuiscono a riempire il mare di lacrime. Pavese evidenzia una duplice possibilità: o accogliere il cambiamento e accettare, come la ninfa, la forza del desiderio e la nuova forma del proprio sé, o, come la poetessa, continuare a sperimentarne la violenza, l’impossibilità di una sua risoluzione e, conseguentemente, continuare a raccontare la forza dirompente:
Saffo: E’ possibile questo? Lasciare i giorni, la montagna, i prati, lasciare la terra e diventare schiuma d’onda- tutto perché dovevi? Dovevi che cosa? Non ne sentivi desideri, non eri fatta anche di questo?
Britomarti: Non ti capisco, Saffo bella. I desideri e l’inquietudine ti han fatta chi sei; poi ti lagni che anch’io sia fuggita.
Saffo: Tu non eri mortale e sapevi che a niente si sfugge.
Britomarti: Non ho fuggito i desideri, Saffo. Quel che desidero ce l’ho. Prima ero ninfa delle rupi, ora del mare. Siamo fatte di questo. La nostra vita è foglia e tronco, polla d’acqua, schiuma d’onda. Noi giochiamo a sfiorare le cose, non fuggiamo. Mutiamo. Questo è il nostro desiderio e il destino. Nostro solo terrore è che un uomo ci possegga, ci fermi. Allora sì che sarebbe la fine (…)
oh Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. E’ morire a una forma e rinascere a un’altra. E’accettare, accettare se stesse e il destino.
Saffo: Tu l’hai dunque accettato?
Britomarti: Sono fuggita, Saffo. Per noialtre è più facile.
Saffo: Anch’io, Britomarti, nei giorni, sapevo fuggire. E la mia fuga era guardare nelle cose e nel tumulto, e farne un canto, una parola. Ma il destino è ben altro.
Britomarti: Saffo, perché? Il destino è gioia, e quando tu cantavi il canto eri felice.
Saffo: Non sono mai stata felice, Britomarti. Il desiderio non è canto. Il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento.
Inoltre, come nel caso di Ovidio, anche la Saffo di Pavese è caratterizzata sia dalla poetica dell’autrice antica sia dalle diverse tradizioni che ne hanno governato la ricezione in tempi più vicini a noi. Da un lato, infatti, alcuni precisi rimandi testimoniano un rapporto stretto di Pavese col testo di Saffo, da cui ricava persino diverse notazioni terminologiche, ad esempio “il desiderio schianta e brucia”; dall’altro, invece, anche questa Saffo mostra non poche vicinanze con la tradizione romantica che ne esaltò il suicidio e, in particolare, con quella leopardiana. Ancora una volta però è la lettera di Ovidio a gettare la sua ombra più lunga sulla poetessa e i suoi testi. La domanda d’amore che in Ovidio Saffo lancia come ultima invettiva contro il fantasma di Faone contribuisce a rinsaldare una visione tragica del desiderio tanto quanto la vicenda della Saffo di Schiuma d’onda, in cui la tematizzazone negativa diviene addirittura maggiore grazie alle domande della donna a cui neppure l’ingenuità di Britomarti può fornire una risposta:
Saffo: Si può accettare che una forza ti rapisca e tu diventi desiderio, desiderio tremante che si dibatte intorno a un corpo, di compagno o compagna, come la schiuma tra gli scogli? E questo corpo ti respinge e t’infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo. Altre volte sei scoglio tu stessa, e la schiuma – il tumulto - si dibatte ai tuoi piedi. Nessuno ha mai pace. Si può accettare tutto questo?
L’assenza di Faone da entrambi i testi (quello saffico e quello di Pavese) non stupisce, e anzi contribuisce a mostrare in negativo quale sia l’aspetto più importante di ciò che viene trattato ad un livello più profondo. Il dolore di Saffo non è infatti causato semplicemente dall’amore non corrisposto per un uomo, per quanto prediletto da Afrodite, bensì dalla dirompenza di un desiderio che attraverso Faone mostra il suo carattere più distruttivo, tanto da impedire al soggetto di riconoscersi come tale e, di conseguenza, da fargli preferire la morte.
Saffo non riesce a morire: in Pavese continua a soffrire tra lo sciabordio delle onde; l’urto del mare fa rimbalzare l’inutile suicida verso schiume di luce che si rapprendono e si sciolgono. Perché questo suicidio è inutile? Perché la morte non arriva? Il mancato suicidio in Pavese serve a sottolineare il prolungarsi del desiderio e della sua forza. Il desiderio di sparizione non comporta il completo annullamento dell’esistenza. Il desiderio continua a scavare, come il mare della Saffo pavesiana, che credeva che tutto sarebbe finito con l’ultimo salto, che il desiderio, l’inquietudine, il tumulto sarebbero spenti, e che invece si ritrova immersa “dove tutto macera e ribolle senza posa”, mentre ciò che resta alla poetessa è l’esperienza del limite a ridosso del desiderio che Saffo continua a rappresentare da millenni.
- Storia della Bruttezza, di Umberto Eco
- Le forme del Bello, di Remo Bodei
- Geometria delle Passioni, di Remo Bodei
- Fosca, di I. Tarchetti
- Fosca, di E. Ghidetti
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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