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Il giocatore, di Fëdor Dostoevskij

di Isabella Fantin

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Chissà se la scena della partita a scopa tra De Sica e un bambino ne “L’oro di Napoli” strapperebbe un sorriso a Dostoevskij, perché non solo lo scrittore russo è schiavo del gioco, ma possiede una sorprendente vis comica. E soprattutto tutela l’infanzia, denunciandone gli abusi nei suoi romanzi.
Mi piace pensare di sì.

Un romanzo sulla vita come gioco d’azzardo, scritto per vincere una scommessa.
Nasce così nel 1866 Il giocatore di Fëdor Dostoevskij che in patria ottiene un successo travolgente. La prima traduzione in lingua italiana, edita da Einaudi, risale al 1941.
L’autore, infatti, è vincolato da una postilla contrattuale a comporre in un mese un nuovo romanzo. La posta in gioco è alta: il mantenimento o la cessione all’editore dei diritti d’autore sulle sue opere. Rispettare in extremis una clausola capestro non equivale a vincere una scommessa?

Il 1866 è uno dei tanti momenti critici per Dostoevskij che, oberato dai debiti, l’anno seguente inizia un tour nei maggiori casinò europei. La Russia zarista vieta il gioco d’azzardo. Questo ludopatico pellegrinaggio si conclude quattro anni più tardi, in concomitanza con la nascita del figlio Fëdor, il quarto.
Dal 1871 Dostoevskij non giocherà mai più. Ha perso tutto. Non sappiamo quanto il demone che lui chiama “maledetta fantasia” continui a tormentarlo.

Se l’autobiografismo del testo è noto, il rapporto con l’editore forse lo è un po’ meno.
D’altro canto non sono pochi gli scrittori tiranneggiati dai loro editori e viceversa, per esempio nel caso di D’Annunzio. E quelli che, sotto l’urgenza di necessità pratiche, si sono imposti estenuanti maratone di scrittura. Nel 1750 Goldoni mantenne la promessa di scrivere in un anno sedici nuove commedie, per rispondere alle critiche dei suoi oppositori. Nel primo Ottocento il padre del romanzo storico Walter Scott produsse romanzi a ritmo frenetico, per fronteggiare un dissesto finanziario. Il risultato? Non riuscì a onorare i debiti, ma a minare le sue condizioni di salute.
Come accadrà a Balzac sempre a corto di denaro, malgrado un furor scribendi leggendario. Lo si evince dalla splendida biografia che Stephen Zweig gli ha dedicato.

 

Un nuovo soggetto letterario: il giocatore

A partire dal XVII sec. – quando il gioco delle carte è una realtà culturale che non conosce distinzioni di classe -, il giocatore anima la letteratura come prim’attore, spalla o cameo. La dama di picche di Puškin e I giocatori di Gogol’. La mano sbagliata di Guenassia e La musica del caso di Auster. Per l’Italia penso all’avventura di Mattia Pascal alla roulette nel casinò di Montecarlo o al recente Fate il vostro gioco di Michilli.

Il giocatore è un modello antropologico ricco di sfumature, quanto la corte che lo accompagna.
Il gentiluomo ligio al fair play. Il nobile che si rovina. Il pollo da spennare e il neofita baciato dalla fortuna. Il baro professionista. L’uomo comune emotivamente travolto dallo tsunami di una vincita straordinaria. L’aristocratico che ostenta nonchalance a fronte di una perdita importante, la stessa che l’incallito plebeo maledice. Il giocatore ossessionato dall’idea di elaborare un sistema infallibile per vincere alla roulette
. Postulanti, parassiti, ladri, usurai e avventurieri.
Alcuni cliché, legati al tavolo verde, diventano un espediente per eliminare dal romanzo un personaggio che ha esaurito la sua funzione narrativa. Il baro scomunicato dai club in vista (il marito di Maria Ferres ne Il piacere dannunziano). Il mascalzone coinvolto in fatti di sangue per debiti non onorati (il fratello di Manon in Prévost). Il marito assente che dilapida la dote (il genero di Mastro don Gesualdo di Verga). Gli esempi non si contano.
Tutti ugualmente impegnati in un braccio di ferro con l’imponderabile, per razionalizzare la casualità tra divertimento e perdizione. Un bifrontismo pericoloso quando l’aspetto ludico diventa compulsivo.

Vizio o malattia?

Solo nel 1977 il gioco viene derubricato da vizio a malattia. Un disturbo psichiatrico, afferente il controllo degli impulsi, capace di generare dipendenza comportamentale senza l’abuso di sostanze. Gli specialisti usano l’acronimo G.A.P. per classificare il gioco d’azzardo patologico.

 

Presentazione de Il giocatore

Il giocatore è un romanzo  intenso, ironico e drammatico che presenta le peculiarità della scrittura dostoevskiana.
Prevalenza di dialoghi e ambienti chiusi. Bandita o ignorata la natura da personaggi raggomitolati nei loro rovelli interiori. Conversazioni rapide, concitate e colloquiali, talvolta a un passo dal sovrapporsi
come nelle commedie di Woody Allen. O almeno questa è l’impressione che ho ricavato. Al centro della vicenda una situazione eccezionale vissuta e raccontata da un antieroe.
Un carotaggio introspettivo che assorbe l’azione e dilata il tempo del racconto.
La vis comica, venata di ironia e sarcasmo, è il tratto che mi ha maggiormente sorpreso a distanza di decenni dalla mia prima lettura.

 

La trama

Il canovaccio è da vaudeville.
Un generale sul lastrico a causa del gioco conta sulla morte dell’anziana matriarca per l’eredità: Antonída Vasíl’evna Taràseviceva, chiamata affettuosamente nonnina (babúlinka) o zietta. Intanto il generale si sollazza con il suo entourage in un’ esclusiva stazione termale di nome Roulettenburg. In vigile attesa tra illazioni, speranze e progetti alle spalle della moritura.
All’improvviso da Mosca piomba nel kursaal proprio la vecchia (75 anni nel XIX sec. non sono uno scherzo): “la grande signora e proprietaria moscovita che stava sempre per morire e non moriva mai.”
E che, ironia della sorte, perde al gioco quasi tutti i suoi beni. Un imprevisto catastrofico.
La voce narrante è Aleksej Ivànovic, modesto precettore 25enne al seguito del generale, perdutamente innamorato della di lui figliastra Polina, affascinante e sfuggente.
L’incipit catapulta il lettore nel vortice di un nucleo familiare e del suo seguito:

Ero finalmente tornato dopo un’assenza di due settimane. I nostri si trovavano già da tre giorni a Roulettenburg. M’immaginavo che mi aspettassero con chissà quale ansia, invece mi ero sbagliato. Comunque bisognerà spiegarsi: troppe cose si sono accumulate.

Un attacco ricco di sottintesi per solleticare la curiosità del lettore.

 

Uno scenario tra luci e ombre

Il gruppo soggiorna a Roulettenburg in Germania, il cui casinò attira turisti di ogni sorta. Dietro questa località fittizia non è difficile scorgere Wiesbaden o Baden-Baden.
Acque termali e gioco d’azzardo. Benessere del corpo e maledizione del portafoglio. Dell’anima no: Dostoevskij si astiene da ogni giudizio morale su chi sperpera al tavolo verde le sostanze proprie o altrui.
Negli anni Novanta del secolo scorso l’antropologo francese Marc Augé inserisce il casinò tra i non luoghi della post modernità. Una zona anonima di transito, i cui frequentatori assumono temporaneamente l’identità collettiva del giocatore. Affine al casinò è l’osteria, di cui Manzoni ci ha regalato ritratti magistrali.
La sala da gioco, dunque, è un non-luogo socialmente trasversale in cui lecito ed illecito si confondono. Un microcosmo d’eccellenza per chi, come Dostoevskij, sa scrutare l’essere umano.

 

Chi è il giocatore?

Sono due: antitetici e complementari, coniugano comico e tragico, dramma e divertimento. Il precettore e la nonnina, giocatori sui generis.

Aleksej: il precettore

Emotivo, impulsivo e portato al sentimentalismo, Aleksej asseconda ogni richiesta di Polina che si destreggia enigmatica tra innamorati e pretendenti. La ragazza, dal comportamento ambivalente, sembra afflitta da un’unica preoccupazione: entrare in possesso di una somma consistente in tempi brevi. Il motivo è top secret. La roulette la soluzione.
Questo è solo uno dei segreti dei personaggi. Un passato sconveniente. Un disegno occulto. Un presente da nascondere. Gli scheletri nell’armadio sono numerosi.
Dal momento che il decoro impedisce a una ragazza perbene di frequentare un casinò, Polina ordina al precettore di “vincere alla roulette a qualsiasi costo” giocando per lei.
Perché l’antieroe Aleksej accetta? La domanda è retorica. Per un complesso di inferiorità sociale. Per acquisire credibilità. Per ubbidiente compiacenza. Perché invischiato in un legame sentimentale asimmetrico, che oscilla tra Andrea Cappellano e il marchese De Sade. Servitium amoris e sudditanza psicologica.
Come vedremo, sarà il complesso di inferiorità a guidare e a sabotare la sua condotta.

Aleksej, pertanto, debutta alla roulette come giocatore surrogato.
Il primo impatto è negativo. Indispettito dal fatto di giocare conto terzi e deluso dallo squallore dell’ambiente, il giovane precettore punta “timidamente”. Osserva gioco e giocatori. Il primo lo impara, i secondi li scannerizza.
Poco dopo, a richiesta, affianca come accompagnatore al casinò, nel quale la donna non ha mai messo piede, proprio Antonída Vasíl’evna. Agli occhi del parentado si profila l’occasione per controllare le mosse dell’imprevedibile quanto onnipotente nonnina.

Solo in terza battuta Aleksej gioca per conto proprio, nella speranza di trovare alla roulette la salvezza. L’ultima parte del romanzo contiene la ricostruzione febbrile della sua avventura autodistruttiva, con un finale ricco di sorprese.

Antonída Vasíl’evna: la babúlinka

La comparsa della nonnina, dalla fisicità prepotente a dispetto delle barriere architettoniche, è un coup de théâtre:

Sulla piattaforma superiore dell’ingresso dell’albergo, portata a braccia con tutta la poltrona su per i gradini dello scalone, circondata da un innumerevole e servile stuolo di lacchè, dal proprio servitorame e da un’infinità di bauli e di valigie, troneggiava la… nonna! Era venuta di persona a trovarci piombandoci addosso come una tegola in capo. Era naturale che restassi lì ritto, trasformato in una statua di sale dalla sorpresa!

Questa anziana testarda, autoritaria, imperiosa, senza peli sulla lingua e dall’occhio di lince incrina gli equilibri e ne crea di nuovi in una girandola di fuochi d’artificio.
Si accosta per la prima volta nella sua vita alla roulette per curiosità.
Gioca in modo irrazionale ed infantile, ma non autodistruttivo malgrado l’esito prevedibilmente disastroso. Abbagliata da forti guadagni, da vincite saltuarie e dal miraggio di rifarsi, la babúlinka dilapida in un paio di giorni la maggior parte del suo patrimonio. In preda a un’incoercibile eccitazione fisica e mentale. Preda di subdoli “polaccucci” che – mentre lei tra una puntata e l’altra “precipita come una slitta dalla cima di una montagna” -, la adulano, consigliano, derubano e bistrattano insultandosi a vicenda.
Aleksej, però, sceglie di non assistere all’ultimo atto della rovina della nonnetta, rovina che determina lo sfaldamento del gruppo.

Una parentesi senile di leggerezza e impulsività. Questo è il bilancio consuntivo dell’esperienza al casinò tracciata da Antonída Vasíl’evna, in procinto di rientrare a Mosca. A ben vedere ha ancora del suo per vivere.
Dei parenti “francamente se ne infischia” per dirla con Rhett Butler di “Via col vento”.

 

L’altra faccia del denaro

Aspetto centrale è il denaro, trait d’union dei personaggi che lo considerano un mezzo, non un fine. Per la voce narrante è un modo di guadagnare come un altro. Chi disse pecunia non olet?
La sua mancanza grava come un macigno. Perché ne Il giocatore di Dostoevskij il denaro di fatto non c’è, zietta a parte.
È denaro perduto, che non si è mai avuto, di cui si vorrebbe entrare in possesso. È denaro millantato, agognato, passeggero. Vinto e perso. Raramente guadagnato e tesaurizzato, perché nella società russa dell’Ottocento non c’è spazio per i Père Goriot.

 

Il gambler

La fenomenologia della febbre del gioco di Aleksej gareggia per acume analitico con quella dell’ubriacatura di Renzo nei Promessi Sposi. Però, a mio avviso, in Dostoevskij l’impostazione soggettiva insieme alla catena di colpi di scena le danno una forza proiettiva e un interesse maggiori.
Il campo visivo del lettore si riduce progressivamente come quello di Aleksej fino a mettere a fuoco solo la pallina in movimento. Rosso, nero; pari, dispari; zero. Rien ne vas plus. Anche il loro tempo rimane sospeso nell’incertezza dell’attesa carica di adrenalina.

Abdicare alla vita come individuo e come cittadino. Fare della roulette il proprio centro di gravità. Questo significa essere un gambler, come indicato nell’epilogo non privo di porosità.
A Roulettenburg il precettore si mette a giocare in uno stato di alterazione mentale, rinforzato da vincite così alte da far saltare il banco. Punta e aspetta meccanicamente senza pensare. Benché obnubilato dalla sete del rischio e dal desiderio di sbalordire gli astanti, riesce a fermarsi in tempo, in tasca una somma enorme con la quale però non riesce a raggiungere il suo scopo. Tutto accade in una notte.
Il giorno seguente parte per Parigi dove in meno di un mese dà fondo al denaro. Con indifferenza e senza remore.
Aleksej rievoca il soggiorno nella città dell’amore con queste parole: “Cosa posso dire di Parigi? Naturalmente tutto è stato soltanto delirio e follia.”
Dopo l’ennesimo colpo di scena, decide di tentare di nuovo la fortuna.
A sostenerlo, oltre alla dipendenza psicologica, una fiducia incrollabile nella benevolenza repentina della sorte. Il denaro in sé non gli interessa. È l’ammirazione, la lode, il rispetto, l’attenzione suscitati dal denaro che vuole.

Un epilogo fluido

Forse Aleksej sceglie di venire a patti con la sua dipendenza. Di soccorrere e proteggere, come dice l’etimo greco del suo nome… se stesso. O forse chi, come lui, fa dell’azzardo la sua vita non può cambiare, ma solo sperare di farlo. Chissà.

 

Isabella Fantin è nata nel '61, abita a Milano in piena movida da tormento notturno. Una laurea in Cattolica in Lettere moderne. Docente di lungo corso, vaglia nuove rotte. Il tempo per lei è il vero lusso. Legge da sempre. Conduce una vita anonima. Le piace ricordare una frase che ripete sempre ai suoi studenti: leggere insegna a vivere. Ci crede anche lei.

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