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Uscito nel 1947, Il sentiero dei nidi di ragno segna l’esordio di Italo Calvino, uno scrittore che da lì a poco avrebbe iniziato a scrivere la nuova storia delle letteratura italiana. E proprio la storia e la memoria segnano questo primo e in un certo senso ultimo romanzo calviniano... Ultimo, perché Calvino dopo questo testo non ha più parlato, raccontato o scritto o sospirato qualcosa sulla Resistenza italiana, nonostante l’avesse vissuta in prima persona. Il sentiero della memoria è tuttavia capace di portare lontano, si avvale di molti ragni che tessono ricordi e occorre star loro dietro per scrivere, confondere parole, date e poi volti che sbiadiscono, si scopre che è tutto lì, impresso, scandito, ma non si sa come fare a dirlo, perché le parole sembrano non bastare mai, sembrano sempre essere quelle sbagliate, non sono mai sufficientemente precise, eppure sono come giudici imparziali che condannano le vittime ad un oblìo di significante, come urli che non hanno suono. Questo è precisamente quello che ha provato Calvino uomo, scrittore, partigiano, mentre scriveva il suo primo romanzo, mentre il tempo lo rincorreva e la paura di una cancellatura della storia, di quel colpo di spugna che cancellasse tutto quel sangue lo inchiodava a quel racconto che doveva, per dovere morale essere scritto. Subito.
Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi.
Certo tutto ciò detto finora può perdere di senso e di valore se non si inquadra il contesto storico e letterario in cui viene scritto questo romanzo. La guerra è appena finita, l’Italia è a pezzi, e i partigiani, quelli sopravvissuti, sono a casa di nuovo e ognuno di essi tornava con una storia in mano, anzi con La Storia, tutti in un modo o un altro consapevole che quella guerra era stata la svolta del mondo, che l’uomo non sarebbe più tornato come prima, tutto era cambiato una volta per tutte. E tra le macerie di un paese in rovina, c’era silenzioso e strisciante il sangue degli innocenti, dei civili e dei partigiani, dei ragazzi uomini, delle ragazze donne, e la voce dei morti riecheggiava nei vivi, nelle lacrime, nella vita che si è tenuti stretti, in ogni giorno un ricordo. E in mezzo a tutto questo chi poteva e sapeva scrivere ha provato il bisogno di riscattare quella morte, il dovere di imprimerla eternamente in nelle parole di una pagina, perché da sempre e per sempre i vivi scrivono ai morti, per i morti, per la necessità di ricordare a tutti i costi e non perdere la memoria: così, Vittorini fu il primo che nel 1945 posò la penna sul foglio e si mise a scrivere quello che è stato il primo romanzo resistenziale, “Uomini e no”. Essendo stato il primo libro sulla Resistenza e dunque su un argomento mai trattato prima perché mai vissuta, “Uomini e no” ha avuto l’incombenza e il privilegio di poter dettare il canone e le regole che da quel punto in poi dovevano seguire tutti i romanzi esistenziali: il realismo. La penna doveva adattarsi alla memoria, scrivere ogni piccola minuzia, riportare gli odori, i morti, il sangue, la memoria si vestiva di inchiostro e diventava Storia.
La pagina non dev'essere un doppione della vita, sarebbe per lo meno inutile; deve valerla. Dev'essere un fatto tra i fatti, una creatura in mezzo alle altre.
Ma chi conosce Calvino sa quanto poco gli si adatta la parola “realismo” e quanto quella morale che lo muove è il frutto di una grande confusione, incomprensione storica, innocenza, incoscienza, e se da una parte il dovere morale lo spinge dall’altra l’etica lo chiama, e qui nasce il dubbio. Ora Calvino, da grande intellettuale quale già era, si pone la domanda che poi si porranno tutti quelli dopo di lui: come posso scrivere ancora? Perché il realismo richiede obiettività, adesione, pazienza e memoria, ma lo scrittore vuole fuggire da questo tranello, sa che deve fare ma non vuole sbagliare, sa che deve scrivere, perché questo è il momento, perché i morti lo impongono, perché tutti devono sapere ma seriamente si chiede: come può scrivere ancora? Come può esser sicuro che le parole sul foglio possono colmare tutti quei morti? Come può essere sicuro una volta per tutte di averli onorati?
Perché il vero problema è questo, uno e martellante: lui è ancora vivo e gli altri no. Nasce la colpa e la redenzione. Nasce la volontà di raccontare e la parola. Torna la memoria e nasce Calvino, che inventa e esce dal canone, fuori dallo storicismo, dalle autobiografie, fuori. Invece di prendere la strada prende un sentiero e nasce Pin.
Il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali è una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni.
Pin è il protagonista del romanzo, un bambino, impertinente, sfacciato, in lotta con il mondo e in particolare col mondo degli adulti e forse, se non ci fosse stata la guerra di mezzo, egli avrebbe potuto essere Peter Pan che lotta contro Capitan Uncino… Ma qui la guerra c’è, e Pim diventa partigiano. Quest’ultima frase non porti a pensare che Pim ci si sia arruolato o abbia preso qualsivoglia scelta, perché Pim non sceglie, le cose a lui capitano, ci si trova nel mezzo, tutto corre e sfugge e lui con quella faccia tosta che piega anche i grandi lotta, va in guerra. Anche se, come sarà poi per “Una questione privata” di Fenoglio, la guerra in questo romanzo è lontana, un eco, appena sfiorata; il protagonista non combatte, troppo piccolo, non spara, non è un’eroe, un martire della patria, il protagonista non è nessuno e forse questa è la sua forza. Si ritrova in qualcosa più grande di lui, che non comprende, a lui dei fascisti, nazisti, non importa, non li conosce, lui porta avanti la sua guerra contro gli adulti nella guerra degli adulti. Eppure basta leggere poche righe per capire le fragilità di questo personaggio, la solitudine che si cela nei suoi scherzi, la voglia di riscatto da tutte le umiliazioni subite, da quelle ferite mai chiuse; e per questo riscatto diventa, involontariamente partigiano, ruba la pistola ad un soldato tedesco (che giaceva con la sorella, prostituta di mestiere) e via corre a nasconderla. Ma dove nascondere un così grande reato? In un posto che nessuno conosce e dove lui passava le giornate di solitudine a umiliare chi non poteva ribellarsi: i ragni; e quel luogo che è la sua solitudine e il suo segreto se lo tiene stretto, anche perché i grandi non capiranno mai, tutti gli dicono “I ragni non fanno nidi” e giù a ridere. Ma Pim lo sa che è tutto vero, che i ragni fanno il nido e che lì ha seppellito quella pistola, e quel suo gesto, quel suo segreto è custodito dai ragni, e dall’impossibilità apparente che essi hanno di fare il nido e solo chi gli crederà, solo chi crederà che i ragni facciano i nidi potrà seguire Pim su quel sentiero. E chi ci può credere quando diciamo cose impossibili? Un amico, tutto si riduce a questo, a qualcuno che ci crede e che custodisca con delicatezza ogni nostro segreto, anche se è seppellito sul sentiero dei nidi i ragno.
Marzia Samini (21/05/1992) ha studiato presso il liceo umanistico Vittoria Colonna per poi prendere la facoltà di Lettere all'università Roma Tre. Si è laureata con una tesi su Musil e la sua opera I turbamenti del giovane Torless e qui continua il suo percorso universitario e letterario.
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