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Vita Nova, di Dante Alighieri: la storia di un'anima

di Marzia Samini

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Ecco un iddio più forte di me, che viene a signoreggiarmi.

Per intendere e apprezzare la prima opera di uno dei più grandi poeti al mondo, Dante Alighieri, è necessario fare uno sforzo immaginativo e tornare con il cuore e la mente agli ultimi anni del 1200 e capirne i moti dell’animo, della fantasia e delle parole per poter finalmente rifletterci negli occhi d’Amore. Prima di parlare della struttura narrativa e dell’assoluta novità che rappresenta l’opera al livello strutturale e contenutistico, ritengo dunque utile contestualizzare il periodo letterario nel quale essa nasce e soprattutto i motivi portanti della poetica d’amore.

Nascita della poesia d'amore: la tradizione provenzale e siciliana

La poesia d’amore italiana nasce in Sicilia presso la  corte di Federico II di Svevia dove svariati intellettuali, Giacomo da Lentini, Cielo D’Alcamo, Pier della Vigna tra i nomi più noti, danno vita a quella particolare forma poetica, nata in Provenza, dove a fare da padrone è il tema amoroso; dunque la scuola siciliana è di vitale importanza per tutto quello che sarà lo sviluppo di tutta la letteratura italiana, in quanto dà vita alla poesia volgare, ovvero ai primi componimenti letterari scritti nella lingua del volgo - cioè non in latino. E' assai stupefacente e quanto mai meraviglioso il fatto che i primi componimenti in lingua italiana siano componimenti d’amore: proprio questo motivo porterà Dante a sostenere nel De vulgari eloquantia che la prima e unica forma che la poesia possa assumere è la poesia d’amore.

Come accennato in precedenza, questa forma poetica non nasce in Italia bensì in Provenza, nella parte meridionale della Francia dove una particolare classe sociale, i trovatori, esprime nella poesia d’amore tutta la cultura e le forme sociali dell’epoca, ovvero la cavalleria e i modi cortesi, ma in un modo trasfigurato e idealizzandoli: così, l’Amore e la donna amata si trasformano nel signore (ad indicare il ricco possidente o il signore della corte) che siede sul trono del loro cuore, che muove il loro spirito che fa sospirare e arrivare all’estasi quando ricambiato o soffrire e morire quando non lo è. Sulla poesia provenzale dei trovatori si è scritto tanto, mille ipotesi sono fiorite nel vaso della critica letteraria, eppure ancora oggi questa poesia, a causa o grazie al suo linguaggio velato, rimane per noi sostanzialmente un mistero. Una delle teorie più convincenti vede nei trovatori e nelle loro poesie una riflessione mistica, quasi romantica diremmo oggi, sull’uomo e l’assoluto, il desiderio e la morte, l’irraggiungibilità dell’amore e della pace dello spirito. La donna amata, la ‘domina’, in questa prospettiva sarebbe ciò che permette all’uomo, tramite il suo amore, di raggiungere l’assoluto, di sciogliere la neve al sole, di sentire una musica perpetua e lontana e spiccare voli e inginocchiarsi e pregare che non finisca mai, anche se è tormento, anche se è paranoia, tutto purché gli occhi di lei si posino ancora su di lui, purché si conceda ancora una volta e abbia ancora desiderio di sentire parole d’amore.

Amore e 'l cor gentil sono una cosa,
sì come il saggio in suo dittare pone,
e così esser l'un sanza l'altro osa
com'alma razional sanza ragione.
Falli natura quand'è amorosa,
Amor per sire e 'l cor per sua magione,
dentro la qual dormendo si riposa
talvolta poca e tal lunga stagione.
Bieltate appare in saggia donna pui,
che piace a li occhi sì, che dentro al core
nasce un disio de la cosa piacente;
e tanto dura talora in costui,
che fa svegliar lo spirito d'Amore.
E simil face in donna omo valente.

Ovviamente tra la poesia provenzale e quella italiana ci sono notevoli differenze e ancora di più ce ne sono tra la prima poesia siciliana e la generazione successiva, quella dei toscani. Il primo a dare il via alla nuova stagione d’amore italiana fu Guido Guinenzelli con il componimento manifesto Al cor gentile reimpara sempre amor; ora per capire e intenderne il senso è necessario tornare ai provenzali e analizzare alcuni termini base della loro poetica: primo fra tutti "NOBILE". Il cuore gentile o cortese o nobile, è il cuore magnanimo mosso dai più alti valori di fedeltà e lealtà ad Amore (si vede come anche questo topos possa essere interpretato come la fedeltà che il cavaliere giurava al suo Signore e di come il Signore, a sua volta, dovesse essere magnanimo). Tutti gli altri topoi sono tratti principalmente dall’opera Il De Amore di Andrea Cappellano, come ad esempio il cuore come residenza d’amore o ancora meglio albergo d’amore, o ancora gli occhi come specchio dell’anima, e difatti l’innamoramento, la trappola d’amore avviene tramite lo sguardo della donna amata che rapisce e chiude dentro di sé lo spirito dell’amato.

La Vita Nova: nasce il dolce stilnovo

Fatte queste premesse possiamo ora parlare della nostra opera la Vita Nova. La prima novità che possiamo subito e facilmente riscontrare è quella strutturale, infatti in essa Dante unisce alternandoli, per la prima volta nella storia della letteratura, prosa e poesia. Ma cosa ci racconta quest’opera? Racconta la storia di una malattia d’amore che ha per conclusione una nuova acquisizione del sé e la fondazione di una nuova filosofia dell’amore, dove l’appagamento è tutto nell’elogio dell’amata e non, come nei provenzali, nel suo concedersi (basti pensare che i trovatori provenzali scrivevano le ‘canzoni di cambio’ enunciando la volontà di cambiare donna in quanto essa non appagava o rifiutava il suo amore).

Intrisa di topoi provenzali, la trama è un gioco continuo tra realtà e finzione dove quest’ultima crea senza sosta la realtà circostante fino a farci perdere in un mondo letterario-realistico senza più confini, diventando l’Ulisse che supera ogni confine per poi essere ingoiato nell’abisso; perché l’esperienza erotico-amorosa si trasforma in riflessione e maturazione spirituale ed anche, e soprattutto, in evoluzione poetica, dalle prime prove fino a diventare una nuova filosofia. La canzone che dichiara questa nuova maniera di fare poesia è “Donne ch’avete intelletto d’amore” dove il poeta dichiara, per la prima volta, il proprio sentimento disinteressato che verrà poi definito come uno stile, il dolce stilnovo o lo stile della lode.

Oltre all’apparente motivo erotico Beatrice incarna e unisce ad esso il motivo religioso: essa è infatti il mezzo e il fine per arrivare al bene, a Dio. Così, attraverso l'esperienza amorosa, il poeta rivive anche i sentimenti e gli alti e bassi tipici di un credente, come quando passa attraverso la disperazione, ad esempio quand’ella per gelosia gli toglie il saluto visto che il poeta per difendere il suo amore e nascondere il nome dell’amata dalle maldicenze (altro topos provenzale) finge di esser innamorato di altre donne; o ancora quando passa attraverso la tentazione quale prova decisiva (così come i 40 giorni nel deserto per Cristo) della sua fede e premessa a ritorno all’amore per Beatrice che diventa, alla fine, una conversione. Infine, nell’ultimo trattato della Vita Nova, Dante si oppone con forza alla regola del ‘chiodo caccia chiodo’ a significare la natura diversa, speciale e unica del suo amore che respinge con forza e devozione e sacrificio le passioni devianti che finiscono per inchinarsi alla signoria del vero amore. Dunque con l’espediente (fittizio?) di Beatrice quale donna angelo e personificazione del vero amore, Dante riesce a risolvere il dilemma che tanto tormentava i poeti italiani, cioè unire all’amore profano quello sacro; un problema brillantemente risolto riscrivendo le regole dell’amore, facendo della fedeltà all’amata non un servizio di cavalleria ma l’atto di fede di un credente davanti a Dio. Ciò risulta evidente quando Beatrice muore e Dante nella sua visione la rivede nell’altro dei cieli, proponendosi di scrivere nuovamente di lei solamente quando sarà in grado di scrivere un’opera che mai è stata scritta per altra donna: quell’opera sarà la Divina Commedia... Quale atto d’amore potrà mai superare tutto questo?

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
8da cielo in terra a miracol mostrare.

Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: sospira

 

Marzia Samini (21/05/1992) ha studiato presso il liceo umanistico Vittoria Colonna per poi prendere la facoltà di Lettere all'università Roma Tre. Si è laureata con una tesi su Musil e la sua opera I turbamenti del giovane Torless e qui continua il suo percorso universitario e letterario.

 

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