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Fedra: un mito, una donna, un'amante passionale

di Maria Barchiesi

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La scelta della tragedia e di Fedra amante passionale cantata da Euripide in ben due tragedie, da Seneca, da Racine e D'Annunzio, oggetto di varie rappresentazioni teatrali mi è stata suggerita e quasi “imposta” dalla visione della nostra epoca che Silvia Vegetti Finzi definisce “spassionata”. Cito:

Le passioni, che hanno costituito per secoli il fulcro dell'affermazione di sé e un nesso potente tra l'individuo, i rapporti privati e la vita pubblica, sembrano aver esaurito la loro funzione. Le scelte avvengono più per calcolo della convenienza che per un impeto appassionato, come se la fonte delle emozioni si fosse inaridita e nessuno credesse più alla possibilità di mutare l'esistente. La retorica delle passioni risulta ormai inadeguata a descrivere le vicende della nostra vita e i gesti plateali con cui si esprimono si addicono  meglio al teatro che alla realtà (Storia delle Passioni, Introduzione)

Vi è, nelle passioni, una componente istintuale; ciò che chiede il soggetto passionale, in tal caso Fedra, è che vengano riconosciute le sue istanze, per questo ha bisogno dell'altro, con il quale instaurare una situazione comunicativa, dove la posta in gioco è il riconoscimento: Fedra nella sua passione amorosa questo chiede a Ippolito. Ma il dialogo della passione ha una caratteristica che lo contraddistingue: presume sempre, oltre ai due interlocutori, la presenza di un terzo che nella tragedia coincide con il coro: esso esprime la consapevolezza del limite sul quale si staglia l'eccesso passionale, rivelando così la sua carica eversiva e trasgressiva. Se Aristotele parla di “catarsi”, di purificazione dai furori passionali, significa che vi è in essi qualcosa di impuro, empio che deve essere riportato nello spazio della razionalità. Così intese, le passioni testimoniano un'estraneità del soggetto passionale alla dimensione del nomos e del logos, di un pathos che ha smarrito il senso ma che lo può ritrovare nella funzione stessa del patire qual è la morte di Fedra, una morte che sia testimoniata, visibile agli altri, ma non perchè vi sia dipendenza dagli altri. Il soggetto passionale, e non di meno Fedra, può agire, in quanto in un modo o nell'altro, le sue azioni si ripercuoteranno sugli altri: la morte di Fedra su Ippolito.

 

Fedra: la sua genealogia

La letteratura greca ha fornito nei millenni alla nostra cultura i prototipi dell’universale umano, le figure e le storie che dicono le nostre storie: Fedra e la sua storia fa parte di queste figure. Il mito di Fedra (phaidra: splendente, luminosa, nell’originale greco) è stato raccontato e rielaborato infinite volte nella storia della cultura occidentale, e in ambito treatrale. Fedra è una donna dai suoi stessi natali a vivere una lacerazione profonda tra legge e desiderio: è figlia di Minosse, saggio e giusto re di Creta, e di Pasifae, la regina che accoppiandosi con un toro bianco genera il Minotauro. L’insana passione di Fedra trova motivazioni nel suo doloroso passato, nella altrettanto insana passione della madre Pasifae. Pausania ci informa che Pasifae è anche un appellativo (epiklesis) di Selene, venerata in coppia con Helios nel santuario oracolare di Ino presso la città laconica di Talame.

Ci sono diverse versioni del mito al centro del quale sta la madre di Fedra: per legittimare il suo diritto al trono, Minosse consacrò un altare in onore di Poseidone a cui chiese di inviargli un animale da offrirgli in sacrificio. Immediatamente dopo, dalle onde del mare emerse un meraviglioso toro dal pelo di un candore abbagliante, che nuotò fino a riva. Minosse rimase talmente colpito dalla bellezza dell’animale, che non ebbe cuore di ucciderlo e lo mandò al pascolo, decise di sacrificare al suo posto un altro esemplare. Ciò dispiacque a Poseidone che si vendicò in tal modo: fece sì che Pasifae fosse molto attratta dallo splendido animale, a tal punto di innamorarsene follemente e bruciare di passione che venne appagata con un espediente di Dedalo, con il quale la regina si confidò. Dedalo costruì, infatti, per lei la sagoma di una giovenca entro cui sistemarsi ed assecondare l’insana passione. Il frutto di quel rapporto fu una mostruosa creatura con corpo umano e testa di toro: il Minotauro. Invece di uccidere quella mostruosa creatura, Minosse consultò un oracolo e gli fu risposto di farsi costruire a Cnosso, da Dedalo, un nascondiglio per il Minotauro: così fu costruito il labirinto.

Secondo Pausania il mito dell’accoppiamento della regina con il toro si riferisce al matrimonio rituale tra il Sole e la Luna e più precisamente tra il Re e la Sacerdotessa Luna. Queste nozze si celebravano sotto una quercia, ma non in pubblico; il Re portava una maschera di toro, mentre la sacerdotessa indossava corne bovine. A Cnosso si celebravano gare di tauromachia e vi era una mandria di animali sacri, tra cui tori bianchi sacri alla Dea Luna e Pasifae era un appellativo della Dea-Luna, come lo era della Madre Terra.

Un mito racconta che Dafne inseguita da Apollo fu trasportata a Creta dalla Madre Terra dove divenne Pasifae. Pasifae era dunque l’incarnazione della Dea Luna che, attraverso la sua sacerdotessa, ogni anno si accoppiava con il Re, secondo un rituale di epoca matriarcale legato al culto della Madre Terra, un culto però violentemente osteggiato in una società patriarcale; in quel mito e in quel rito, conosciuto con il nome di “ieros gamos”, la società cretese non volle vedere il simbolismo celato, e cioè il “matrimonio sacro” tra il  principio femminile e quello maschile, preferendo tacciarlo come “insana follia”. Da questa follia fu generato il Minotauro e per lui costruito il labirinto. Il mostro del labirinto sarà sconfitto da Teseo con l’aiuto determinante di Arianna, sorella di Fedra e perdutamente innamorata dell’eroe ateniese. Teseo, in un impeto di ingratitudine, abbandonerà Arianna nell’isola di Nasso e porterà con sé la sorella di Arianna, Fedra.

Fedra si colloca in un’atmosfera mitica –sacrale, e a questa fonte bisogna tornare per una sua esaustiva conoscenza. Le sue radici ancestrali si rivolgono alla discendenza mostruosa, a sua madre Pasifae unitasi per passione con un toro e da cui nacque il Minotauro, e quindi al suo stretto rapporto col labirinto cretese e con i riti ierogamici ad esso legati, suggeriti dalla madre Pasifae ma anche dalla sorella Arianna. Il “filo di Arianna” della genealogia labirintica viene a convergere con una sessualità rituale che mette a nudo la propria natura sacrificale. Il destino di Pasifae e di Arianna compone un humus familiare, di cui Fedra, la sventurata figlia di Creta, è erede e variante. Il suo giungere come terza in questa genealogia dominata dalle passioni femminili, se da un lato ribadisce l’ineluttabilità arcaica delle colpe mitiche, dall’altro ne manifesta la vera natura, trasformando Fedra, la “spendente”, nella rivelazione cui alludono anche i nomi di Pasifae e di Arianna, uno splendore da collegarsi all’uso rituale del fuoco, e prima ancora allo splendore cruento del sangue. E’ questa fosca luce a promanare da Fedra, luminosa ed oscura contemporaneamente.

La discendenza cretese di Fedra non è priva di risvolti psicologici, ma innanzitutto la dobbiamo ricollocare in quel magma delle sue origini. Fedra rientra pienamente nella sfera del deinos, in greco il tremendo che è per ciò stesso meraviglioso, il meraviglioso che è per ciò stesso tremendo. Dietro di lei possiamo riconoscere i riti arcaici di accoppiamento sacro, di ierogamia, il cui culmine era l’uccisione sacrificale di uno o di entrambi gli amanti, con l’eventuale appendice del figlio divino. Tale accoppiamento va ricondotto all’accoppiata cosmica – divina di Cielo e Terra, espressa con una serie di varianti: da una parte il sole, la luce, il dio uranico Zeus; dall’altra i mortali, il mare, l’oltretomba, divinità femminili e ctonie come Demetra. All’elemento cosmico religioso del mare è associata Afrodite, la dea nata dal mare, e che del mare riproduce l’instabilità imprevedibile, la fecondità capace di tramutarsi in qualunque momento in tempesta. Esso è la massa liquida su cui Afrodite fu generata dallo sperma dei genitali tagliati di Urano, e la sua superficie infinita non fa che espandere la componente umida legata al sesso, al sangue, alle bevande alcooliche che propiziavano il sacrificio collettivo, come avviene con Dioniso. Eros evocato nei riti cosmici proveniva da Zeus e ciò sta a significare che è il dio stesso del Cielo ad intervenire nel funzionamento del kosmos; e sarà Zeus, padre del padre di Fedra, a venire invocato da Fedra stessa. Nelle danze labirintiche e sacrificali emerge un richiamo a Fetonte e, di conseguenza al crollo di tutta la mitologia solare ravvisabile nella discendenza materna della splendente Fedra; la caduta di Fetonte ed il Sole che tramonta con le sue significazioni funebri coincidono con l’accoppiamento sacro di Zeus con Rhea (Terra). Attraverso le onde del mare da cui è nata Afrodite, la genealogia cretese di Fedra si compie.

E’ necessario rileggere le Metamorfosi di Ovidio per l’intera ricostruzione genealogica di Fedra:

Deposto lo scettro solenne, proprio il padre e signore degli dei assume l’aspetto di un toro... il suo aspetto è quale la neve non calpestata da orme di greve passo... Nulla di minaccioso ha l’aspetto, né lo sguardo incute paura: l’ espressione è foriera di pace. La figlia di Agenore si stupisce ch’esso sia così prosperoso, che non minacci nessun assalto; ma sulle prime, essa esita a toccarlo, nonostante la di lui mitezza. Ma poi gli si accosta e a quella testa così bianca offre fiori. Ne gioisce l’amante, e nell’attesa che giunga la sperata voluttà, alle mani di lei porge baci: a stento ormai, a stento differisce il resto. E ora si scapriccia e balza sull’erba verde, or distende il niveo fianco sulla sabbia bionda; e a poco a poco, al cessar del ritegno, ora offre il petto da palpare alla fanciullesca mano, ora le corna da avvincere con nuove corone.

L’aspetto erotico è ben evidente in questa descrizione di Ovidio di Europa e della sua unione con il toro. Dopo aver raggiunto Creta con il toro e avere partorito tre figli in una notte sola: Minosse, Sarpedonte e Radamanto, Zeus la privilegia con tre doni: Talos, l’automa di bronzo che difendeva Creta da ogni attacco, il cane che non poteva mancare nessuna preda e lo spiedo da caccia che non falliva nessun bersaglio; poi la fa sposare con il re di Creta, Asterione. Il mito di Europa si prolunga e si altera nella storia dei figli. La vicenda più famosa è quella di Minosse cui si lega la storia di Pasifae, figlia del Sole, che per vendicarsi dei tradimenti del marito si congiunge ad un toro con l’aiuto di Dedalo, da cui nasce il Minotauro che sarà ucciso da Teseo grazie all’aiuto di Arianna.

Certamente le due figure di Europa e di Pasifae sono legate fino a rasentare il doppione mitologico. In tal senso il mito di Europa, che adombra le prime colonizzazioni dall’Asia minore verso le terre continentali, può essere inteso come una cosmogonia, un mito che unisce terra e mare e cielo, continenti e popoli di sangue diverso che si incontrano. Le figure muliebri di questi miti non vivono mai solitarie: sono rami di una famiglia ed è necessario risalire all’indietro e in avanti. Nell’ebbrezza della traversata marina in groppa al toro bianco, Europa cela in sé, come potenze ancora inavvertite, i destini delle sue nipoti pazze d’amore, Fedra e Arianna, impiccatesi per vergogna e disperazione. E fra le radici celesti di questo albero genealogico, troviamo l’errare della giovenca pazza, l’antenata di Io, che a sua volta include l’immaginario di un’altra giovenca pazza, madre di Fedra e Arianna: Pasifae, anche lei impiccatasi. Alla sregolatezza del desiderio femminile rappresentato da Pasifae, fa da contraltare la storia di Europa come esempio di equilibrio fra natura e cultura, tra maschile e femminile, amore corrisposto e felice. Il mito D’Europa è divenuto l’allegoria dell’amore che vince ogni ostacolo, esempio nei secoli di exemplum voluptatis, cioè allegoria dell’amore e dei suoi piaceri. 

 

Fedra nella tragedia di Seneca

Il monologo di Fedra inizia con una lunga interrogativa, che appare suddivisa in due parti: l’apostrofe all’amata patria lontana, quindi l’interrogazione vera propria, anch’essa dall’andamento piuttosto ampio come la precedente invocazione a Creta. Alla vastità della patria lontana, le cui innumerevoli navi solcano i mari tutti i mari fino a terra assira, Fedra contrappone il senso di una forte costrizione che riguarda lei, donna data in sposa ad una casa odiata e ad un uomo che considera nemico. Significative sono le parole che Fedra usa per definire la propria infelice condizione: obsidem, hostique nuptam (v. 89,90), con termini tratti dal linguaggio militare.

Successivamente Fedra spiega una delle ragioni della sua infelicità e il senso di quel sostantivo hostis riferito al marito: lo sposo è lontano e come al solito non è fedele. Sapiente è l’uso che Seneca riesce a fare della terminologia di parentela; Fedra definisce infatti il marito con tre termini: coniux (v. 91), Theseus (v. 92) e Hippolyto pater ( v. 98), tutti portatori di una diversa valenza specifica semantica: se con il primo termine ella introduce generalmente la figura del coniuge, poi mediante il nome proprio specifica, con leggera sfumatura dispregiativa, la singolarità del comportamento, di quel marito così infedele come solo Teseo potrebbe esserlo. La perifrasi Hippolyti pater serve per evidenziare di contro la castità del figlio.

C’è un altro dolore più grande di quello infertole dalla infedeltà del marito, che grava sull’animo dell’infelice. Il dolor viene subito connotato come malum; la crescente intensità di questo malum è ben evidenziata dal paragone col vapore che fuoriesce dal cratere dell’Etna. Il male che l’ha invasa le fa trascurare i lavori domestici, primo fra tutti quello, fondamentale per il modello femminile ideale, del filare la lana, e non le fa più provar piacere nel compimento dei doveri religiosi attribuiti alle donne. Altro è ciò che darebbe gioia a Fedra che sente l’aspirazione ad un modello che non è quello matrimoniale ideale, bensì quello tipicamente maschile della caccia; evidentemente questa disposizione non è naturale, bensì provocata da un dolor negativamente connotato come malum. La connotazione negativa di questo dolore dipende certamente dal fatto che esso provoca in Fedra il desiderio di spezzare il modello femminile ideale per vivere una vita dedita alla caccia, attività tipicamente maschile. La carica negativa di queste sensazioni viene riconosciuta da Fedra che, prendendo posizione contro il male che l’ha assalita, si rivolge al proprio animo, chiedendogli le ragioni di tanta follia. Si può forse cogliere un’introspezione in questa indagine da parte di Fedra che indaga sul proprio stato d’animo come colei che guidata oppure no si muove verso il proprio io come in psicanalisi? Fedra mediante l’apostrofe al proprio animo, tenta di proiettare tale desiderio al di fuori di se stessa, come a volerne prendere le distanze, giudicandolo inoltre negativamente come conseguenza del furor.

La risposta alle concitate domande rivolte al proprio animo Fedra non può trovarla che in se stessa, o meglio nella fatale eredità materna. L’esplicito riferimento all’amore, mediante l’accostamento alla caccia, rende ancor più evidente che la passione di Fedra è rivolta verso il figliastro. Fedra riconosce questa fatalità che grava dunque sul suo amor e, sottolineando l’affinità tra la sua passione e quella provata dalla madre Pasifae per il toro riconduce tale fatalità ad una sorta di maledizione ereditaria. L’amore di Pasifae, pur nefasto, fu tuttavia più felice di quello di Fedra, poiché la madre vide in qualche modo ricambiati i propri sentimenti da quel mostruoso amante, mentre la passione della figlia non potrà essere ricambiata, è senza speranza. Anzi mi sembra che, nonostante il giustificato paragone con la madre, l’aspetto disumano a tal punto si ascriva più a Ippolito che al toro.

Il tema della fatalità permette inizialmente a Fedra di sfuggire alla responsabilità, successivamente la protagonista si rivelerà più libera nella colpa rispetto alla madre. La nutrice stabilisce una sorta di misfatti tra Fedra e Pasifae; la colpa della figlia, tuttavia, è più grave rispetto a quella commessa dalla madre, in quanto, mentre il monstrum di Pasifae può essere ricondotto al fato, il nefas di Fedra si ascrive ad un precisa responsabilità e colpa: la fatalità come per Edipo assume un ruolo importante nella vicenda della madre, mentre per Fedra nulla è determinato realmente dal fato. Secondo la nutrice, se Fedra non è disposta a reprimere il suo amor, lo deve comunque fare sulla base di una repressione che viene dall’esterno, quella dei suoi avi, in mezzo ai quali non è possibile nascondere un misfatto tanto grande. La passione amorosa viene connotata, anche nelle parole della nutrice come un nefas; se già Fedra ha definito l’amore da lei provato come nefas, la nutrice con le sue parole stigmatizza questo nefas mai compiuto dalle popolazioni più barbariche.

Si configura implicitamente nelle parole di Fedra  il più terribile dei misfatti: l’incesto. L’unione di Fedra con Ippolito potrebbe realmente essere considerata incesto, anzi forse il più grave degli incesti, in base alla generazione e riproduzione, secondo le quali una donna che ha rapporti con due uomini può accogliere nel suo grembo il seme di entrambi e generare quindi una prole confusa, mista. In particolare riguardo con l’incesto di Fedra i due semi, quello del marito legittimo e quello dell’amante, si combinerebbero in qualche modo fra loro, solo che questa volta si tratterebbe del seme del padre che si combina con quello del figlio in una unione davvero incredibile. E' da considerarsi la tragedia di Fedra, la tragedia dell’incesto per eccellenza e questo perché dell’incesto essa prefigura la forma nella sua essenza: quella in cui l’assolutamente identico si somma all’altro assolutamente identico, il padre con il figlio. Se Fedra potesse consumare la passione che la tortura, nel suo corpo il corto circuito della consanguinità si realizzerebbe nel modo più perfetto possibile (Bettini).

Alla coscienza di Fedra incline ad esercitare la ragione, si contrappone una forza ostile, il furor che l’ha invasa e che la spinge a seguire la strada peggiore. Chiara è la consapevolezza che accompagna Fedra nel peccato; ella, infatti, definisce sciens il suo animus, ma tale consapevolezza non può aiutarla a seguire la strada della virtù. Il dissidio interiore di cui è vittima viene simboleggiato dalla metafora del marinaio, che invano tenta di salvare la nave destinata ad essere travolta dai flutti avversi. La vittoria del furor sulla ratio, già prospettata come inevitabile, viene proclamata al v. 184: quid ratio possit? Vicit ac regnat furor.

La morte viene concepita da Fedra come l’unica via di fuga dalla passione, ella può vivere unicamente nella passione o nella morte: l’amor da lei provato, infatti, non può essere domato, soltanto vinto per mezzo di un atto estremo; Fedra fa riferimento al suicidio ed è una decisione irrevocabile.

 

Il Furor di Fedra

Il furor impossessatosi di Fedra presenta una sintomatologia dettagliata: prima di tutto sul volto, poi sugli arti che scuote in diverse direzioni in movimenti esagitati e l’incedere è fortemente variato dalla follia: procede con passo vacillante, a stento riesce a sostenere la testa sul collo che cede e, quando desidera riposare, dimentica il sonno e passa la notte tra i lamenti; in generale Fedra vuole e disvuole e, insofferente di se stessa cambia continuamente atteggiamento. Non si cura più del cibo e della salute e, altra fondamentale conseguenza della follia, sembra aver perso tutta la splendente bellezza di prima: i passi tremanti e agitati e privi di grazia, le guance irrigate da un pianto continuo che scioglie la loro morbida bellezza come “neve colpita da tepida pioggia”.

Seneca in modo efficace descrive Fedra nel motivo dei capelli che vorrebbe sciolti sulle spalle e, in capelli raccolti, l’autore latino riproduce il conflitto caccia /amore, vita selvaggia/vita civile, per questo Fedra che vorrebbe penetrare una sfera a lei estranea, la solitudine silvestre, è presentata nell’instabilità; sciogliere i capelli equivale a trasformarsi in Amazzone, raccoglierli significa rammentarsi della dignità. Fedra che prende tra le mani la faretra e l’asta tessalica, in conclusione diviene tale e quale una amazzone al fine di un primo avvicinamento ad Ippolito e adottare uno stile di vita assimilabile al suo nella convinzione di entrare nella sfera di vita condotta dall’amato. L’identificazione con l’amazzone permette evidentemente a Fedra, nella sua immaginazione, di realizzare un primo avvicinamento ad Ippolito, in quanto Antiope è l’unica donna che sia mai stata da lui amata, ma soprattutto in quanto le consente di adottare il medesimo stile di vita adottato da Ippolito.

Vi è però un’altra motivazione per cui Fedra fa uno specifico riferimento ad Antiope: l’identificazione con l’amazzone che abita le regioni remote, che muove guerra all’Attica alla testa di una schiera di donne guerriere, è funzionale al tentativo di assunzione di un modello di femminilità alternativo, che possa consentire maggiore libertà in materia di comportamenti sessuali. Le amazzoni, infatti rappresentano, nell’immaginario greco, un modello di femminilità estraneo, esotico, che sfugge al controllo della civiltà patriarcale.

 

La Confessione

La scena della confessione è centrale nell’economia del dramma. Fedra tenta di far capire il suo amore ad Ippolito e senza la volontà di ingannarlo, né tanto meno usa l’astuzia e l’ipocrisia; mi sembra invece che Fedra, nel tentativo di svelare ad Ippolito un amore coperto dal più temibile dei tabù, quello dell’incesto, si serva di una modalità d’espressione necessariamente ambigua, indiretta, dal momento che l’espressione diretta è resa impossibile dall’esistenza del divieto. Da parte di Fedra non vi è tentativo di seduzione; il suo comportamento e le sue parole dipendono dalla disperata necessità di confessare ad Ippolito un amore tremendo, come unica via per aver salva la vita. Se la Fedra ovidiana utilizza la strategia seduttiva, in Seneca Fedra tenta di svelare l’essenza più nascosta e profonda del proprio essere, che coincide con l’ostinato, incestuoso amore per il figliastro; il livello dell’apparire e dell’essere in Fedra giungono a coincidere. La parola di Fedra non è menzognera, è sofferta. Si può solo cogliere nella confessione e nella sua lacerazione interiore qualcosa di dolcemente attraente e allusivo; in tal senso, vi un’eco della Fedra ovidiana, facilmente l’erotismo ovidiano cede il passo in Seneca a triste pieghe di una dolorosa e lacerante vicenda esistenziale. Non appena rinviene tra le braccia di Ippolito, Fedra, smarrita, si chiede l’identità di colui che l’ha risvegliata a tanto dolore ed esprime il rammarico di essere tornata in sé dopo la dolcezza dell’oblio:

quis me dolori reddit atque aestus graves reponit animo?
Quam bene excideram mihi! ( 589 590)

Questi versi dimostrano quanto reale sia lo stato di sofferenza della protagonista e quanto preferirebbe, alla confessione amorosa, uno stato di dimenticanza di sé e del furore che l’ha invasa. Ippolito la invita a confidargli i suoi tormenti ed è a questo punto che una parola del giovane fa scattare il conflitto sulla relazione, destinato a condurre al drammatico svelamento finale della verità.

Il conflitto fa inizialmente perno sui termini che indicano la relazione e la definiscono. Ippolito infatti esorta Fedra a parlargli dell’angoscia che la assilla, ma lo fa rivolgendosi a lei con un termine che non può che esasperare la già sconvolta condizione psichica di lei: egli la chiama infatti mater (v608). Proprio questo appellativo che rappresenta nella sua drammatica semplicità l’ostacolo primo alla realizzazione del vagheggiato rapporto amoroso con Ippolito, porta al culmine l’affanno di Fedra facendo scattare l’irreversibile dichiarazione d’amore. Fedra dà inizio alla sua dichiarazione cercando di suggerire ad Ippolito, attraverso i termini che definiscono la relazione, la possibilità di un rapporto diverso tra loro. La protagonista dapprima propone al giovane, attraverso il termine soror, un rapporto paritario, quale appunto tra fratello e sorella; in tal modo il loro rapporto secondo Fedra non è più a livello complementare, ma simmetrico.

Successivamente, attraverso il termine famula, suggerisce un rapporto significativamente esterno alla famiglia, non più paritario, bensì subordinato, in cui a lei spetta di occupare la posizione di inferiorità sociale rispetto ad Ippolito; con il termine famula non evoca solo una sudditanza o rispetto, ma anche e soprattutto la possibilità di una relazione amorosa. Viene da Seneca proposto il servitium amoris tipico dei poeti elegiaci. La condizione di inferiorità consente in realtà a Fedra di lanciare al figliastro una dichiarazione di carattere apertamente incestuoso.

Ippolito che dimostra di non comprendere i messaggi di Fedra, si impegna ad occuparsi dei figli di Teseo e Fedra e a prendere per lei il posto del marito lontano. A queste parole la sua angoscia aumenta a tal punto da portarla a sottrarsi al dialogo con Ippolito. Dopo il silenzio, Fedra in preda alla passione prega per ben due volte il figliastro, che solo a questo punto sembra vagamente intendere lo stato d’animo della matrigna, stato che solo ora definisce malum. Fedra inizialmente paragona il volto di Teseo giovane a quello del figlio, ma questa ambigua operazione contenutistica poi svela la tensione amorosa non rivolta a Teseo bensì al figlio, la superiorità del figlio rispetto al padre. Fedra si inginocchia supplice ai piedi di Ippolito, pertanto nella tragedia diventa supplex e culmina col definirsi liberamente amans, donna innamorata.

Ippolito a tale “nefandezza”, così definisce tale passione,  trova inadeguata la punizione divina. Rifiutata da Ippolito, Fedra è amans/amens: amante folle. Ippolito si può rivolgere solo con violenza e disprezzo, collegando la sua passione incestuosa alla lunga serie di crimini compiuti dalle appartenenti al genere femminile, comprese la madre Pasifae. Fedra si dichiara felice di morire per mano di Ippolito che, in preda all’ira vede in lei la vittima sacrificale da immolare a Diana per ottenere la purificazione dal male. Fedra  stessa desidera la morte non solo per una sorta di congiungimento con l’uomo follemente amato, anche perché ciò le permetterebbe di salvare il proprio pudore. Ippolito, resosi conto che così Fedra avrebbe ottenuto, in un certo modo, ciò che voleva, la lascia allontanarsi. La nutrice prende personalmente l’iniziativa di accusare Ippolito di stupro verso la regina e sempre la nutrice mette al corrente Teseo della volontà della moglie di uccidersi. Teseo non capisce le motivazioni, ma poi le parole di Fedra si fanno menzognere, Teseo decide di punire Ippolito. Fedra, con ancora nella mano la spada di Ippolito, entra in scena, per la finale rivelazione della verità, dopo la morte del giovane, seguita alla maledizione di Teseo; Fedra dà inizio all’ultimo monologo pronunciato all’interno del dramma con una triplice anafora del pronome di prima persona me, prendendo quindi su di sé l’intera responsabilità degli avvenimenti, senza cercare scuse né attenuanti di sorta. All’assunzione di responsabilità personale di quanto avvenuto segue però immediata, durissima, l’accusa contro Teseo, il padre inflessibile, il cui ritorno ha causato la morte di Ippolito. Due sono nelle sue parole le colpe imputate a Teseo, che lo rendono ugualmente funesto ai suoi: l’amore o l’odio nei confronti delle spose e l'aver decretato con il suo potere la morte del figlio. E’ con questi sentimenti estremi che Teseo manda in rovina, sovvertendone l’ordine, la propria casa. Alla fine di questa catena di atroci perversioni familiari, malignità e furori, Fedra si rivolge ad Ippolito, come se potesse vedere il volto del giovane e guardare i suoi occhi martoriati:

Hippolyte, tales intuor  vulus tuos
Talesque feci?.........(vv. 1168-1169)

In queste parole è contenuta tutta la desolazione di chi è costretto ad assistere passivamente ad uno spettacolo orrendo, con la consapevolezza però di averlo indirettamente provocato con il proprio comportamento; l’assunzione di responsabilità da parte di Fedra è completa, ma dalle accuse rivolte a Teseo capiamo che la colpa è, in qualche modo condivisa, e che non ricade unicamente su di lei adultera e incestuosa. Ella non riesce a capacitarsi dello strazio compiuto sul bel giovane e si chiede quale mostro mai può averlo perpetrato. Attonita, sconvolta, Fedra rivolge quindi una serie di domande all’uomo amato, come per convincersi della sua morte. A questo punto, il dolore sembra assumere le forme di un delirio folle: Fedra, infatti, invita Ippolito a rimanere ancora per un po’ e ad ascoltare le sue parole, parole che il giovane può udire perché, questa volta, non sono turpi. Fedra, infatti, ha intenzione di conficcarsi la spada nel petto, liberando così se stessa, contemporaneamente, dalla vita e dalla colpa. Prima del suicidio, impellente, però, è la necessità di stabilire attraverso le parole un ultimo contatto con quell’uomo così ardentemente desiderato, l’amore per il quale ha alla fine rovinato entrambi. Devastante, invincibile è la passione di Fedra: ella, come in vita si era dichiarata disposta a seguire Ippolito attraverso i luoghi impervi sede della caccia, afferma ora la volontà di continuare a seguirlo, anche nella morte, lungo le paludi e i fiumi del Tartaro. Degna di nota è la affermazione di Fedra ad indicare un amore che persiste, dopo la piena travolgente del furor, anche nel momento della  razionale, obiettiva assunzione di responsabilità e che continua, come prima, ad essere folle, sfrenata, amens.

Prima di compiere il suicidio la regina offre al defunto la propria capigliatura, il gesto, a mio parere, è espressione della volontà di stabilire con l’uomo amato un contatto che, almeno oltre la vita, possa essere puro e pacifico. Anche nella morte unico desiderio di Fedra è congiungere il proprio destino a quello di Ippolito. La morte è comunque invocata dalla protagonista della tragedia come unico sollievo di un amore colpevole e decoro estremo di un pudore ferito. Prima di compiere il suicidio, Fedra non solo ammette la sua parte di colpa nell’uccisione di Ippolito di aver architettato cioè una menzogna (falsa memoravi, mentita finxi) ai suoi danni, ma riconosce anche di aver concepito la passione incestuosa in uno stato di alterazione della mente (ipsa demens, pectore insano); la follia dunque sembra passata e ha lasciato il posto a una calma, lucida capacità di analisi degli eventi che prelude al suicidio. Il discorso di Fedra si rivolge nuovamente a Teseo il quale, nonostante fosse pater e anzi proprio in qualità di pater, ha punito colpe inesistenti, è destinato a rimanere come tremenda accusa nella mente tanto dello spettatore/lettore quanto di Teseo stesso che ne rimarrà profondamente scosso; le parole di Fedra servono anche a mettere in maggior risalto, contro la brutalità e la mancanza di giudizio del padre, la purezza e l’innocenza del figlio. Fedra in un ultimo delirante contatto con l'amato, invita quindi Ippolito a riprendersi la sua vera natura, la purezza e la castità così brutalmente dilaniate, prima di conficcare la giusta spada nel suo empio petto, rendendo il sangue da lei versato come sacrificio dovuto ad un eroe innocente.

 

L'amore di Fedra di Sarah Kane

E' una lotta feroce contro l'oblio, l'atto creativo di Sarah Kane, una disperata odissea alla ricerca non di confini invalicabili, non di conoscenze negate, ma dell'innocenza, della purezza primitiva, condivise da tutta l'umanità, perchè coincidono con lo stato in cui ognuno di noi perde purezza ed innocenza, dopo che la madre ci lascia cadere nel mondo, non più al sicuro come nel suo grembo. E non può infatti essere un caso la presenza dell'invocazione “mamma!” nei momenti più coinvolgenti e delicati del dramma L'amore di Fedra, una riscrittura del mito di Fedra, commissionata dal Gate Theatre di Londra all'interno di un progetto di riscritture mitologiche.

Mamma, la cosa materna, il principio di ogni vita, di ogni essere umano, quindi l'origine, poiché là il mito di Fedra sembra condurci: all'inizio del tutto, a quell'attimo che ci divide per sempre dal tutto, compreso il nulla che ci è dato di vivere. L'invocazione alla madre sembra configurarsi come richiesta di un momento di verità, una possibilità di salvezza, in una dimensione totalmente laica. E' proprio la figlia di Fedra, Strofe, personaggio inventato, a pronunciarla. Pronuncia “mamma” quando Ippolito l'accusa di essersi unita a Teseo, ed è forse una modalità linguisticamente diversa di rientrare laddove colpa non esiste, poiché ancora puri:

Ippolito: non le ho detto proprio che te lo sei scopato la prima notte di nozze, ma visto che è partito il giorno dopo
Strofe: “Mamma”

E la pronuncia un attimo prima di morire, dopo essere stata uccisa da Teseo, perché colpevole di aver difeso Ippolito, di aver urlato l'innocenza. Le parole: innocente e mamma, come elementi confinanti e simbiotici evocano il ritorno ad un luogo pacifico, un luogo senza colpa, la “cosa materna”, che nel mito di Fedra però senza colpa, come la sua stirpe, non è. La parola madre sembra quindi il punto verso cui tendere e che poi viene negato, e proprio perché non lo è, sembra luogo da cui allontanarsi, poiché comporta un'eredità colpevole. Pertanto se è la figlia ad invocare la madre, Fedra, non solo biologicamente, ma anche concettualmente, si può affermare che la cosa materna, è atemporalmente l'inizio, il principio (Fedra come la Madre di tutte le madri), però è proprio la sposa di Teseo a negare la sua natura materna. Sarah Kane, in tal senso, riprende perfettamente la Fedra di Seneca, nella quale non vi è dubbio, non vi è timore di perdere la purezza.

In Seneca:

Ippolito: confida il tuo dolore, madre, alle mie orecchie.
Fedra: Madre? Oh no, è un termine troppo solenne: ai nostri sentimenti va bene un termine più modesto.

Nella rappresentazione di Sarah Kane:

Ippolito : Dai, Mamma, non ci arrivi?
Fedra : Non mi chiamare così!

Fedra, in Seneca, così nella Kane, nega la sua natura di madre, la nega nella storia di questo suo presente, perché ostacolo al compimento del suo desiderio. Nella Fedra di S. Kane la passione emerge in tutta la sua potenza:

Ippolito: ...Una bella famiglia. L'unica famiglia reale veramente amata dal suo popolo. Ti fa sentire vecchia? ...ora mi odi?
Fedra: perché vuoi che ti odi?
Ippolito: non voglio. Ma mi odierai. Alla fine.
Fedra: mai
Ippolito: tutti mi odiano
Fedra: io no.

Vi è un legame violento e profondo, che Fedra ha con il suo essere madre e amante allo stesso tempo; decide di accettare questa lotta, accetta la follia ed infine la morte. Non c'è silenzio nella Fedra della Kane, come non c'era nella Fedra di Seneca: l'amante vince sulla madre. Come in Seneca è Fedra stessa, fin da subito, a pronunciare il nome, senza timore ed ogni silenzio sarebbe inutile, così nella rappresentazione della Kane Fedra è già oltre il silenzio, è già totalmente e coscientemente dominata dal desiderio. Lo ha già accettato, lo ha già detto a sé, quindi lo ha reso vero ed inconfutabile. Un dato di fatto. Nell'inevitabilità della passione amorosa è contenuta la verità del desiderio stesso, e a questo non può fuggire, anzi lo affronta facendosi carico di ogni conseguenza.

Fedra: ...ma un amore  smanioso mi costringe al male. La mia anima, consapevole di correre verso  la sua rovina, cerca invano di tornare a più sani propositi... La passione ha vinto e mi domina, un dio possente è padrone di tutto il mio essere.

L'amante trionfa, Fedra si sente donna che ama con passione. Sarah Kane nonostante l'alterazione dei passaggi drammatici del testo sembra nella rappresentazione evocare l'essenza dell'antico mito. Come si svolge, come accade? Restituire un senso di ineludibilità, di fatalità, che nel corso dei secoli era stato omesso, è il primo elemento che emerge in modo nitido. Fedra è obbligata ad amare Ippolito e questo è elemento comune con Seneca:

Fedra: la morte è decisa, solo il modo è in discussione...

Il gesto drammaturgico della Kane sembra questo: ristabilire un contatto diretto con il mondo emotivo portandolo alle estreme conseguenze, costringendolo a farsi divorare da una passione totale. I personaggi all'inizio del suo dramma vivono un'indolente e oziosa mediocrità, una rigida sterilità, sembra un mondo refrattario all'emozione, e quindi alla vita stessa, al futuro. Solo Fedra, nella sua terribile verità, si fa carico dell'unico cuore emotivo della tragedia, laddove tutto è fermo e quasi in attesa solo della morte. Se non ci fosse Fedra tutto potrebbe continuare nella propria indefinitezza, aspettando la fine della tragedia, come del mondo.

Ippolito ne incarna profondamente il senso: se nella tradizione del mito egli è un puro, un candido vergine non attaccabile dall'amore, nella rappresentazione della Kane è un depresso, arreso alla nullità, refrattario all'emozione, anche nel sesso, o meglio come vedremo, dedito a numerosi rapporti sessuali con  maschi e femmine, ma nulla lo emoziona. Se duemila anni prima l'hybris di Ippolito si configura come sfrontata e fredda rinuncia all'amore, per la Kane è la rinuncia al sentimento che lo caratterizza ed anche il sesso, pur praticato, in realtà non lo coinvolge, non lascia segni su di lui. Con la passione di Fedra esplicitamente dichiarata, la sua hybris diventa il rifiuto di tale passione, di tale amore. Non pensa all'ingiuria subita, all'offesa di cui è vittima: Fedra lo accusa di averla violentata. Ippolito rimane scioccato, sente per la prima volta la vita nella sua forza e passione, poiché non hai provato nulla di così intenso, si sente colpevole e decide di costituirsi, di arrendersi, di lasciarsi morire.

Ippolito: Sei matta? E' morta e l'ha fatto per me. Sono finito.
Strofe nega
Ippolito: ormai sono finito cazzo.
Strofe: ti aiuterò a nasconderti.
Ippolito: mi amava veramente.
Strofe: non l'hai fatto
Ippolito: dio l'abbia in gloria.
Strofe: dove vai?
Ippolito: mi costituisco.

E' un ribaltamento di notevole potenza, ma è la scena finale a darci in modo vivido il senso della tragedia del mito. Tutti sono presenti sulla scena, che dalla dimensione privata della reggia, si è spostata nella piazza, all'esterno, nel cuore della polis, di fronte ai cittadini accorsi al tragico evento, per il funerale o forse per la fine stessa della tragedia. C'è il corpo di Fedra che si erge sullo sfondo come la colpa che macchia tutti i personaggi, senza distinzione: vittima e carnefice allo stesso tempo. C'è Teseo, chiuso nella sua rabbia, cieca e ottusa; c'è Ippolito, pronto a morire, torturato e ferocemente colpito, dal popolo, dal padre. E' lo stesso Teseo a vendicarsi: a dare la morte. C'è Strofe, che tenta un'ultima difesa di Ippolito, invano. Viene prima violentata e poi uccisa dallo stesso Teseo, che non accettando la verità, la sua colpa, non può che punire anch'essa, soffocare per sempre quell'unica voce che restituisce il vero alle cose. La  colpa è incarnata dall'ottuso Teseo.

Teseo: mi spiace. Non sapevo che eri tu. Perdonami non lo sapevo.
Teseo si uccide.

Questa è la terribile ed efficacissima novità della Kane. Teseo, non perdonato dallo stesso Ippolito o sconvolto anche di fronte alla visione della morte di Fedra, che si uccide davanti ai suoi occhi (come nella Fedra di Seneca), non può che soccombere della sua stessa colpa, di ciò che egli stesso ha provocato, con la sua vita di uomo infedele e per non aver creduto all'amore di Fedra che tutto ha distrutto. All'inizio è Fedra a descrivere come vuota la sua unione con Teseo. Ed è forse questo vuoto a spingere Fedra a cercare l'amore altrove? O per le sue origini sarebbe stato comunque così? E quindi è Teseo in tale prospettiva iniziale descritta da Fedra ad essere il vero colpevole? Forse. Per questo si uccide, per essere responsabile di un non amore e di una visione del mondo senza empatia. Fedra questo cerca e Ippolito nel suo ripiegare su un'esistenza plasmata dall'indifferenza evoca la necessità di un'esistenza più piena.

Fedra: anche tu hai una vita.
Ippolito: no. Io riempio le giornate. Aspetto.
Fedra: cosa ?
Ippolito: non so che succeda qualcosa.

Fedra ed Ippolito sono stadi di una stessa direzione. Fedra è il dopo, la scoperta della passione, del desiderio che brucia ma nello stesso tempo vivifica. Ippolito è il prima: è la sterilità di un tempo senza passione e senza desiderio, impermeabile, per dir così, al senso, ad un motivo che possa dare significato ed affermare la vita. Ippolito cerca di ricongiungersi con la vita e le parole finali mentre aspetta la morte, guardando gli avvoltoi in cielo, sono rivelatrici:

Ippolito: avvoltoi (riesce a sorridere) ce ne volevano di più di momenti così. Muore.

 

Sarah Kane e Albert Camus

Sarah Kane opera pertanto una riscrittura della Fedra senecana. E' importante evidenziare non solo le affinità, anche le posizioni antitetiche dei due drammaturghi: Sarah Kane vive e scrive secondo un  romanticismo che è posto all'estremità dello stoicismo senecano. Dunque non stupisce che, oltre le vicinanze, traggano poi conclusioni contrapposte. In particolare per quanto riguarda l'opera di Sarah Kane, mi sembra doveroso tener presente il forte legame tematico con l'esistenzialismo di Albert Camus. Più che di riprese testuali, abbiamo qui il caso di una coincidenza di strutture narrative tra Lo Straniero e Phaedra's Love dove ovviamente Ippolito incarna un più cinico e disincantato Meursault. L'ambientazione è quella di una famiglia reale, una famiglia amata-odiata dal proprio popolo, che ricorda la situazione inglese. Si tratta di una famiglia disfunzionale, implosa, che si regge su un equilibrio precario. E' solo questione di tempo prima che la falsa armonia venga rivelata con tutte le sue conseguenze. Il dramma, cioè, è già avvenuto: ciò che manca è la rivelazione. Ciò che accade in scena è la conseguenza di qualcosa che è già accaduto, e non può accadere diversamente: la predestinazione in questo caso diventa una naturale conseguenza dell'etica, per così dire, inflessibile di Ippolito e delle origini materne di Fedra; a tal punto che la battuta finale di Ippolito sarà appunto: ce ne volevano di più di momenti così.

Pronunciata questa frase sorridendo, dopo essere stato dilaniato anche dalla folla inferocita: ecco la catarsi di cui si sente il bisogno. La violenza che per la Kane non può essere omessa, è in arrivo fin dalla prima scena, e scagliarsi contro Ippolito è scagliarsi contro Meursault, contro chi ha compreso il non senso, l'assurdità dell'esistenza, ma ne rimane invischiato e si sottrae al proprio ruolo svuotandolo di significato.

Nella prima scena viene presentato Ippolito, personaggio che conosciamo, e un personaggio nuovo: la depressione. Ippolito è depresso, questa è la diagnosi del dottore. Il tema dell'apatia ricorre nel teatro in-yer-face. Il primo cambiamento riguarda l'originale castità  di Ippolito. In questa rappresentazione, come già in parte evidenziato, Ippolito non è più casto, e anzi il sesso è tra i suoi svaghi più frequenti. Si tratta tuttavia di un sesso vuoto, meccanico, arido. La castità intesa come non-partecipazione non è scomparsa, è traslata sul piano emotivo: Ippolito ha tantissimi rapporti sessuali con uomini e donne, è desiderato da tutti malgrado il suo aspetto, come afferma lui stesso, più per ciò che rappresenta, eppure è come se non ne avesse nessuno. In effetti, l'investimento emotivo sembra mancargli costantemente, e la sua apatia ricorda quella attribuita da Camus a Meursault (Marie con la stessa sua indifferenza gli chiede di sposarla e Meursault risponde che per lui è lo stesso, e che se proprio lei ci tiene possono farlo, ma il discorso cade, così come è cominciato). La sua depressione tiene Ippolito a distanza, e tuttavia è più lucido di ogni altro personaggio. E', la depressione, un sintomo. Non vengono fornite dalla Kane spiegazioni esatte sulle origini di questa depressione, e tuttavia dalle parole di Ippolito, possiamo attribuirle un “valore” esistenziale. Fedra ama Ippolito, lo ama a dispetto di tutto, soprattutto a dispetto del fatto che lui non ricambia, né desidera essere amato, né fa nulla per essere amato, anzi; tuttavia l'amore non è razionale, spiega Fedra, e brucia dentro. L'impegno di Sarah Kane consiste nel trasformare una descrizione di un sentimento, uno stato emotivo, in un'immagine, esemplificare con un'immagine di estrema importanza narrativa, lo stato mentale di Fedra. Si tratta di un amore viscerale, che ci riporta al giudizio di Roland Barthes, il quale propone l'accostamento tra ciò che prova un innamorato e un prigioniero di Dachau.

L'amore di Fedra le brucia dentro, e successivamente anche fuori: la sua pira funeraria è il luogo dove tutto finisce, dove tutto si consuma, letteralmente, e finalmente: è la catarsi attraverso l'esplosione della violenza, il finale a cui Sarah Kane intende giungere fin dall'inizio. Fedra riesce ad ottenere un rapporto fisico con Ippolito, e si illude di aver fatto breccia nel suo cuore. Tuttavia, per Ippolito quello non è altro che uno dei tanti rapporti sessuali che intrattiene quotidianamente e la sua spaventosa indifferenza è ciò che colpisce Fedra. Dopo aver compiuto un atto quasi incestuoso, rischioso, riprovevole, è al punto di partenza: non c'è modo per lei di essere ricambiata, di ricevere l'amore di Ippolito, che sembra non amare nulla e nessuno. Fedra si uccide ma prima lo accusa di stupro. Sul piano emotivo Ippolito, che non è totalmente apatico (si accenna infatti ad una sua relazione precedente, unica cosa in grado di provocare in lui una reazione), rimane segnato dalla morte di Fedra, che ha contribuito a provocare. Soprattutto è ciò, una reazione a ciò che è successo a causa della sua apatia, a scuoterlo: da lì in poi cambia tutto. Ippolito sembra desiderare la conclusione, che arriverà, come una sorta di vendetta postuma di Fedra, anche se, e ciò mi sembra essenziale, è improprio il termine vendetta. Fedra infatti continua ad amare Ippolito, anche uccidendosi a causa sua.

La fenomenologia amorosa per la Kane è molto più complessa e legata a questioni di identità e relazioni di potere. I personaggi si definiscono in base al rapporto che hanno con l'altro. Ippolito, negando la reciprocità, nega l'identità di Fedra, le fa una violenza: non è strana l'accusa di stupro, sebbene si tratti di un tipo di violenza inusuale, una violenza quasi raffinata (a causa di un rapporto sessuale non accompagnato né prima né dopo dal sentimento). Soprattutto all'amore è legata la consapevolezza che lo stesso non possa essere vissuto in maniera totalizzante, come un modo attraverso il quale esaurire se stessi, e che dunque non sia affatto – anzi- slegato dalla violenza: verso se stessi o verso gli altri, pertanto, per le dette ragioni, questo amore si associa alla indifferenza. Ciò cui arriva Fedra, impiccandosi per amore, per l'impossibilità di avere l'amore, è quell'onestà inflessibile, quell'etica che esige tutto o niente, romantica, com'è stata pensata dalla Kane, in un certo senso, ma feroce nella sua esasperazione. E' la consapevolezza che assale Fedra, che una vita non possa essere vissuta nel modo detto e ciò la esaspera, in realtà coincide con la stessa visione di Ippolito. Lo capiamo dall'accenno al suo amore perduto, perduto per sempre: è stato quello l'evento scatenante a ridurlo in questo stato di camusiana indifferenza verso il mondo circostante. E se Meursault non è ancora completo, non risponde cioè alla visione esistenziale del proprio autore, che verrà espressa successivamente nel “Mito di Sisifo”, nel tratteggiare quel Sisifo che dobbiamo immaginare felice a spingere il proprio masso, perché basta questo a riempire il cuore di un uomo, viceversa questo Ippolito è un modello positivo: un Meursault consapevole, che si spiega ciò che prova.

L'importanza nella vicinanza della Kane a Camus sta nella reversibilità che è per lei un concetto chiave: lo è perchè ammette la redenzione. Si tratta di una redenzione laica, umana, intesa come guarigione dall'apatia, dalla depressione iniziale ed esistenziale. E' infatti un lieto fine, almeno dal punto di vista di Ippolito, il banchetto di oscenità che conclude quest'opera: Ippolito sorride mentre pronuncia le fatidiche parole, e la folla inferocita sembra assumere tratti carnevaleschi e festanti, espressione di un rovesciamento dell'ordine sociale. E' Teseo ad essere detentore dell'ordine e giustiziere-carnefice come nelle versioni precedenti della tragedia. Ippolito è colpevole come lo è Meursault, non tanto dell'atto in sé-stupro-non stupro,  quanto di aver rifiutato di sottomettersi. L'offerta di Fedra, la fellatio che pratica ad Ippolito, viene infatti accettata, e tuttavia privata di importanza, nonostante sia una offerta di Fedra in quanto donna-amante. La riscrittura postmoderna di Sarah Kane ripercorre, mezzo secolo dopo, il percorso di Albert Camus. Racconta la stessa storia: la storia di chi non prova nessun senso di appartenenza a questo mondo; prevalgono indifferenza, apatia, depressione e incapacità di dare un senso all'esistenza, che non è mai vita.

 

Bibliografia:

  • Fedra di Seneca: traduzione da Les Belles Lettres
  • Il sistema della comunicazione nella Fedra di Seneca di E. Calabrese
  • Storia delle Passioni di Silvia Vegetti Finzi
  • Metamorfosi di Ovidio di Lucia Alabardi
  • Lecteur des oeuvres de l'Antiquité di D. Lanza
  • Il tiranno e il suo pubblico di D. Lanza
  • La disciplina dell'emozione di D. Lanza
  • Patologie del potere - Studi sulla tragedia di Seneca di P.Mantovanelli
  • Luminosa. Genealogia di Fedra di N. Fusini
  • Sarah Kane e il teatro degli estremi di G. Sannders
  • Lo Straniero di Albert Camus dall'edizione francese Gallimard

 

Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.

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