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E’ un errore venire qui con
l’animo di chi entra in un
museo. Bisognerebbe
diradare la cortina
affascinante, e talvolta
paurosa, delle immagini
che si vedono, delle forme
che si toccano, per entrare
nel vivo di questa Grecia
d’oggi, per conoscere gli
uomini, per apprendere
com’essi vivano, che cosa
possano ancora darci e che
cosa possiamo apprendere
da loro. Per conoscere,
insomma, se c’è una Grecia
viva accanto alla terra dei
morti che si può studiare e
amare stando chiusi in una
biblioteca.
Costantino Kavafis
E' un caso comune, fra antichi eroi, che un personaggio si definisca per lenta emersione da una più ampia saga: per una sorta di zoom mitografico che isola e ingigantisce un comprimario sino a farne un emancipato protagonista. Improvvisi recuperi e non lineari evoluzioni segnano incessantemente e, in modo retroattivo, modificano le tradizioni del mito: un comprimario può divenire protagonista sulla base di storie o culti marginali.
Il caso di Elettra è esemplare, e dimostra il carattere già derivato e complesso di ogni presunta “origine” mitica. Nell’Odissea, a più riprese, la vicenda di Agamennone è evocata analogamente e ovviamente al contrario alla vicenda di Odisseo; e Oreste è più volte additato a modello per Telem8aco. Le cronologie mitiche, a ben guardare, non quadrano: Agamennone e Odisseo, Oreste e Telemaco condividono sorti e generazione; essi sono eroi contemporanei, e appartengono al comune ambito dei Nostoi, dei “ritorni” da Troia e condividono le saghe dei due capi e dei rispettivi eredi. Esplicito è Agamennone (II,421-423), che nell’Ade narra ad Odisseo la propria storia. Qui è ancora Egisto a guidare l’agguato, ma esso è consumato insieme “alla moglie maledetta” (v.410); è Clitennestra stessa ad uccidere Cassandra (v.421-423); è lei, “faccia di cagna”(v.424) ad abbandonare il cadavere dello sposo (v.425e s); e l’ambiguo verbo nophistat(o) (v.425 lasciò o spogliò?) non fa escludere una diretta uccisione. Poco oltre, lo stesso Agamennone dirà “mi uccise”(v. 453). Ciò che orienta la focalizzazione omerica è il valore paradigmatico delle narrazioni: se nella Telemachia sono prioritarie le analogie Telemaco/ Oreste e Proci/ Egisto, mentre va evitata l’infausta analogia Penelope/Clitemestra, nella Nekya il paragone fra le due spose è impostato da Agamennone nei termini di una marcata opposizione (II,444-453); allo stesso modo appaiono al re le sorti di Telemaco e Oreste (v.450-453), il primo destinato ad abbracciare il padre, il secondo precluso alla vista stessa del genitore: uno spunto questo del rapporto negato con Agamennone che avrà conseguenze notevoli in seguito. Le reticenze omeriche, dunque, non dimostrano un’imperfetta definizione della saga atridica all’altezza del primo arcaismo; anzi depone a favore di una storia ormai canonizzata, almeno per quanto concerne Agamennone, Egisto, Clitenneestra, Cassandra, Oreste. E le figlie di Agamennone? In Omero una sola menzione riguarda il pendant femminile del genos, ma in essa risalta proprio l’assenza della figlia più nota. Siamo nel pieno dell’Ambasceria ad Achille, e Agamennone va elencando i doni con cui intende risarcire l’eroe (Iliade 9,I44-I48, cfr.v.286-290):
Tre figlie ho io, nel palazzo ben costruito,/ Crisotemi, Laodice ed Ifianassa: scelga quella che vuole e la porti con sè, senza versare alcun dono,/ alla casa di Peleo; io aggiungerò beni in dote/ numerosissimi, quali nessuno mai diede ad una figlia.
Quanto ad Elettra, lo statuto delle allusioni omeriche non consente di pronunciarsi circa il suo originario profilo di eroina. Che il suo rilievo di protagonista sia acquisizione posteriore parrebbe fuor di dubbio; ma che la sua assenza nell’epos dimostri il carattere recenziore del mito è conclusione impossibile.
Importante è la testimonianza dei Canti ciprii, attribuiti a Stasino di Cipro e dedicati agli antefatti della guerra di Troia, nei quali Ifigenia e Ifanassa costituivano figure distinte- In secondo luogo, è importante l’ampio corpus Hesiodeum, proveniente dal Catalogo delle donne, in esso è descritta la discendenza di Leda, madre di Clitennestra. Il brano costituisce la prima menzione di Ifigenia/Ifemide e di Elettra(v.13-30):
Sposò Agamennone/ la figlia di Tindaro, Climetes tra occhi scuri;/ e lei generò Ifimede belle caviglie nel palazzo/ ed Elettra che, per bellezza rivaleggiava con le dee immortali. Ifimede l’uccisero gli Achei buoni schinieri,/ all’altare di Artemide, la dea brillante/ nel giorno che con la flotta salpavano per Ilio/ a far vendetta della donna Argiva, belle caviglie/ ma era parvenza: e lei, invece, la dea cacciatrice, l’arciera,/ facilmente salvò/ per ultimo, nel suo palazzo, Clitennetra occhi scuri/ generò, sottomessa ad Agamennone, il chiaro Oreste,/ che quando fu uomo fece vendetta di chi gli uccise suo padre,/ e ammazzò sua madre violenta col bronzo spietato.
La testimonianza è preziosa: essa mostra integralmente compiuta la saga atridica, restituisce al matricidio la centralità negatagli da Omero, ed Elettra vi figura quale legittima dramatis persona. Impossibile datare il frammento, in quanto il Catalogo delle donne è un’opera stratificata, composita ed esposta ad integrazioni e aggiustamenti rapsodici.
Qualche conclusione:
Stesicoro, poeta lirico del VI secolo, affronta elementi che poi ritorneranno in Simonide e in Pindaro e che comunque anticipano il trattamento tragico del mito: primo fra tutti l’agnizione fra Oreste e Elettra, realizzata “grazie ad un ricciolo” e il sogno con cui Clitennestra presagisce l’imminente vendetta: e un serpente le parve di vedere, che s’avventava,, il. capo insanguinato:/ e da lui compariva un re Plistenide.
Se oggetto della visione fosse Oreste, Agamennone o entrambi, rimane discutibile; né può essere escluso che l’omen fosse tragicamente ambiguo. Certo è che il sogno indica il ruolo fondamentale di Clitennestra nell’assassinio di Agamennone, sicché si può riconoscere in Stesicoro un’anticipazione considerevole dei successivi temi tragici: ivi compresa, forse, la funzione comprimaria rivestita da Elettra.
Ogni antefatto alle tragedie atridiche “è solo materia grezza” sostiene Wilamowitz; un giudizio forse drastico, ma non immotivato, perché la lunga discendenza degli Atridi è innanzitutto discendenza teatrale, e solo il teatro per quanto ne sappiamo, riconosce ad Elettra dignità di protagonista; per Elettra non è improprio parlare di un’autentica invenzione teatrale. E se le vicende della casata atridica sono un’ovvietà tragica, sostiene Aristotele, è gesto di forte rottura centrare la saga sul versante femminile del genos: un gesto inaugurato da Eschilo con Clitennestra e ripetuto a gloria eterna di Elettra, da Euripide e Sofocle. Per Elettra la triplice caratterizzazione tragica influisce sul carattere complesso e talora contraddittorio delle sue reincarnazioni. Ciò conferma che lo studio di un mito debba essere innanzitutto studio di un mito letterario e cioè studio di una concreta storia testuale. Dal punto di vista letterario, comune ai tre tragici sono le premesse mitiche dell’azione (il delitto di Clitenneestra, l’esilio di Oreste, l’attesa di Elettra) e le sue più canoniche conseguenze, prima di tutto il matricidio, le ambientazioni divergono: se, per l’epica il regno di Agamennone non ben collocabile è comunque non di grande importanza, Eschilo sceglierà Argo, Euripide opterà per un’indistinta Argo-Micene, Sofocle tornerà all’epica Micene. Nelle somiglianze Oreste è un protagonista diffuso al di là delle sue diverse incarnazioni; in quanto ad Elettra spesso viene sfumata la sua fisionomia letteraria sino a farla coincidere con il tipo astratto e universale di un “Edipo al rovescio”.
In Eschilo Elettra è la memoria vivente di ciò che le crudeltà di Clitenneestra ed Egisto hanno prodotto. In Sofocle, questo aspetto è intensificato ma svuotato, proprio per eccesso, di ogni carica parenetica: Elettra è memoria inconsolabile e irriducibile ad ogni sviluppo. Sofocle intensifica i contrasti interni al carattere: l’Elettra eschilea era forte, aspra e decisa; Sofocle la rende ancor più implacabile. Ma l’Elettra eschilea era affettuosa e tenera verso il fratello Oreste; Sofocle ce la presenta ancor più affettuosa, anche più materna che sororale. L’Elettra di Sofocle inizia con l’alba e il Pedagogo introduce Oreste nell’agorà dell’antica Micene. Oreste è un eroe che giunge per trionfare, non per soffrire. In Sofocle l’eroe non assiste all’ingresso in scena di Elettra e ciò garantisce all’eroina una grandezza statuaria e solitaria; e allo stesso effetto mira la sua dolente monodia dell’esordio. Se il dialogo di Oreste e il Pedagogo è segnato dal senso del momento e dell’occasione (v.22-75), Elettra è prigioniera di un tempo immobile (“io non smetterò mai/ i miei canti di lutto, i miei cupi lamenti,/ finchè vedrò le luminose scie/ degli astri, e questa luce che fa il giorno” v.103-106): e l’alba dolorosa dell’eroina si oppone alla promettente luce che sorge su Oreste (v.103-106). E se l’eroe rapidamente si dilegua, la sorella è ferma davanti al palazzo di Clitennestra ed Egisto. Elettra, autonoma eroina, eleva qui al padre una preghiera solitaria. E quando il Coro fa il suo ingresso, un dialogo in apparenza simpatetico non fa che ribadire la singolarità assoluta dell’eroina. Mentre le donne micenee esprimono i più triti topoi consolatori (v.137-143), Elettra rivendica il proprio diritto al delirio ( lasciate che io sia pazza, / così vi prego”, v135) e alla memoria (v145-152). Il rinvio agli esempi mitici di Procne e di Niobe ne eleva il dolore a dimensioni sovraumane; ed è tale condizione, sottolinea il Coro, a istituire incomunicabilità tra la protagonista e i suoi consanguinei: le sorelle Crisotemi e Ifianassa, ma anche Oreste che “ vive felice la sua giovinezza, celata ad ogni dolore”(v.159). Al nome di Oreste il rimprovero di Elettra è duro (v.164-172):
E io sempre lo attendo, qui, instancabile; e senza figli, senza / sposo, mi aggiro, misera, per sempre,/ intrisa del mio pianto, io e la mia sorte/di mali, interminabile.
“Vuole tornare” sempre: “ vuole”, lui;/ ma non si degna d’apparire mai.” Qui non c’è spazio né per una progressiva maturazione dell’eroina, né per una presa di coscienza guidata dal Coro, né per una lenta ma definitiva assimilazione tra i due fratelli: qui l’eroina è saldamente se stessa; qui il Coro invita alla moderazione, non alla vendetta: ed è un invito vano; qui Elettra ed Oreste appaiono lontani, perché il dolore di Elettra appare impareggiabile. Ed è un dolore che nasce sì da una forma di àte, di “accecata disperazione” (v.215-224) ma, come spesso in Sofocle, l’àte è ammessa e rivendicata (221-225). Le orrende infamie cui Elettra è costretta sono crudamente “elencate” ai v.254-281:
Io mi vergogno, donne, se non con tutti/ questi canti di lutto, ai vostri occhi, il mio dolore eccede./Ma una forza violenta mi costringe:/ capitemi, vi prego. Una donna che sia davvero nobile/cosa dovrebbe fare, di fronte alle disgrazie di suo padre?/ Disgrazie che, lo vedo, non finiscono,/ ma crescono più forti, ogni giorno e ogni notte./ Quello che fa mia madre innanzitutto, lei che mi ha generato,/ ha suscitato in me tutto il mio odio. E poi io vivo qui,/ nella mia casa, insieme agli assassini/ di mio padre. Devo obbedire a loro. A loro devo tutto/ ciò che posso ottenere o che non posso./ E immagina che giorni posso vivere, quando vedo che Egisto/ siede sul trono che era di mio padre,/quando lo vedo uscire con i suoi/ abiti addosso, e offrire libagioni/ al focolare dove lo ha ammazzato./ E poi l’ultima infamia, la più grande: / l’assassino nel letto di mio padre, / al fianco di mia madre, maledetta, se madre è il nome giusto/ per la donna che dorme insieme a lui./ Lei è tanto spudorata che osa vivere/ accanto a quell’impuro, e non c’è Erinni/ che possa spaventarla. No, al contrario: lei quasi se la ride dei suoi atti,/ e fa un giorno di festa di quel giorno/ in cui ha ucciso mio padre con l’inganno, / ne fa un giorno di danze, e scanna bestie/ per offrirle agli dei della salvezza.
L’invenzione di un anniversario festeggiato da Clitenneestra aggiunge un tratto di spavalda crudeltà al personaggio che si è creduto, a torto, compreso da Sofocle. Comprensione semmai è quella che Elettra chiede al Coro, e Sofocle al suo pubblico, per un personaggio che non cessa di ammettere il carattere abnorme della sua condotta, e che giungerà a ribaltare, non senza una chiara ripresa testuale, il contenuto della preghiera che l‘Elettra eschilea rivolgeva al padre (“tu fa’ che io sia più onesta (sophronesteran) di mia madre,/ che abbia mano più pura”). Elettra ammette e quasi teorizza nei versi 307-309:
Per chi fa questa vita, amiche mie, né conservarsi onesti/ né nutrire riguardi è più possibile. Chi vive in mezzo ai mali/ non ha altra scelta: dovrà fare il male.
Tale ammissione è emblema di una eccezionalità indiscutibile, praticata in un mondo di valori sovvertiti da una donna orgogliosamente eugenès nobile: una nobiltà che guadagna in contenuto morale ciò che perde in contenuto sociale o strettamente gentilizio, perché essa è innanzitutto eccellenza individuale che distingue l’eroina tanto dai suoi nemici, la madre ed Egisto, quanto dai suoi naturali alleati, Oreste in primis, la cui assenza o lentezza appare, se non colpa, difetto. Perciò, secondo un contrasto dittico. Sofocle affianca ad Elettra la sorella Crisotemi giunta ad invitare l’eroina ad una protesta meno vistosa. La reazione di Elettra è espressione della massima intransigenza. Elettra pratica coscientemente la pazzia, il phronein kakos, unica reazione possibile in un mondo che rifiuta di incarnare i suoi valori; e il suo lutto è sottratto ad ogni dimensione sociale, perché privo dei limiti temporali, “sempre” e “mai” sono qui parole chiave e irrisolvibili in una reintegrazione comunitaria. Elettra manifesta un eroismo antisociale, in quanto esprime una esclusiva devozione a chi è assente, antisociale inoltre per la sua distanza da ogni altro comprimario. E’ questo il privilegio eroico convintamente rivendicato da Elettra. A maggior gloria di Elettra, si impone un ultimo scarto rispetto al modello eschileo: è qui Crisotemi a giocare il ruolo di “obbligata coefora”, in seguito al canonico incubo materno; ed è Elettra, non Oreste, ad interpretare il sogno come omen favorevole.
L’Elettra sofoclea è una tragedia di incontri: incontri attesi e delusi, casuali o deliberati, ingannevoli o autentici, tesi tutti a rimarcare, per contrasto, la centralità della protagonista. All’incontro mancato fra Oreste ed Elettra, nel prologo, fa seguito una triplice sequenza di incontri/ confronti: fra Elettra e il Coro, fra Elettra e Crisotemi e, finalmente fra Elettra e Clitenneestra. Quest’ultimo incontro ha la funzione di confrontare la protagonista con la figura che più rischiosamente le somiglia. Una Clitennestra che festeggia l’assassinio dello sposo, che trama la morte della figlia e che gioirà dinanzi alla morte del figlio, ha poche chances di suscitare simpatie, né lascia intravedere alcun intento di riscatto; anzi ogni attributo di maternità le è negato (“per noi sei una padrona non una madre questo io ti considero” v. 597). Gli argomenti apologetici di Clitennestra che si appella a Dike, contribuendo ad estremizzare la “giustizia” della stessa Elettra, sono canonici a partire dall’ovvio riferimento ad Ifigenia. La replica di Elettra, perfidamente garbata negli esordi, è una demolizione radicale: l’omicidio confessato alla regina rende inutile qualsiasi appello alla giustizia. Ifigenia non c’entra, c’entra invece la “malia di quell’uomo farabutto con cui ora convivi” v.562, perché il sacrificio compiuto da Agamennone era imposto dagli dei e dunque inevitabile; quanto alla lex talionis che Clitennestra teorizza, essa, minaccia Elettra, è un rischioso precedente (“bada che a imporre questa legge agli uomini/ tu non abbia a causarti qualche guaio e pentirtene, in seguito” v.580). La conclusione è una nuova rivendicazione della propria sovvertita, ma perciò eccezionale, moralità. Quando Clitenneestra prega Apollo per la morte di Oreste, l’azione sin qui tutta verbale, cede ad un rapido precipitare degli eventi. Il Pedagogo annuncia la falsa morte di Oreste durante le gare pitiche e l’inganno si protrae nel tempo tragico: esso tende a magnificare Oreste e ad enfatizzare per contrasto la solitudine della protagonista, che dovrà assumersi integralmente l’onere della vendetta; in tal modo Sofocle esalta il divario fra i due comprimari: il dolos, l’inganno di Oreste, giunge al suo apice e fa risaltare per contrasto la coraggiosa anadeia, impudenza di Elettra. Seguono i lamenti di Elettra e, a tutti gli effetti, la prima vittima della menzogna non è Clitennestra ma Elettra. All’eroina che propone a Crisostemi il dovere della vendetta, in assenza di Oreste, non resta che prendere atto del rifiuto della sorella, ma Elettra non desiste (“se allora dovrò compierla io da sola, io con queste mie mani. No, non posso rinunciarvi”). E così l’eroina giunge ad incarnare perfettamente il tipo dell’eroe sofocleo, un individuo che agisce in un terribile vacuum, in un presente che non ha futuro per conforto né passato per guida.
Se proprio si deve fare riferimento al tragico, Elettra attinge ad esso nella rivelazione di Elettra ad Oreste e non il contrario: la sofferenza dell’eroina diviene la cifra attraverso la quale il fratello riconosce i suoi propri mali, e dunque se stesso, nella sorella e, infine, il diritto di lei ad affiancarlo nella vendetta. E tale diritto Elettra sancisce in virtù del suo stesso dolore, di fronte ad un Oreste che persegue, non senza compiacimento, il suo piano di inganno, quando giunge in scena - per recare le ceneri del presunto morto. Dinnanzi al compianto di Elettra sull’urna, il cedimento di Oreste è inevitabile (v.1174-1226). Elettra ha forzato l’eroe che di Elettra sa solo per fama a misurarsi con la realtà delle sofferenze causate in patria dall’assassinio; e se i dolori sono comuni rimane il proposito di vendetta. Solo in apparenza, ora che le necessità dell’azione incalzano, Elettra dovrà cedere il passo a Oreste. Proprio per questo, sull’azione ormai destinata al compimento non può non prolungarsi l’ombra di una sofferenza tanto profonda e radicale.
Elettra ha appena il tempo di una preghiera ad Apollo che ribalta la preghiera della madre, mentre al Coro spetta il compito di commentare l’ingresso dei vendicatori nella reggia. Mentre in casa il matricidio si consuma, Elettra ne commenta lo svolgimento, in un efficace riappropriazione verbale dell’atto (v.1348-1416). In questi versi si configura un dialogo a tre voci: Elettra descrive ciò che sta accadendo, il matricidio, Clitennestra esprime la propria paura e grida chiamando Egisto e il Coro esprime il suo giudizio :-”Città, famiglia disgraziata----" . Tale dialogo a tre voci è l’artificio drammatico che fa di Elettra una compiuta protagonista, anche in una circostanza che dovrebbe logicamente e tradizionalmente escluderla. Proprio l’invito a vibrare un altro colpo, da una parte eleva Elettra a matricida, dall’altra rinvia alla scena dell’uccisione di Agamennone. Le stesse parole del Coro: “ora chi giace sotto terra è vivo/ Il sangue torna indietro: e da chi ha ucciso / esige sangue chi da tempo è morto”( v1417-1421).
A cancellare ogni indugio è il ritmo di un’azione non più arrestabile né rinviabile: Egisto sta arrivando, e le conseguenze del matricidio sono così soverchiate dall’impellenza del tirannicidio, con un’inversione nell’ordine dei delitti che è peculiare della versione sofoclea. Tocca a Elettra, di nuovo sola nella scena, trarre Egisto nell’imboscata. Quando le porte della reggia si spalancano, di fronte ad Egisto appare il cadavere velato di Clitenneestra che egli crede di Oreste: mentre omicida e vittima rientrano in casa, Elettra, ipotesi verosimile, rimane silenziosa in scena; ed è un silenzio sensazionale. Le scarne parole con cui il Coro chiude la tragedia (“seme d’Atreo con quante sofferenze/ ti sei aperto una via alla libertà/ tu che tocchi con questo ultimo slancio, la tua fine” (v1508-1510) siglano la precipitosa consumazione della vendetta. L’atto compiuto da Oreste è davvero “giusto”, o è giusto il dubbio insinuato da Egisto? (perché mi porti in casa e se l’atto è giusto ti serve il buio ed esiti ad uccidermi?). Ed Elettra ha davvero ottenuto la liberazione? Sono domande non eludibili, dinnanzi ad un matricidio e ad un tirannicidio che nei suoi lenti preamboli evidenziano la crudezza dell’atto; un atto che la tragedia non mostra consumato.
Alcuni critici nel meccanismo drammaturgico altro non vedono che una tacita condanna del matricidio: condanna di Oreste in primis, ma anche della complice Elettra. Viene rimarcato il carattere sbrigativamente pratico del matricida Oreste, in contrasto con l’attitudine problematica e tormentata di Elettra; l’inquietante somiglianza che Elettra e Clitennestra manifestano, e che la stessa eroina non manca di ammettere; la condanna della lex talionis, pronunciata dalla stessa Elettra; le crudeltà a cui Oreste e la stessa Elettra si abbandonano durante l’esecuzione della vendetta; infine le spie testuali che instillano il dubbio sulla liceità del matricidio. In conclusione, la tragedia di Elettra, con il suo apparente lieto fine, risiederebbe proprio nella sua incapacità di cogliere la tragicità del matricidio: il silenzio finale altro non sarebbe che severa e solenne condanna. Si può sottolineare però che il silenzio conclusivo come condanna del matricidio fornisce alla tragedia sofoclea certezza etica, togliendo qualsiasi dubbio, sospensione di giudizio. Alcuni eroi come Antigone, Edipo e Aiace sono vittoriosi nella sconfitta. I paradosso di Elettra è che la sua protagonista è, in un certo senso, sconfitta nella sua vittoria: la sua vittoria è la sua tragedia. Colpisce noi lettori e probabilmente il pubblico ateniese il finale silenzio di Elettra, protagonista ben più del pratico Oreste: questo silenzio fa tutt’uno con il silenzio di Sofocle sul senso, sulla sensatezza stessa, della tragedia vissuta.
In sei pagine di Proust possiamo trovare emozioni più varie e complicate che in tutta l’Elettra. Ma nell’Elettra, o nell’Antigone, ci impressiona qualcosa di diverso, forse ancor più impressionante - l’eroismo, la fedeltà.
Queste parole di Virginia Woolf, tratte dal saggio On not knowing Greek (1925), sono parte di un celebrativo elogio che la scrittrice inglese dedica all’Elettra di Sofocle, non senza cogliere la dimensione psichicamente claustrofobica alla quale il poeta costringe il suo personaggio: “la sua Elettra ci sta di fronte come una figura così strettamente legata che può muoversi al massimo di un pollice da questa parte, un pollice da quest’altra. Ogni movimento perciò dovrà dire il massimo”.
Queste considerazioni ci permettono ora di tornare al dramma sofocleo e più precisamente alla nuova edizione pubblicata a fine 2019 dalla Fondazione Lorenzo Valla: Sofocle, Elettra con introduzione e commento di Francis Dunn e testo critico di Liliana Lomiento. Nella ormai sconfinata “selva” critica dedicata al dramma sofocleo non è cosa semplice tracciare un percorso autonomo. Francis Dunn accoglie questa sfida di percorrere un sentiero almeno in parte indipendente. Fin dalle prime righe della sua introduzione Dunn fa emergere con chiarezza la sua idea di Elettra, una protagonista assoluta nel canto come nel recitato, al centro della scena e proprio per questo in grado di essere essa stessa di ostacolo allo sviluppo del plot (L’Elettra legata cui accenna Virginia Woolf, dunque). Per Dunn l’eroina viene collocata dal poeta dentro un terreno di sperimentazione drammaturgica, fino a divenire il problema centrale del dramma. Cosa fare, in altre parole, di un personaggio così unico e così travolgente? Non sarebbe perciò il matricidio – con lo strascico di un dibattito sospeso fra liceità, giustizia e ingiustizia del gesto - a costituire il focus della tragedia, quanto piuttosto l’enormità di una figura scomoda rappresentata lungo il suo calvario emotivo e in grado di offuscare e marginalizzare la storia della vendetta di Oreste. Del resto, viceversa, proprio la vendetta è sia l’obiettivo principale del ritorno del giovane sia l’evento centrale del dramma. Ad evidenziare il ruolo di assoluto privilegio della figura femminile contribuiscono un’ambientazione e una scena - a Micene - rese minimali dall’assenza della tomba di Agamennone e riempite dalla solitudine di un’Elettra costantemente sulla soglia, sospesa fra interno ed esterno, derelitta e malvestita e dedita ad un’esistenza forzatamente frugale che non prevede contatti con il mondo “di fuori” ad esclusione del Coro di impotenti concittadine. L’Elettra di Sofocle, in termini di spazio drammatico, non è da nessuna parte... abita come un mondo morto, che sembra permanente e immutabile. Dunn considera che sotto questo aspetto avviene la dilatazione parossistica della vendetta - e proprio la “funzione-ostacolo” esercitata da Elettra non fa altro che aumentarne il peso. Prima, l’atmosfera avventista che lo spettatore respira fin dal prologo è dilatata dal continuo rinvio del riconoscimento, fino all’episodio della finta urna e della conseguente agnizione; dopo, il compito del vendicatore è tanto più esaltato quanto più questa attesa si è rivelata estenuante, e la sola apparente lontananza dei cospiratori per buona parte del dramma, sottolinea Dunn, conferisce loro - anche sul piano narratologico - uno statuto di dominio in absentia: soltanto loro potranno e sapranno attuare l’azione che tutti attendono fin dallo svelamento del piano di Oreste all’inizio del dramma (v.29). Questa non secondaria centralità dei vendicatori finisce per essere la fonte primaria della spettacolarizzazione delle emozioni di Elettra; della loro importanza è indizio soprattutto la sezione esodica, che non a caso prevede - dopo che si è consumato il matricidio - la dislocazione ai margini dell’assassinio di Egisto (il dramma termina addirittura prima che sia ucciso) senza che la pièce sofoclea preveda angosciate riflessioni o preconizzate diaspore dei protagonisti, presenti invece nel dramma euripideo: la conclusione della tragedia, osserva il Coro sofocleo nell’ultima battuta, ha sancito finalmente una nuova condizione di libertà per il seme di Atreo (v.1508-10). La probabile messa in scena dell’esodo, scrive Dunn, rinforza tale effetto: al termine del dramma i cospiratori, la loro vittima ed Egisto scompaiono nel palazzo mentre Elettra rimane in piedi, trionfante, sulla scena. Così il plot della vendetta risulta secondario a fronte della potente presenza di Elettra. Sofocle non intende problematizzare l’azione violenta di Oreste sul piano religioso o morale, costruisce un finale che fornisca a protagonisti e pubblico un naturale sollievo dopo una sospensione tanto a lungo subita; alla fine del dramma legalità e patrilinearità sono ripristinate e sancite dall’avviarsi di Oreste di nuovo dentro il palazzo, ormai suo. In verità, come osserva Dunn, l’eclissarsi del giovane dietro la facciata della skenè non ci lascia troppo stabilire, fuori da ogni dubbio, dove stia Elettra: rimane sola in scena, con il cadavere di Clitennestra, o rientra nel palazzo seguendo il fratello dando forse segno in questo modo di approvare e assecondare anche la morte di Egisto? La presenza e la valorizzazione di un “secondo polo” (il vendicatore, prima atteso e poi – sia pur brevemente - in azione) nulla toglie all’esperimento sofocleo su cui si insiste giustamente nell’introduzione, ovvero questo continuo misurarsi nella scrittura e nella messa in scena con individui eroici isolati e inefficaci, come Elettra, spostando in tal modo l’interesse dalla azione al carattere.
Una delle questioni da sempre più dibattute rimane la collocazione del dramma entro un arco cronologico plausibile. Un primo indizio: un canto àpò skenès - il lamento di Elettra all’inizio del dramma - innesta fin da subito nella tragedia una tonalità melodrammatica. Siamo di fronte, scrive Dunn, ad un tratto euripideo; il sottile problema è proprio questo: vi è una relativa antecedenza dell’Elettra di Euripide su quella di Sofocle? Dunn fa una scelta coerente, ipotizzando per il dramma una data più o meno successiva al 417 a. C. sulla base di elementi stilistici interni alla produzione del poeta di Colono. Con una giusta cautela, Dunn conclude questa disamina scrivendo che: “probabile - ma non affatto certo - che l’Elettra di Euripide sia stata composta prima di quella di Sofocle”.
A Liana Lomiento si deve la ricchissima Nota al testo. E’ mia intenzione soffermarmi su note importanti riguardo al testo greco, pertanto cercherò la sintesi. Ad esempio al v.144, dove la domanda del Coro ad Elettra, tì moi ton dusphòron èphìe, diventa un efficacissimo “perché desideri soffrire?”, atto a sottolineare la specificità di una condizione psichica che quasi sconfina nell’autolesionismo ma che trova nella memoria dell’assassinio del padre la sua ragione di resistenza. Nella stessa direzione vanno due esempi: al v.964 la scelta di rendere àboulos con “sconsigliato”, un poco desueto; e: “che dici, figliuolo?”, dall’impasto linguistico quasi intraducibile, sospeso nell’incredulità: pos eipas, o pai; pronunciato da Elettra nell’avvio della scena del riconoscimento. Il commento di Dunn mira a fornire l’ampiezza di problemi che un lettore si trova squadernati quando debba affrontare da più angolazioni un dramma attico.
La tragedia classica, come sosteneva Goethe, e come sostengono studiosi moderni quali Vernant e Vidal -Naquet, è fondata su un dilemma insolubile, su un conflitto che non ammette composizione, o, per maggiore chiarezza, su una dialettica senza sintesi: una Dike contro un’altra Dike, un codice etico contro un altro.
Nell’Elettra, apparentemente, non c’è alcun dramma tragico, nessun interrogativo angoscioso sull’uomo e sul suo destino. Il matricidio non è un problema etico che coinvolge uomini e dèi. E’ la conclusione di un odio e di una vendetta a lungo covati ed alimentati, senza tentennamenti, senza ripensamenti e soprattutto senza angosce. Come per le tragedie sofoclee, al centro del dramma vi è un personaggio, che potremmo definire roccioso nella determinatezza delle decisioni e dei sentimenti: Elettra è certamente inflessibile nell’odio verso la madre, verso l’usurpatore del potere paterno, Egisto. “Colpisci due volte” grida al fratello, che ha vibrato il colpo mortale alla madre, Elettra impavida nella sfida a chi detiene iniquamente il potere, determinata e spietata nella sua vendetta. Tale desiderio di vendetta è determinato da vari motivi: l’assassinio del padre Agamennone di cui la madre è responsabile, l’adulterio della madre , il potere del padre usurpato da Egisto, ma anche il declassamento sociale ed economico che ha dovuto subire dopo la morte del padre. Tra tutti questi, quello dominante e sul quale si regge tutta la tragedia è il desiderio di vendicare il padre e, di conseguenza, l’odio per la madre. Il dolore di Elettra è psichico ed è un dolore sconfinato e senza rimedio, vissuto in una disperata solitudine. Ha perduto le uniche persone che amava: il padre e il fratello Oreste; e anche quando quest’ultimo ricompare, vivo, le è ormai quasi estraneo: nel suo inganno nel farsi credere morto dimostra di essere un calcolatore giunto a Micene per brama di potere.
Incolmabile è la distanza tra Elettra ed Oreste: la prima prova odio e desiderio di vendetta, il secondo vendica la morte del padre, ma intende anche riappropriarsi del suo regno. Tale diversità emerge dai versi che Sofocle utilizza per i due fratelli: in metri lirici si esprime Elettra, in trimetri giambici, più vicini alla prosa si esprime Oreste. Odio e dolore sono i tratti dell’eroina che domina la scena dall’inizio alla fine del dramma, o meglio quasi dall’inizio, da quando fuori si odono i suoi lamenti che cessano dopo la morte di Egisto, e Elettra scompare dalla scena. Una volta compiuta la vendetta, il dramma di Elettra ha fine, per così dire, e la protagonista è diventata superflua sulla scena. Appagata dal matricidio e tirannicidio? Sofocle non fa neppure cenno alla sua sorte futura. E’ un finale positivo, non è dato sapersi, la scomparsa di Elettra non indica un suo stato felice o almeno più positivo. La rimozione della causa principale di sofferenza non è neppure un atto conclusivo: il percorso verso un cambiamento o un difficile equilibrio è ancora lungo e tormentato. La conclusione, come spesso accade, è affidata al Coro; il Coro sofocleo rappresenta una sorta di opinione pubblica, non ben codificata, incline a mutare parere sugli eventi rappresentati e, talvolta, è espressione di una ponderata riflessione. La conclusione dell’Elettra è importante ai fini della comprensione della tragedia stessa. Riguarda la saga degli Atridi, una casata tanto importante quanto quasi maledetta. E non è una massima di saggezza da proporre alla collettività, bensì un’ambigua constatazione. I versi finali recitano: “O seme di Atreo, quanti mali hai subito, prima di giungere, faticosamente, a libertà”. E se la libertà fosse veramente un punto d’arrivo, perché non troviamo, come sarebbe ovvio aspettarci, un regolare accusativo preceduto dalla preposizione eis? Perché quell’insolito di’eleutherias? Il genitivo preceduto dalla preposizione dià suggerisce piuttosto un percorso, una ricerca, anziché un punto d’arrivo (il tradizionale moto per luogo anziché moto a luogo). Tale constatazione linguistica -grammaticale muta, a mio avviso, leggermente il senso dei versi conclusivi: “O seme di Atreo dopo quanta sofferenza, lungo il tuo percorso di liberazione, nella tua ricerca di libertà, a fatica sei giunto a compimento, pervenuto al tuo approdo conclusivo, grazie all’impresa attuale”. Come dire: questa impresa rappresenta il culmine, la maturità della vicenda degli Atridi; è l’ineluttabile approdo di un ghenos che ha fondato il suo potere su una sequenza di delitti contro natura. Il matricidio e l’uccisione del consanguineo Egisto ne sono la appropriata conclusione. Il Coro che sino quasi al termine della tragedia ha difeso e condiviso passioni ed azioni di Elettra ed Oreste, sembra aprirsi al dubbio, quasi un voler prendere le distanze dall’orrore di cui è stato testimone.
Possiamo chiederci non ci sono più eroi in questa tragedia? Non ci sono personaggi positivi? In realtà credo che mai la positività sia stata al centro della produzione tragica: nelle tragedie dominano le passioni incarnate da un personaggio o più personaggi; e le passioni trasformano ogni personaggio in eroe. Elettra è certo dominata da passioni distruttive, come lo è Oreste e Clitennestra e con lei Egisto; per altro il desiderio di vendetta di Elettra e, con modalità diverse, di Oreste, è una difesa del ghenos: fa parte delle sue leggi vendicare la morte di un suo appartenente, ancor più se si tratta del padre. Si può pertanto rispondere ad una legittima domanda e sciogliere questo nodo gordiano: anche nell’Elettra vi sono eroi perché vi sono passioni.
Il matricidio diviene nella tragedia una conseguenza inevitabile. Ma quali sono le ragioni che determinano in Elettra un desiderio così intenso di vendetta, cioè desiderare ardentemente la morte della madre? E’ una vendetta commessa per adempiere alla volontà di un dio? Per rendere giustizia al padre ucciso dalla madre? Nessun dio è responsabile di tanto odio da parte di Elettra; il suo desiderio di vendicare la morte del padre è presente, centrale nella psicologia dell’eroina, una psicologia un poco più complessa che subisce frustrazioni quali: una libertà che le è stata sottratta dal dispotico Egisto, le umiliazioni della sua misera condizione e il confronto con una madre aggressiva e che nulla di materno prova verso di lei ed infine il costante confronto con la sorella Crisotemide che serve a mettere in evidenza, per contrasto, il temperamento di Elettra. Potremmo aggiungere l’analisi proposta da Jung che, codificando in termini psicanalitici l’odio verso la madre e l’identificazione col padre, ha elaborato il “complesso di Elettra”, che è il corrispondente femminile del complesso di Edipo. Sinteticamente: il “complesso di Elettra” rappresenterebbe la gelosia verso il padre da parte della figlia femmina, che vede nella madre una rivale e inconsciamente la vorrebbe eliminare. Inconsciamente, inoltre, la figlia invidia il sesso maschile, simbolo del potere, ed accusa nel suo inconscio la madre per non averla generata maschio. Le ragioni di Elettra stanno anche nel comportamento degli usurpatori nel palazzo del padre: Clitennestra ed Egisto hanno tolto ad Elettra ricchezza e potere, l’eredità di figlia del re Agamennone. L’azione del dramma si focalizza, in altre parole, sull’eredità del re Agamennone (e ciò è molto probabile per Oreste) piuttosto che sulla sua morte, sull’operazione politica messa in atto dalla regina e dal suo amante piuttosto che sulla memoria del defunto. L’interpretazione in chiave etica, però, induce a legittimare il matricidio. E’ ovvio che l’Atene democratica non poteva approvare il matricidio, ritenuto un atto sanguinoso e primitivo. Assistiamo quindi, in tutto il dramma, al tentativo, da parte di Sofocle, di distrarre l’attenzione dal matricidio di Clitennestra. Sofocle, passo passo, ne delegittima lo status naturale di madre. E se un’interpretazione del dramma in chiave etica risulta a molti critici poco attendibile, si fa strada una lettura politica, infatti alcuni elementi potrebbero privilegiare tale ipotesi: ad esempio il tirannicidio e la riconquista della libertà. Elettra non è scesa a compromessi con il potere, il suo è anche un anelito di libertà.
Clitennestra appare nel corso della tragedia carica di pathos, ma molto spesso con sentimenti contrastanti e molto intensi. Agamennone costretto dagli dei a sacrificare la figlia per salvare il proprio popolo, sceglie di essere re e non padre. Invita la moglie a recarsi con la figlia in Aulide, dove Ifigenia avrebbe sposato il più valoroso tra i combattenti dei greci, Achille. L’inganno e la morte della figlia determinano in Clitennestra odio e rancore. Agamennone non solo l’aveva tradita ed ingannata, ma le aveva portato via ciò che di più caro è per una madre, la figlia. Clitennestra, che non riesce a perdonare il marito, da vittima si trasforma in colpevole, nel momento in cui, insieme al suo amante Egisto, decide di uccidere Agamennone. La vendetta la spinge a compire un omicidio, ovvero si rende colpevole come il marito.
Si possono cogliere sfumature diverse, indubbiamente. Si potrebbe affermare che il delitto commesso contro Agamennone sia più grave di quello che il re stesso aveva commesso. Il primo, infatti, fu richiesto da una divinità e per uno scopo ben preciso, mentre quello commesso da Clitennestra è stato un delitto determinato dalla vendetta. La vendetta è dominante in Clitennestra, in Elettra e in Oreste: una passione che oscura ogni altro sentimento e annulla ogni dubbio sulla liceità di un comportamento. Clitennestra da vittima diventa colpevole: una metamorfosi non inconsueta, Elettra vittima di un iniquo trattamento da parte della madre ed Egisto prova odio e un desiderio di vendetta che deve essere appagato e lo sarà per intervento di Oreste. Nella tragedia si coglie una struttura circolare del comportamento e dei sentimenti dominanti: il padre uccide la figlia, la madre uccide il marito e i figli uccidono la madre: il filo che lega i personaggi è la vendetta. Ogni personaggio è colpevole e vittima allo stesso tempo.
La problematica del sogno e delle altre manifestazioni inconsce della psiche umana collegate all’atto onirico hanno sempre avuto un posto di grande rilevanza nell’attività sia artistica che speculativa dei Greci. Aristotele sembra intuire la differenza tra sogni e allucinazioni e già Democrito, se sono autentiche le affermazioni a lui attribuite, credeva negli spettri che si avvicinano agli uomini in forma visibile e udibile annunciando il futuro. A giudicare dal gran numero e dall’importanza delle narrazioni di sogni di vario tipo, da Omero, ai tragici, agli storici, gli esempi non mancano di certo, il sogno deve aver giocato un ruolo importante nelle tradizioni, nei costumi e nella vita quotidiana dei Greci, anche se l’ambiguità di fondo del fenomeno onirico non fu mai risolta, per ovvi motivi, in modo radicale. Da queste premesse prende avvio questa analisi sull’incubo di Clitennestra; cercherò di evidenziare quali simboli il pubblico ateniese poteva cogliere nel sogno sofocleo o quali messaggi il poeta cercava di veicolare a partire dalle trasgressioni compiute da Clitennestra.
Indubbiamente l’incubo ha connotazioni simboliche. Nel focolare degli Atridi, Agamennone, tornato in vita, getta il proprio scettro, quello scettro che la moglie, dopo averlo ucciso, ha dato ad Egisto. Nel sogno, dice Sofocle, “ha visto Agamennone risalire alla luce e venire di nuovo a lei: egli ha preso e conficcato nel focolare lo scettro che portava una volta in mano e che adesso tiene Egisto; da questo scettro crebbe un vigoroso arbusto che coprì con la sua ombra tutta la terra di Micene”. L’arbusto è evidentemente Oreste, figlio, insieme con Elettra, di Agamennone e Clitennestra. Il focolare è piantato in terra, nella terra che accoglie i morti e che abitano le potenze profonde, ed è rivolto verso il cielo, asse che attraversa l’universo tra la morte e l’immortalità; è anche il punto d’incontro fra le identità e le alterità. Un baluginare di fiamme, scintille, cenere, e l’odore di legna d’olivo e di offerte votive che sale verso il cielo, agli dei immortali. Il focolare piantato in terra è luogo di identità e di alterità, perché, come sottolinea Vernant, ogni cosa nel pensiero e nella sensibilità dei greci contiene il suo contrario.
Il focolare appartiene all’uomo, ma è custodito dalla donna, che viene da un’altra terra, da un’altra casa, da altra gente: è un’estranea. Per consegnarlo ad Egisto, Clitennestra se ne è appropriata, ha assunto un ruolo maschile, ha subito un’alterazione; il carattere di Egisto, invece, è femminile. E’ un uomo d’interni: nello spazio reale e mentale dei greci di allora l’attività dell’uomo è volta all’esterno della casa, i campi, la guerra. Egisto ottiene tutto da una donna, attraverso il letto. In Mito e pensiero presso i greci Vernant ha inoltre definito Elettra il doppio di Clitennestra, e allo stesso tempo il suo opposto. Clitennestra ed Elettra rappresentano le due forme opposte ed estreme del destino della donna nella società patriarcale, di identificazione o di rivalità con l’uomo, di identità e di alterità rispetto alla linea di trasmissione maschile. Se dovessimo definire l’alterità nello spazio, essa sarebbe un collocarsi altrove, come i morti e gli dei? L’alterità è un dal luogo o dal ruolo? Secondo Vernant se si vuole dire che l’alterità, entro certi limiti, segna un’assenza e, insieme, una presenza, questa possibilità o ipotesi corrisponde certamente al vero; e lo è di sicuro per i morti e gli dei, anche se in maniera assai diversa. La successione di Egisto ottenuta attraverso una donna e risultante da un assassinio, conduce verso un’alterazione del ruolo, verso la femminilità. La vera identità col padre è quella di Elettra, che incarna le ragioni di Agamennone e spinge il fratello Oreste ad uccidere la madre, e a prendere il posto che gli spetta nella tradizione patrilineare. La tradizione implica che il successore e il predecessore siano nell’ambito dell’identità e che la donna si muova nello stesso ambito, sebbene la scelta fra Elettra e Clitennestra sia sempre possibile e quotidiana.
L’ambientazione, qui, è programmaticamente astorica: un cortile, un pozzo, una reggia, senza date né luoghi. Le schiave del prologo formano il Coro che deride l’eroina: Elettra è un “gatto selvatico”, un “demonio”, un’abietta che rimprovera alle donne del popolo la maternità, la sessualità, la fame. Cibo, sesso e maternità riassumono gli anti-valori di Elettra, ossessivamente ribaditi dinanzi ad ogni interlocutore; proprio tale ostinata resistenza al flusso della vita rende Elettra un mostro agli occhi delle donne più mature, un idolo agli occhi dell’unica serva adolescente (“nulla al mondo, vi dico, è più regale”). Nulla è “regale” come l’umiliata figlia del morto. Hofmannsthal mira ad una nobilitas animi indifferente ad ogni concretezza storica. Elettra è pura asocialità o nobiltà ideale, che si esprime nella paradossale sintesi di abiezione - perché nulla distingue Elettra dalle sue serve - e purezza interiore - perché tutto, in tale abiezione, fa di Elettra l’inverso dei valori “borghesi”. Vistosi sono i presupposti ideologici, tipici della cultura decadente: solo in questa prospettiva possiamo affermare che Hofmannsthal ravvivi in modo genuino “l’eroe sofocleo”, cui appartengono per definizione asocialità esteriore e interiore eccellenza. “Sola , tutta sola”: sono le prime parole di Elettra sulla scena. Per l’eroina di Hofmannsthal, in radicale contrasto con quella sofoclea, non si dà spazio al culto o devozione al gènos. Di fronte a Crisotemi che le rivela i minacciosi conciliaboli di Clitennestra ed Egisto, Elettra ribadisce l’identità di sesso e assassinio (“non aprire mai porte, in questa casa!/ Rantolo di sgozzati e fiato mozzo,/ non c’è nient’altro in quelle stanze. Lascia./la porta, dietro a cui s’ode un lamento: / perché non sempre ammazzano qualcuno, / ma talvolta sono anche soli insieme!”). Crisotemi implora pietà, e denuncia in Elettra una forsennata negazione della vita:
Voglio uscire! Non voglio qui dormire/ fino alla morte ogni notte! Voglio anche,/ prima ch’io muoia, vivere! E avere figli/ voglio, prima che il mio corpo avvizzisca.
E quando Crisotemi ribadisce d’esser donna e di volere il destino di una donna, l’identificazione di parto ed omicidio si fa, nelle parole di Elettra, smaccata e offensiva: “essere l’antro in cui s’appaga/ dopo il delitto l’assassino, bestia / che a una bestia peggiore dà piacere……o partoriscono / o uccidono”. Crisotemi implora la sorella di dimenticare, ma la dimenticanza è degna di un animale: “io non so dimenticare, voglio essere presente questa volta! Non come allora”.
Nel successivo confronto con Clitennestra Elettra definisce con lucidità il rapporto che la lega alla madre
...nulla mi fa tanto orrore che quel corpo è l’oscura porta da cui sono strisciata a questa luce. Sono strisciata fuori dalla tomba di mio padre, ho giocato sul patibolo del padre in fasce... Tu mi ha sputato fuori, come il mare, vita, padre, una sorella e un fratello... e di nuovo ci hai inghiottito.
La divorante maternità di Clitennestra assomma in sé l’identità di un gènos, secondo l’equivalenza utero/tomba. Quando Clitennestra cerca di ricordare il suo passato, il passato è oblio e la metamorfosi ha già la meglio. E’ questa la non vita di Clitennestra, guasta come una carogna immonda e perduta nel vuoto che separa le azioni dalle sue conseguenze.
Il sarcasmo di Elettra è destinato a spegnersi quando Crisotemi riferisce una voce diffusa: Oreste è morto: “Quando a lui pensiamo, pensiamo ad un fanciullo ed era un uomo...”, quando Crisotemi protesta “che nulla ci abbiano portato, neppure un ricciolo, un piccolo ricciolo”. Emergono i propositi di Elettra di un’autonoma vendetta: “prima lui o prima lei, non ha importanza” e si fa strada la proposta di una richiesta di complicità a Crisotemi, che rifiuta, e ad Elettra non resta che replicare il suo lamento. E’ a questo punto, quasi inevitabile, che avviene il riconoscimento. Elettra va scavando la terra di fronte alla reggia come un animale e allo straniero che curioso la interpella, ribadisce l’equivalenza di maternità/morte:
...io non sotterro - dissotterro... non diedi la vita e non mi tocca... e se qualcosa il grembo della terra avrà mai dalle mie mani, sarà ciò da cui venni, non qualcosa che uscì da me.
Altro parto non è concesso ad Elettra se non l’uccisione di sua madre. Oreste colpevolmente si finge morto, ma Elettra, secondo la più genuina psicologia sofoclea, è paziente e ha la meglio su Oreste e ogni altro agente; ma se in Sofocle tale superiorità è sancita in nome di un’eroica sopportazione, in Hofmannsthal l’eccellenza della protagonista è anticipata assunzione della morte. E’ morte vissuta e assunta a legge, senza compromessi. Fra i modelli di agnizione Hofmannsthal sceglie un geniale compromesso fra la prolungata incredulità di Elettra antica e gli istintivi trasporti delle Elettre moderne. Qui la reazione è emotiva e immediata, ma si esprime nella forma di un rabbioso dubbio: “Chi sei ? Chi sei tu dunque? Ho paura”. A riconoscimento compiuto, l’eroina potrà confessare ad Oreste il segreto della propria abiezione: Elettra ha rinunciato alla vita in nome di una totale e risoluta devozione al padre morto. Con paradosso solo apparente, tale rivelazione, che ha fatto di Elettra l’antitesi della madre e della donna, ha suscitato fantasmi di maternità mortifera: “…ho sofferto le doglie …non ho messo al mondo nulla”. Elettra è così alektros e insieme madre. E così l’analisi, o autoanalisi è compiuta: essere donna equivale ad uccidere quel padre che è ideale esclusivo; uccidere, per contro, è l’unico modo per ricongiungersi al padre nella femminilità o maternità rovesciata. Elettra assomiglia sì alla madre, ma della madre rifiuta la vita, la sessualità e l’abbandono. Identica al padre nella morte, può somigliare alla madre soltanto nell’assassinio. Il delitto avverrà, ma Elettra potrà solo rimpiangere di non aver dato ad Oreste quella scure che uccise Agamennone, serbata a lungo per lui. Mentre l’azione si consuma, Elettra vive nel senso tragico dell’attesa. La polarità sofoclea dell’azione e della pazienza è formalmente rispettata, anche se invertita nei valori; Elettra preclusa a ogni azione, può solo assistere di lontano alla celebrazione di un rito omicida che è una sorta di ierogamia sanguinosa. La festa finale, l’estrema manifestazione della gioia, quando anche Egisto sarà ucciso, non può che essere una danza sfrenata: “qui accorrete tutti... io porto il peso della gioia... e davanti a voi qui danzo”; una danza che coincide con una morte tanto improvvisa quanto inevitabile: “ tacere, danzare” sono le ultime parole che Elettra pronuncia prima di crollare a terra.
Se si guarda alla vastissima produzione di Hofmannsthal, l’Elettra segnò un momento di sperimentazione e di ricerca nel passaggio dall’opera essenzialmente lirica, all’opera della maturità. Sono questi, per il poeta, anni di ricerca delle leggi del teatro drammatico, di riflessione sui concetti di “azione”, di “tragico”, di “dionisiaco”, nei quali credette di trovare rimedio alle atmosfere psicologiche, sfibrate della letteratura decadente e impressionista della fine secolo. Con la dimensione del tragico e del dionisiaco, si inserisce dunque la riscoperta dell’Elettra di Sofocle. Con notevole sensibilità Hofmannsthal si avvicina al testo di Sofocle, più problematico, per la tematica trattata, offrendo con la sua riscrittura non solo un’opera nuova e indubbiamente moderna, ma anche una raffinata interpretazione della tragedia antica.
Prendiamo in esame proprio l’archetipo sofocleo. Mentre nelle Coefore di Eschilo aveva un ruolo marginale, in Sofocle Elettra è collocata al centro della tragedia, anche grazie a due novità narrative che gli studiosi della tragedia non hanno mancato di sottolineare. La prima consiste nell’ordine tradizionale nella vendetta perpetrata da Oreste che viene invertito. Infatti, diversamente da quanto accade in Eschilo e in Euripide, prima viene uccisa Clitennestra e poi Egisto. La tragedia non si chiude cioè con il matricidio, che aprirebbe idealmente alla continuazione del racconto con l’espiazione finale di Oreste. In altri termini, in Sofocle la vicenda mitica, la vendetta per l’omicidio di Agamennone, sfuma, per così dire, sullo sfondo, mentre risalta in primo piano la sofferenza di Elettra. Un’altra novità sta nel movente della catastrofe. Elettra non sarebbe spinta solo dal desiderio di vendicare l’ingiusta morte di Agamennone, ma anche dall’odio maturato verso Clitennestra in tutti gli anni passati come serva nella casa degli assassini del padre.
L’atmosfera di cupa sofferenza che grava sulla desolazione quotidiana di Elettra muove dunque in Sofocle dal dramma umano personale della giovane figlia più che dalla vicenda mitica, tanto che neppure il compimento della vendetta riesce completamente a dissolverla. Anche dopo la duplice agnizione, tra i due fratelli non si instaura una vera relazione affettiva; Elettra ed Oreste restano estranei l’uno all’altra, uniti solo dalla vendetta: “Uccidilo al più presto - è la richiesta di Elettra al fratello - questo sarà per me il solo riscatto dalle mie lunghe sofferenze”. Eppure, la morte dell’odiato Egisto non appare liberatoria; anzi, come è stato osservato, non ci si può sottrarre all’impressione che la vicenda mitica si sovrapponga alla vicenda interiore di Elettra senza riuscire a riscattarne l’enorme sofferenza, senza ravvisarne la vita affettiva. Nella sua riscrittura, Hofmannsthal riprende gli aspetti problematici, disarmonici che già erano nel testo sofocleo e li accentua, con un linguaggio metaforico e immaginifico di grande impatto emotivo, portandoli alle estreme conseguenze. Innanzitutto elimina dal testo qualsiasi riferimento alla cornice mitica, tagliando il prologo nel quale Oreste esponeva al precettore il piano della vendetta e sottolineando così, ulteriormente, la dimensione tutta umana del dramma. Allo stesso tempo sospende, senza per il momento risolverla, la discussa questione della valutazione “etica” del matricidio. Se Elettra e Oreste siano nobili vendicatori del padre o brutali assassini, è per Hofmannsthal in fondo una questione mal posta, in ogni caso tautologica e che poco coinvolge la sua coscienza artistica e morale. Le parole vendetta e giustizia che ricorrevano infatti nel testo sofocleo e tutti i loro derivati, come vendicare o vendicatore scompaiono totalmente nella riscrittura novecentesca, lasciando posto, nelle visioni deliranti della protagonista, all’immagine ossessiva di una caccia infernale in cui Clitennestra è la preda, incalzata ora dal cacciatore, Oreste, ora dai battitori o dal cane alle sue calcagna, al quale Elettra stessa si paragona. Che cosa resta dunque, nella riscrittura del 1903, dell’Elettra di Sofocle? Forse il dramma tutto umano di un’esistenza sconvolta e devastata dall’odio ingenerato dal dolore e dall’ingiustizia: un odio che, se divora e atterrisce Clitennestra, divora però anche se stesso, straziando il povero corpo di Elettra come un avvoltoio strazia le carni di una carogna in putrefazione. Divorata dall’odio che una sofferenza continuamente rinnovata dalle privazioni e dalle violenze quotidiane alimenta in lei, Elettra sta dunque lentamente morendo. La tragicità della condizione umana di questa Elettra moderna, intuita con notevole sensibilità da Hofmannsthal, è proprio qui, nell’immagine di un Io distrutto dall’odio generato dall’enorme male subito, un odio che finisce per avvolgere in un’unica spirale di violenza e di distruzione vittima e carnefice.
Nell’intreccio di immagini e motivi che concorrono a creare la fattura di questa tragedia emergono alcune singolari corrispondenze disseminate nel testo che suggeriscono una drammatica somiglianza nelle protagoniste femminili, in particolare in Elettra e Clitennestra. Al termine del primo esaltato “sogno di sangue” da cui è scandita la tragedia, Elettra, sentendo il proprio nome, barcolla come un sonnambulo risvegliato bruscamente; ma così è descritta anche Clitennestra nelle parole della stessa Elettra: “tu vai barcollando, e sempre sei come in sogno”. E ancora nel terzo e ultimo sogno di sangue, Elettra immagina l’agonia della madre negli attimi che precedono la morte, paragonandola all’attesa spasmodica e angosciosa del naufrago che si vede sommerso dalle onde: “questo tempo ti è dato, per sentire cosa provi il naufrago, quando il suo vano gridare rode il nero delle nubi e della morte”, salvo proiettare poco dopo su di sé la medesima delirante visione di vittima sacrificale. L’odio dunque ha finito per avvicinare Elettra a Clitennestra, per legare indissolubilmente e tragicamente il destino dell’una al destino dell’altra, come confermano le parole sibilline di Elettra alla madre: “Non so di che mai potrei morire, se non della tua morte”. Proprio la morte finale di Elettra in una danza dionisiaca - l’altra grande novità del testo rispetto al racconto mitico e alla tradizione letteraria – appare a questo punto del tutto coerente con la vicenda umana della protagonista, anzi, la conclusione poeticamente e psicologicamente più persuasiva.
Di quali valori diviene il simbolo, questa Elettra concordemente denigrata e degenerata? Le diverse risposte a tale domanda sembrano costituire l’unica variabile possibile per le riscritture del secondo novecento. Un processo di identificazione e insieme di rifiuto domina “Elettra sul sentiero delle azalee” di Sylvia Plath: considerata la più intensa fra le tante variazioni su imago paterna fornite dall’autrice di Daddy, “una ragazza con il complesso di Elettra” (secondo l’autodefinizione di Plath, proposta nell’edizione critica della poetessa nel 1981). La morte del padre è l’obbligato punto di partenza; ma è una morte che amplifica - nell’apoteosi dell’assente - il rapporto privilegiato con la madre (v.1-10):
Il giorno in cui sei morto io fui nel fango, / fui nel buio ibernacolo in cui api/ striate d’oro e nero si riposano, durante la tempesta, come pietre/ ieratiche e la terra è così dura. E’ stata cosa buona,/ per vent’anni, svernare in questo modo: come se tu non fossi mai esistito, / come se io fossi nata al mondo figlia / di un padre Dio dal ventre di mia madre: / c’erano chiazze di divinità, sopra il suo largo letto. / Niente a che fare con la colpa o simili, quando io mi rinfilavo / di nuovo sotto il cuore di mia madre.
La morte del padre è un indolore descensus ad inferos e insieme un’ascesa paradisiaca: è la via d’accesso alla madre, presso la quale l’Elettra della Plath occupa il posto di un padre smaterializzato in mito (“piccola bambola com’ero, io, vestita d’innocenza, / io dormivo e sognavo del tuo mito, visione per visione. / Non moriva nessuno, nessuno inaridiva su quel palco “ v. 11). E’ un’Elettra inebriata e regressiva, cui spetta il ruolo che tante riscritture novecentesche attribuiscono ad Oreste: perdersi nella madre, misconoscere il padre. Ma “il giorno del risveglio” è nel cimitero di Churchyard Hill, fra i coscritti di una “angusta necropoli” . Sul “sentiero delle azalee”, l’identificazione con il padre si rivela nella sua essenza più cruenta.(v30-33):
il giorno che il tuo flaccido velame bevve il fiato di mia sorella, il mare / piatto s’imporporò come il dannato / che per te ha svolto mia madre, quando tu finalmente sei tornato. / Prendo in prestito i trampoli di un’antica tragedia.
Questi “trampoli” tragici con esplicita evocazione dell’Agamennone lasciano deflagrare tutte le possibili identificazioni mitiche: Agamennone morto fa tutt’uno con la morta Ifigenia, come poco sopra la morte del padre corrispondeva all’estasiata catabasi della figlia; assassina è la madre, ma assassina è la stessa figlia, che identifica la propria nascita con l’uccisione del padre: “al mio primo vagito, uno scorpione/ si è trafitto la testa: brutto segno, / quella notte mia madre ti ha sognato, faccia in giù in mezzo al mare” (v.34-36). Fino alla coerente identificazione del parricidio in un suicidio e alla completa sovrapposizione fra amore per il padre e sua uccisione (“ciò che ci ha uccisi entrambi fu il mio amore”). Al di là delle facili incursioni biografiche, è evidente che l’Elettra della Plath, così dolorosamente parodica, riconosce nell’adesione al mito, un destino: ma solo per rifiutarne il senso univoco, a beneficio di una conflittualità che non consente facili risoluzioni.
Sylvia Plath perde a soli otto anni il padre; la poetessa si configura come una novella Elettra, la cui visita della tomba paterna diviene lo spunto per una poesia di confessione (Electra on Azalea Plath, 1958). Comporre versi offre a Sylvia Plath l’opportunità, se non di elaborare il lutto, almeno di esprimerlo, insieme al rancore provato nei confronti della figura materna e represso nella vita di tutti i giorni (sono infatti conservate le lettere dedicate alla madre colme di affetto). La poetessa ammette di aver trascorso vent’anni ignorando l’accaduto, la morte del padre, addirittura negando la sua esistenza, e paragona questa fase della sua vita a un lungo inverno, che ha avuto termine quando si è “svegliata”. La consapevolezza o presa di coscienza avviene davanti alla lapide: il nome che vi è inciso, le ossa che vi sono conservate sono l’innegabile testimonianza del passaggio del padre sulla terra. Nel Sentiero delle Azalee regna la morte, non vi nasce neanche un fiore. L’unico “surrogato” di vita è costituito dalle piante di plastica poste sulle tombe vicine. La tinta rossa della salvia artificiale evoca il colore dominante nelle tragedie in cui è narrata la vicenda degli Atridi. Sylvia Plath ricorda il rosso della morte di Ifigenia, il rosso dei tappeti srotolati da Clitennestra per il ritorno di Agamennone e, infine, il rosso del sangue nella vasca (“il mare piatto”) in cui il padre di Elettra è stato assassinato. Come Clitennestra, la madre della poetessa fa sogni profetici e ridimensiona il lutto: la morte di Otto Plath è paragonabile a quella di qualsiasi altro uomo. Al contrario, Sylvia non sa affrontare il distacco e attribuisce ciò al suo smisurato amore anche causa della morte, del padre e sua: dopo un tentativo di suicidio fallito (“io sono il fantasma di un suicidio infame”), la poetessa si toglierà la vita, incapace di accettare l’idea di un invecchiamento mentale. La stessa morte considerata dalla Plath un’arte conferma una regressione a quell’amore materno dominante; infilare la testa nel forno aspirando gas per una morte-assopimento evoca in psicanalisi una morte come ritorno alla vita più rassicurante e meno tormentata, una vita intrauterina. Non c’è un Oreste che in qualche modo consoli il suo dolore, così l’Elettra- Plath rivolge il desiderio di morte verso di sé: la “lametta blu che si arrugginisce nella gola” ha la meglio e Sylvia Plath bussa alla porta del padre implorando perdono.
Altrettanto interessante è la poesia Papà che nasce dall’intenzione di Sylvia Plath di esorcizzare la sofferenza patita da un mancato abbraccio con il padre, un padre mai presente nei momenti di bisogno, quando da bambina lo cercava con entusiasmo alla ricerca di attenzioni. E’ un rito di morte -rinascita quello che va delineandosi nella poesia Papà, laddove l’impossibilità di ricongiungersi nella spensieratezza di un sentimento, prevede la cancellazione del passato. Per rafforzare l’idea di questa triste assenza-perdita, che è distanza di un sereno e piacevole colloquio con il padre, Sylvia Plath lo descrive “nera scarpa”, “sacco pieno di Dio”, “ statua orrenda”, “ uomo nero”. Gli aggettivi utilizzati, saturi di violenza, mettono in evidenza ancor più gli effetti di un mancato incontro padre-figlia, ma nello stesso tempo, in una tensione emotiva di odio-amore, fanno risaltare il trasporto di una bambina che aveva pregato per la guarigione del padre, che nel disperato pianto si era tormentata, trascinandosi fino all’età di vent’anni, quando aveva cercato di darsi la morte pur di riunirsi a lui. Tante volte il suo amore di figlia si è risolto in trepidazione e paura, in desiderio negato di un caloroso abbraccio. E’ questo mancato abbraccio che nega a Sylvia Plath ogni ricordo felice; quello che ricorda è soltanto la memoria di “una statua”, inquietante ed enorme, come la statua dei leoni marini a San Francisco.
L’immagine della statua fredda e gelida evoca l’assenza paterna di sentimenti, eppure di questo padre-statua sente il bisogno di conoscere le origini, perché di lui sa soltanto che è nato in Polonia, dove il tedesco era la lingua ufficiale. Ora sa che è “l’uomo in nero” (il riferimento è all’anima) ad averla fatta a pezzi, lasciandole in eredità uno stato di alienazione e tanta rabbia, una rabbia che a 20 anni la spinse a tentare il suicidio, però sempre, in ambivalenza emotiva, per riunirsi a lui. Un padre terribile che “con un morso il cuore mi fende”. Lo ha amato a tal punto che, anche quando i medici hanno salvato Sylvia Plath dal suicidio, la poetessa non è più stata la stessa. Infatti, anche se la “tirarono via dal sacco” le mancava una figura maschile con cui confrontarsi e in cui ritrovare un equilibrio mai raggiunto. Papà si chiude in tono epico: fiera di aver razionalizzato tutte le sue paure e insicurezze, avendo maturato una coscienza che le consente di distinguere il bene dal male, essendosi ritrovata nella superiorità della sua coscienza che l’apparenta al Cristo che salva e redime, Sylvia Plath è in grado di perdonare e, diretta al padre, lo invita a “star giù”, perché ha “finito” con lui per sempre. Ha esorcizzato il dolore e non ha più necessità di biasimarlo per la sua assenza genitoriale. L’amore per il padre nell’Elettra sofoclea ha generato odio, un odio che ha consumato nella sofferenza l’eroina, In Sylvia Plath odio e amore in una esplosione di sofferenza psichica convivono e, invece della vendetta, Sylvia Plath con la poesia rimuove il dolore per la perdita di un padre assente anche quando era vivo.
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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