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L’intento di questo lavoro è quello di poter esprimere compiutamente le istanze dello scrittore e della scrittura, che sottragga al vuoto e al silenzio e che riesca a rischiarare una qualche verità intorno alla poesia di Guido Gozzano.
Parto dall’aggettivo “crepuscolare”, coniato per un articolo apparso sulla “Stampa” di Torino, da Antonio Borgese nel 1910 e riferendosi alla scrittura di Marino Moretti, Carlo Chiaves e Fausto Maria Martini, sollevava il problema di un fare letterario che rinunciava alla tradizione aulica, per proclamare una mediocritas incapace di accogliere le trasformazioni di un presente vivacissimo, al quale si opponeva la vita della provincia italiana nostalgicamente cantata nei suoi aspetti minori e più semplici. Le immagini che colmano i testi dei crepuscolari, tutti collocabili fra il 1905 e il 1915, fra i quali vengono compresi quelli di Guido Gozzano, Sergio Corazzini, Corrado Govoni, Enrico Thovez, Silvio Novaro, visualizzano un’ingiallita fotografia dell’età giolittiana: non vi scorgiamo la città mondana, con i suoi riti, ma la sincerità deprivata di ogni mitologema e cerimoniale eccentrico.
Si può individuare una crisi: dall’esattezza degli oggetti, con la ricerca di un’ostentata semplicità, alla piena consapevolezza che il mondo di Carducci, di Pascoli e dello stesso D’Annunzio è ormai consumato; si indugia invece in una vanitas vanitatum del presente. E’ necessario trovare un tono appropriato per, in qualche modo, esprimerlo poeticamente. Un tono, non una vera scuola poetica o una avanguardia con manifesti e parole d’ordine, questo è il Crepuscolarismo, nella sua marcatamente manifesta esigenza di testimoniare una condizione di interiorità stanca e consunta, che, ciascuno diversamente ma con medesimi intenti e posizioni, questi poeti- morituri, malati, gravati dal fardello della vita – si ostinano a raccontare liricamente.
Il Risorgimento è ormai da collocarsi in un passato alquanto lontano; ogni alto ideale si è scontrato con la difficoltà ad operare; non c’è posto per altri poeti con alte aspirazioni. La risposta più originale è la rinuncia. La vita non si può che osservarla. Forse, recuperare le parole per descriverla equivale ad incamminarsi su una via per viverla, in qualche modo. Il progresso non conferisce un significato ulteriore dell’esistenza; la storia delude; l’irrazionale insegna la direzione verso un riparo, non nuovo del resto, mentre la contraddizione travolge l’esasperazione di una stagione che appare inconcludente. Nella provvisorietà, quel che ci si arrischia a misurare è un’apparenza di autenticità del sentimento, o qualcosa che pur si approssimi ad essa, e quel che conviene cantare rimane il quotidiano. L’Eden della poesia crepuscolare è in una tranquillità appagata dalle piccole cose , dalla forza della semplicità: genera vergogna e suscita pudore anche “sentirsi” e “dirsi” poeti.
Nonostante la tristezza e l’estenuazione a questa poesia si deve pur concedere lo statuto di avvertimento: è centrale quanto Anceschi scriveva nel 1961:
La poetica crepuscolare segna un momento dello sviluppo della poetica del Novecento. Ne fu l’inizio. Ne propose certe istituzioni. Ne suggerì una tematica. Senza di essa, tutto un aspetto fondamentale della civiltà poetica del Novecento si fa incomprensibile e irrelato.
Ed è indubitabile che il Crepuscolarismo porti con sé il proprio recente passato, quello pre e postunitario, nelle sue forme arbitrarie e non prive di ambiguità.
Del resto porta con sé quel male di vivere a partire dall’inizio del nuovo secolo e che si trasforma, talvolta, in afflizione, talvolta, nel fastidio e più spesso nel rifiuto deciso del poeta-vate, della volontà del magistero letterario. Dalla poetica di Gozzano e Moretti ebbe inizio quella trasposizione oggettiva di disagio psicologico che si spinse a farsi testimonianza di una condizione epocale ed esistenziale determinata.
Innegabilmente, Guido Gozzano non si sottrae a quanto argomentato sinora e appare anti-dannunziano, anti-romantico, anti-classico, nello stesso tempo distante da un’espressione realmente quotidiana della quotidianità, diventa artificioso e quanto più la sua poesia è anti-preziosa tanto dissimula la lingua d’uso. Egli è crepuscolare, la sua appartenenza alla classe borghese e il suo cantare, da quella dimensione sociale e intellettuale, culmina in un’emblematica e profonda consapevolezza della precarietà dei valori della borghesia ed anche della loro sublimazione. La insuperabile condizione borghese non può affermarsi accolta placidamente quanto piuttosto contestata amaramente. Gozzano comunica una precisa idea, che è già una dichiarazione poetica: l’impossibilità che arte sia dannazione e martirio. Gozzano presenta una tristezza profonda ma placida, con un tono quasi scherzoso, perché non ha alcun motivo di gioia, ma conserva quasi a sua insaputa l’abitudine a sorridere di tutto.
Molta critica ritiene che Gozzano abbia superato in gran parte le poetiche del Simbolismo e Decadentismo e si posizioni nel Crepuscolarismo in modo assai originale, con un sarcasmo umoristico. Non si può rinvenire nelle sue poesie un puro umorismo, né un sarcasmo completo, ma più appropriatamente una tensione al sarcasmo umoristico.
La fine Ottocento e primo Novecento opera come uno sconvolgimento percettivo che agisce sul vocabolario della lirica e del pensiero contemporaneo: Gozzano canta a suo modo il mondo nel quale vive e ove osserva l’azione degli altri uomini e racconta tale mondo con un personalissimo breviario di estetica; in questa transizione verso il Novecento le inquietudini si avvertono già nell’accumulazione degli oggetti, nella ricerca di qualcosa di autentico, benchè misero e brutto (aggettivo che si può anche attribuire ad una donna).
La sua difficoltà è affrontare il tempo, tanto quello passato quanto quello futuro, affrontare il tempo come categoria. Ciò lo induce ad un sarcasmo, soffuso di grazia e sentimento, degradati umoristicamente: “la Vita. Oh la carezza/ dell’erba!/ Non agogno/ che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza.”
Gozzano è letteratissimo e già Calcaterra aveva sottolineato la sua formazione, le sue letture, il suo iter stilistico e letterario e la sua protesta sarcastica rivolta contro quel nuovo mondo di quel nuovo secolo. Approfondisce un presente tangibile negli oggetti della quotidianità, polverosa e borghese e si diletta con favole senza tempo, una fuga, anche solo per un momento, dalla malinconia.
L’umanesimo di Gozzano non va collocato nell’ingranaggio della malattia, bensì come condizione umana che interpella l’anima e il sentimento.
E ripeto con Montale: “più artista dei poeti del suo tempo... pochissimo romantico e pochissimo “poeta”... Gozzano entrò nel pubblico come poi non avvenne più ad alcun poeta: familiarmente, con le mani in tasca”.
E ancora: “Naturalmente dannunziano, ancor più naturalmente disgustato dal dannunzianesimo, egli fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse ad attraversare D’ Annunzio per approdare ad un territorio suo”.
Il territorio è quello della poesia e della prosa che nulla prende realmente sul serio, ma sa giocare tanto con le efficienze quanto con le deficienze della quotidianità piccolo borghese, senza cadere nell’intimismo radicale, fuggendo ogni psicologismo: il gioco in Gozzano è autorizzato dalla consapevolezza della Letteratura e dal disincanto nei confronti dell’esistenza.
Mescolare le acque tra passato e futuro è l’attività prediletta di Guido Gozzano, poeta, più volte sottolineato, dalle molteplici fonti. Egli si diverte e nello stesso tempo crea il proprio monumento di parole su parole già scritte: parole nauseose, come Patria, Dio, Umanità, per installare in poesia la pratica del riutilizzo, della parodia.
Occorre tener conto di questo particolare sguardo del poeta, sempre ironico e distaccato sui confini di un’età che già proponeva umorismo e riso in chiave filosofico-letteraria di ricerca: penso a Bergson, a Freud, a Pirandello. La parodia deve arrivare a Gozzano e al Futurismo per trovare uno spazio non marginale proponendo il riso come acquisita maturità e perdita di fiducia nell’assoluto. Sanguineti scrive:
(...) è davvero così forte ed assoluta l’ironia di Gozzano da poter esorcizzare gesti da educanda e consuetudine dai libri... evitando di ricomporli secondo l’atteggiamento crepuscolare?
Credo di poter rispondere di sì, soprattutto pensando alla fonte cronologicamente più vicina a Gozzano e più esplosiva: quella del Futurismo e in particolare di Filippo Tommaso Marinetti. Sappiamo che le prime liriche di Marinetti furono pubblicate dalla rivista italo-francese: “Anthologie Revue de France et d’Italie” che ospitava i maggiori simbolisti francesi: Jammes, Mallarmé, Verlaine e Rimbaud, che rappresentavano la copiosa fonte comune di Marinetti e Gozzano.
L’avidità con cui Marinetti da Parigi e poi da Milano assorbe e ingloba le nuove ricerche poetiche è pari a quella di Gozzano, che pure appare poco mobile nello spazio forzato di Torino e delle mete terapeutiche tra mari e monti, a parte il viaggio in India.
La loro produzione viaggia parallela: Marinetti simbolista inizia nel 1902 e culmina nel 1909, quando il Futurismo è già esploso con la pubblicazione del Manifesto sul “Figaro” del 20 febbraio. Gozzano inizia con “La via del rifugio” nel 1907, prosegue con I Colloqui nel 1911. Una cartolina inviata a Marinetti nel 1909 in cui si legge:
Grazie cortese amico! Leggerò le vostre “Poupées électriques” con la più viva curiosità. Abbiatemi... tra i vostri lettori ammirati! Vostro Guido Gozzano.
Gozzano legge Marinetti e lo ammira, evidentemente ricambiato, visto che figura tra i collaboratori italiani della rivista fino al 1909. Liberarsi dall’imitazione, attraverso un riuso del linguaggio poetico passato, è l’atteggiamento che li unisce, in una parodia fatta di metalinguaggi che finirà per liberare una nuova letteratura: Gozzano userà l’ironia superando con garbo il Romanticismo; Marinetti, privo di ironia, lo farà a pezzi.
In sintonia con molti esponenti del Futurismo, Gozzano respinge D’Annunzio. Certo non va dimenticato quanto pesi in quegli anni D’Annunzio sulla cultura e politica italiana, perciò Marinetti distingue astutamente tra letteratura e gesto politico: D’Annunzio aspira alla corona di vate di Carducci e in questo aspetto letterario appare “un modesto avanzo di divinità”. Eppure, ad un certo punto, Marinetti riconosce alcuni meriti che si possono ascrivere a se stesso soprattutto riguardo diciamo “alla sveglia” data al teatro italiano. Dopo la prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume, Marinetti arriverà ad affermare che D’Annunzio era passatista in letteratura e futurista nella vita.
Gozzano comunque privilegia D’Annunzio tra i suoi poeti riciclati, metalinguisticamente omaggiati con ironia, e in questo atteggiamento, in questo ossimoro, potremmo dire, si avvicina in parte a Marinetti, nel riconoscere che con D’Annunzio ci si deve almeno misurare. L’ironia gozzaniana è ancora una volta più sottile e tagliente: leggiamo in “Ketty” il desiderio della bella americana collezionista di capelli, espresso mentre lei e il poeta stanno “Supini al rezzo ritmico del panka”:
Manca D’Annunzio tra le mie primizie;
vane l’offerte furono e gli inviti
per tre capelli della sua calvizie...
Vi prometto sin d’ora i peli ambiti;
completeremo il codice ammirando:
a maggior gloria degli Stati Uniti...
(In "Poesie sparse")
La bella si concederà parzialmente al poeta prima delle giuste nozze col cugino.
Mi preme, invece, sottolineare che, con Marinetti, Gozzano ha soprattutto in comune il più grande modello, un mito che entrambi affrontano con serietà: Dante Alighieri. L’Opera dantesca è come un palinsesto che guida Marinetti simbolista e futurista, sia nella scrittura ufficiale che in quella privata. Gozzano parafrasa e cita Dante in molte occasioni, che sarebbe qui impossibile enumerare; perfino le crisalidi hanno un calco dantesco in Una risorta:
“Le segui per vedere
lor fasi e lor costume?”
“Sì, medito un volume
Su queste prigioniere.
Le seguo d’ora in ora
Con pazienza estrema;
dirò su questo tema
cose non dette ancora.”
Il distico finale di questo dialogo poetico richiama immediatamente la conclusione della Vita Nuova:
...io spero di dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna.
Beatrice donna-angelo può apparire degradata nel sonno di “cento quiete/ crisalidi in attesa” solo a chi non voglia riconoscere le ali della poesia in un’operazione di scrittura sperimentale, da laboratorio, in cui si medita l’amore dei cristalli concludendo in citazione “simile a chi sognando / desidera sognare”. L’amico delle crisalidi, poi, richiama ancora Dante nell’idea stessa di questa metamorfosi: “non v’accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l’angelica farfalla?” I versi danteschi sono Inferno XXX v.137 e Purgatorio X v. 124-125 .
Le farfalle rappresentano una metamorfosi che per Gozzano è anche una sorta di mistica, ultima speranza di una poetica che continua, nonostante tutto, a far cozzare l’aulico col prosaico per ottenere inusitate scintille, per così dire. Saranno le sue crisalidi a trasformarsi in farfalle sotto i suoi occhi increduli, sarà quella metamorfosi il suo modello a cui abbandonarsi nella visione finale.
In questo disegno intravisto dal poeta entomologo appare la traccia di una fonte in più, un’altra fonte francese, in prosa. E’ una fonte di grande rilievo e per Gozzano si configura come tramatura di un percorso: Gustave Flaubert, “Un coeur simple”, nella figura e nell’evoluzione del personaggio di Félicité.
Bisogna ricordarsi della genesi di Felicita, sulle tracce anche della signorina Domestica, come presentata nelle lettere del poeta ad Amalia Guglielminetti. Difficile è non collegare la scelta di Gozzano, con l’oscillazione Domestica/ Felicita, a quella di Flaubert: nella Signorina Felicita ovvero Felicità la richiama non solo nel titolo, e in realtà non solo nell’onomastica. Disegnata su uno sfondo tipicamente borghese, la servante Félicité di Flaubert ha un cuore semplice, come insistentemente ripete Gozzano riguardo alla sua signorina Felicita:
Antica suppellettile forbita!
Armadi immensi pieni di lenzuola
che tu rammendi paziente... A vita
semplicità che l’anima consola,
semplicità dove tu vivi sola
con tuo padre la tua semplice vita!
Semplice è anche la stoviglia fiorita (v.100), e tutto il contesto di quel ciarpame reietto, così caro alla Musa di Gozzano, insieme all’atropo con il presagio di morte, che si libra “con ronzo lamentoso”(v. 216). La “servante” Félicité è una “Domestica” che vive nello stesso contesto e con caratteristiche simili. I due bimbi di cui Félicité si occupa in casa della signora Aubain, sua padrona, si chiamano Paul e Virginie (nomi cari a Gozzano: nella disposizione delle Soglie dei Colloqui, Paolo e Virginia precedono immediatamente La signorina Felicita e L’amica di nonna Speranza).
Dopo una serie di vicissitudini, la sola consolazione che rimane a Félicité è il pappagallo Lulù, ultimo nella catena degli affetti perduti, donato dalla padrona prima di morire: Félicité vi si affeziona talmente da vederlo come un figlio, un innamorato. Anche il pappagallo morirà, lei lo farà impagliare; fulmineo si impone il pensiero a Gozzano: “Loreto impagliato” tipico zoonimo italiano attribuito al pappagallo, è addirittura l’incipit di “L’amica di nonna Speranza”, poesia, per così dire, gemella di “La signorina Felicita”. Gozzano, prendendo spunto dalle metamorfosi della Domestica che giunge ad una visione religiosa proposta da Flaubert nella novella fa compiere a Felicita lo stesso percorso: di paragone in similitudine, di metafora in simbolo, l’immagine di quel cuore semplice lo attrae per ciò che rappresenta: la Felicità dell’amore, mai comparsa nel suo cielo grigio, arriva dal sogno di una Domestica ed è quella delle metamorfosi, che il poeta richiama circondando la signorina Felicita di farfalle, pieridi e cetonie:
L’insalata, i legumi produttivi
deridevano il busso delle aiuole;
volavano le pieridi nel sole
e le cetonie e i bombi fuggitivi...
Io ti parlavo, piano, e tu cucivi
inebriata dalle mie parole.
Vediamo come lo sguardo del poeta si sofferma, in tal caso, sulla Signorina Felicita: egli dà rilievo a singoli dettagli o qualità, amplificati al punto da divenire emblema di una condizione che è psicologica o più spesso esistenziale. Inoltre il poeta usa la categoria temporale per dar vita a descrizioni mnemoniche. La descrizione mnemonica è innescata dalla visione di una vecchia foto, di una stampa, di un oggetto; in tal caso abbiamo la sovrapposizione di due piani temporali, in cui linguisticamente si sovrappongono tempo presente e tempo passato.
Si realizza anche una descrizione dialogica sintatticamente espressa mediante una serie di sintagmi appositivi: il descriptum è assunto nel discorso mediante la seconda persona, il tu. Esemplificativa è la descrizione della signorina Felicita:
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli di color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga...
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere
azzurre di un azzurro di stoviglia...
Una descrizione tutta dialogica ove come in quelle temporali si mescolano ad effetto piani diversi, qui non i tempi ma le categorie del bello e del buono, del valore estetico e di quello etico; e potremmo chiederci: quale diventa dominante? A mio avviso l’agathon come sosteneva anche Aristotele tramuta il kakos in kalon, cioè sfumano i difetti fisici che, con ironia, Gozzano tramuta in qualcosa di gradevole comunque.
Consegue ancor effetto di maggiore concretezza il procedimento che consiste nell’introdurre il descriptum come il risultato di un evento o di un’azione, per poi tematizzarlo:
(Talora già la mensa era imbandita-/ mi trattenevi a cena.
Era una cena/d’altri tempi, col gatto e la falena/ e la stoviglia semplice e fiorita/ e il commento dei cibi e Maddalena/ decrepita, e la siesta e la partita……) v.97 –103.
Quella messa in atto da Gozzano è una tecnica descrittiva che segue il posarsi dello sguardo dall’insieme al dettaglio, in un insieme che non appare costruito su una logica spaziale, ma che nasce dall’incontro tra l’attività psichica ed emotiva del soggetto, le sue facoltà percettive e immaginative e l’oggetto. Il mondo descritto da Gozzano è un ammasso di cose: tale aspetto non esclude il ruolo del soggetto percettore, ma anzi esigerlo e presupporlo, perché molto vive nella dimensione psicologica della memoria o della speranza. Nelle sequenze descrittive assumono importanza a livello sintattico la paratassi e lo stile nominale. Tali soluzioni sembrano voler rendere un oggettivismo descrittivo, in cui il soggetto sembra nascondersi e cedere la parola alla natura, riportandone il dettato, rinunciando al commento. Siamo lontani comunque da Pascoli, la sintassi descrittiva di Gozzano sembra scaturire da uno sguardo, fisico o mentale, dinamico che compone campi lunghi, primi piani, particolari e dettagli e che può persino operare spostamenti in avanti e indietro nel tempo.
Gozzano ricorda i giorni felici trascorsi a Villa Amarena in compagnia di una signorina semplice e spontanea, di cui si era invaghito, e dove anche lei voleva piacere all’avvocato. In tono nostalgico, ravvivato dall’ironia, il poeta descrive la casa in cui Felicita vive, l’aspetto e la personalità della donna, che sembra personificare un ideale di vita semplice, sana e tranquilla, lontana dal mondo cittadino sofisticato e artefatto in cui vive il poeta, una Torino ricca e in cui si affermava una borghesia che coglieva e apprezzava le novità degli inizi del secolo: cinema, circoli culturali e i palazzi liberty espressione di una nuova arte. Il contesto in cui vive Felicita è, potremmo dire, campagnolo - espressione di una borghesia ancora ottocentesca, d’altri tempi. Quella signorina ha donato al poeta l’illusione di un’esistenza autentica, che egli rievoca con sorridente nostalgia. Riporto, in tal senso, alcuni passi significativi.
Signorina Felicita, a quest’ora
scende la sera nel giardino antico
della tua casa. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Signorina Felicita, è il tuo giorno!
A quest’ora che fai? Tosti il caffè:
e il buon aroma si diffonde intorno?
O cuci i lini e canti e pensi a me,
all’avvocato, che non fa ritorno?
E l’avvocato è qui che pensa a te.
(….)
Sei quasi brutta, priva di lusinga
nelle tue vesti quasi campagnole,
ma la tua faccia buona e casalinga,
ma i bei capelli color di sole,
attorti in minutissime trecciuole,
ti fanno un tipo di beltà fiamminga.
E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere,
e il volto quadro, senza sopracciglia,
tutto sparso d’efelidi leggiere
e gli occhi fermi, l’iridi sincere,
azzurre d’un azzurro di stoviglia...
Tu m’hai amato. Nei begli occhi fermi
rideva una blandizie femminina.
Tu civettavi con sottili schermi,
tu volevi piacermi, Signorina:
e più d’ogni conquista cittadina
mi lusingò quel tuo voler piacermi!
(…)
Tutto mi spiace che mi piacque innanzi!
Ah, rimanere qui, sempre, al tuo fianco,
terminare la vita che m’avanza
tra questo verde e questo lino bianco!
Se lei sapesse come sono stanco
Delle donne rifatte sui romanzi
Vennero donne con proteso il cuore:
ognuna dileguò, senza vestigio.
Lei sola, forse, il freddo sognatore
Educherebbe al tenero prodigio:
mai comparve sul mio cielo grigio
quell’aurora che dicono l’Amore...
Tu mi fissavi... Nei begli occhi fissi
leggevo uno sgomento indefinito;
le mani ti cercai, sopra il cucito,
e te le strinsi lungamente, e dissi
“Mia cara Signorina, se guarissi
ancora, mi vorrebbe per marito?”.
Riporto ora una parte di una lunga lettera che Guido Gozzano ha scritto ad Amalia Guglielminetti da cui si evince un amore in parte vissuto realmente; ma il poeta, tutto concentrato su se stesso, non ha mai trovato nel rapporto con questa poetessa la felicità che ha forse provato nel sogno stando accanto a Felicita o Felicità.
Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno... Sento in fondo all’anima una specie di fiera tristezza, per aver saputo esser crudele con me e forse - perdonami - anche un po’ con te... Io non vedrò le tue vesti nuove. Sarò lontano, solo, con la mia ambizione taciturna: una compagna ben più crudele della tua malinconia... Perché non confessartelo, mia buona sorella? L’ambizione da qualche tempo mi artiglia in un modo atroce. Non sento non vedo non godo non soffro di altro. Come puoi tu, che hai pure tra le mani i germi di mille speranze, come puoi rivolgere ancora le forze della tua giovinezza verso altri destini?
Per me, camminando dritto, con l’occhio fisso alla mia meta lontana tutto è secondario e trascurabile: gioie e dolori: tutto, perfino la tua bellezza sulla quale mi sono chinato
un istante, come su un fiore, al margine del sentiero, ma dalla quale mi separo tosto, perché arresterebbe di troppo il mio passo tranquillo. E mai come in questi tempi che tale smania mi fa soffrire, ho avuto tanto disprezzo per le mie attitudini artistiche e ho tanto sentito la necessità di affinarle con lo studio, con la meditazione, col silenzio.
Tu hai ancora l’avidità di cogliere fiori e di godere l’ora che non passa: per me anche la lusinga del piacere mi è intollerabile come un ostacolo sul mio sentiero.
Parlo, parlo e soprattutto ragiono: quanto devo farti soffrire! Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. E non t’avrei amata nemmeno restando qui, pur sotto il fascino quotidiano della tua persona magnifica...
Rivederci? A che scopo? Un colloquio di più nulla aggiungerebbe (o sottrarrebbe forse) alla fraterna benevolenza che noi dobbiamo portare l’uno dell’altro. Addio, mia buona amica! Ti bacio.
Questo amore sofferto, per motivazioni diverse, dal poeta e dalla poetessa è l’oggetto di un epistolario pubblicato postumo da Spartaco Asciamprener nel 1951 con il titolo “Lettere d’amore”. L’epistolario è certamente lacunoso, nonostante una revisione e nuova edizione curata da Franco Contorbia nel 2019.
Presumibilmente un appuntamento è al Parco del Valentino per il pomeriggio del 30 novembre 1907. Gozzano non si presenta e Amalia scrive una lettera commovente e dignitosa; la riporto in parte.
Passò un ragazzo con un carretto cantando: “E aspetta il fidanzato”… Allora fuggii davvero umiliata, avvilita, annientata dinanzi a me stessa, pensando di voi tutto il male possibile, soffrendo in me tutto il male possibile... Non osai rincasare per non lasciar sospettare alle mie sorelle la mia disdetta... Sono folle, Guido, a scrivervi queste cose, lo so che voi lo pensate. Vorrei che mi vedeste piangere ancora, mentre scrivo, tanto. Neppure il foglietto rosso che mi portava le vostre scuse ha potuto consolarmi. Ho dovuto lasciar sgorgare tutta quell’amarezza accumulata goccia a goccia, minuto per minuto in umiliazione e in tristezza...
A cominciare è Amalia con una lettera di ammirazione letteraria inviata a Gozzano in occasione della pubblicazione “Via del rifugio” il 13 Aprile del 1907. Il poeta sin da subito elabora tempi di una seduzione ambigua retrattile e molto femminea, anche se si abbandona a ferventi elogi delle “Vergini folli” che Amalia pubblica più tardi, seppur di poco, il 5 giugno 1907. Comportamento ambiguo di Gozzano che elogia la poetessa ma tende a non rispettare impegni e neppure sentimenti. Tutto l’epistolario lascia trapelare questa condizione: una poetessa, una donna bella, sincera, elegante, libera insegue un Gozzano, poco sincero, elegante e incapace di spezzare quel cordone ombelicale che lo lega moltissimo alla madre.
Vivono nello stesso ambiente con contatti letterari ed editoriali sia l’uno che l’altra, la loro relazione prescinde da ciò, hanno cercato di mantenere separate le esperienze letterarie da quelle relazionali.
Come si spiega il comportamento del poeta, perché non ha voluto o saputo apprezzare veramente il rapporto con Amalia che lo amava sinceramente?
Nei Colloqui si autodefinisce malato, ma anche seduttore, ironico e scettico. Certo la tubercolosi lo spaventa e lo debilita, in tale situazione Guido non vuole però accanto un’altra presenza che quella della madre. Sa come corteggiare le eleganti signorine nelle pasticcerie torinesi, ma caduto nella sessualità fugge. Perché? Era impotente, non voleva consolidare oltre un rapporto? Il poeta Gozzano, che ben è stato presentato da Sanguineti, è un importante e significativo autore del primo decennio del 900 che poi ha influenzato altri poeti novecenteschi, tra i quali Montale. Gozzano come uomo dall’epistolario appare un narcisista poco coraggioso nell’esprimere se stesso soprattutto nell’amore. Appassionato di crisalidi e farfalle, è un anaffettivo, avaro nel donare sentimentalmente qualcosa di se stesso.
Molto diversa Amalia Guglielminetti che, con i suoi sonetti petrarcheschi, ha espresso con coraggio la sua intimità desiderante e frustrata da un contesto moralista e vetusto. Comunque le sue lettere, la sua metacognizione di donna solissima con la sua intelligenza, oggi possono valere come storia della coscienza culturale delle donne italiane. Quando ama, ama meravigliosamente e con generosità:
Io ti sono compagna ora senza timori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te...
Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli.
Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno.
Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti…. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi ancora in quell’atto?
Nessuno ti giuro mi ha mai vista così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza.
Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi
Durante la lettura del carteggio giunge naturale chiedersi: ma questa relazione è stata intensa, ha avuto al suo interno un momento di unione o connubio sessuale?
A tante allusioni, Gozzano pone fine ad ogni dubbio:
L’abbiamo fatto...
...ma il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con crudeltà spaventosa... Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualcosa in voi...
E ieri l’altro quando scendeste disfatta nel vestito nel cappello nei capelli... io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera
Gozzano non conobbe la psicoanalisi, ma passando la sua vita a raccontare e commiserare se stesso, un giorno di quegli anni formulò per sé una diagnosi convincente: “Ansiomania inespicabile che m’accendeva il cervello quasi fossi alla vigilia di non so che avvenimento…”. La seppe rilevare, la seppe infliggere.
Amalia capì tutto: il poeta Guido Gozzano preferiva la signorina Felicita, provinciale, senza istruzione e pure bruttina, dalla vita semplice e sana: amarla non sarebbe stato troppo impegnativo:
Tu non fai versi. Tagli le camicie
Per tuo padre. Hai fatto la seconda
Classe, t’han detto che la Terra è
tonda,
ma tu non credi... E non mediti
Nietzsche...
Mi piaci . Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda.
“Farfalla in sogno, assomigli alla mia
La ricerca della forma di un poema moderno nel contenuto, ma elegante, appassionato come il Piacere, verrà coltivata per tutta la vita da Gozzano. Un desiderio che coltiva così assiduamente il poeta, mi sembra debba qui trovare adeguata trattazione.
L’esito di questa ricerca, pur presente ne I Colloqui, è tanto più icastico quanto radicale nelle Farfalle, poemetto incompiuto con il quale Gozzano intendeva tornare poeta con altra voce. L’epistolario gozzaniano conserva ampie tracce del progetto, però le Epistole entomologiche non ebbero la sorte auspicata.
La critica ha sottolineato, in modo concorde, il fallimento del poemetto cui furono imputate le accuse di mal riuscito tentativo di poesia filosofica, intellettualismo accademico fine a se stesso.
Posto che l’incompiutezza dell’opera non mi pare compromettere la solidità tematica, vorrei ora documentare come il poemetto possieda al contrario il carattere di un testamento conclusivo derivante dalle vive e contrastanti tensioni che irretirono Gozzano e lo costrinsero ad abbandonare quel mondo sano ed ordinato presente ne I Colloqui.
Come punto di partenza mi sembra importante l’equazione simbolica e polemica stabilita da Barberi Squarotti, tra l’arte e la fragile natura delle farfalle. Vi è infatti la precisa constatazione del cambiamento che coinvolse un’intera società, all’interno della quale l’improduttività del letterato di professione, o per meglio dire la totale inservibilità del frutto del suo lavoro, non poteva che condurre verso un esilio o peggio una sorta di emarginazione. Da un tale sogno dell’abbandono, dell’esilio il poeta giunge alla provocatoria celebrazione dell’inutilità della vita delle farfalle, la cui parabola esistenziale ben si presta ad evidenziare il destino della poesia e il mestiere del poeta poteva agevolmente essere accostato alla natura effimera della farfalla.
Altri motivi all’inizio del secolo si prestavano alla scelta di rappresentare la farfalla come allegoria del destino della poesia: a cominciare dal diffondersi dello stile Liberty nelle cui applicazioni era implicita la coscienza del distacco dal mondo naturale a favore di un mondo industriale; tale estetica comunque comprendeva il motivo naturalistico, l’iconografia fitomorfa e zoomorfa, con riferimento particolare alla rappresentazione di farfalle, libellule, api e uccelli. Non è difficile pertanto immaginare come simili figurazioni potessero agire come modello formale e creare una suggestione simbolica nel poeta che proclamava voler rifugiarsi in poche forme prime della natura.
Inoltre lo sviluppo dell’entomologia in questo periodo storico (primi decenni del 900) induceva Gozzano a considerare di estrema attualità il suo discorso.
Al dato culturale si accostavano oggettivi riferimenti biografici: la passione per i vari esemplari di lepidottero è coltivata dal poeta nella giovinezza durante i suoi spostamenti e soggiorni alpini e rivieraschi. Mi sembra importante sottolineare a tal proposito la nota collaborazione da parte di Gozzano ad un documentario cinematografico sulla vita delle farfalle. Gozzano collaborò a tale documentario, in modo significativo, in quanto ritenuto esperto entomologo, ha seguito le riprese e fornito preziose informazioni al regista Omegna. Il documentario vinse un premio all’Esposizione Internazionale di Torino.
Per approfondire le ragioni profonde del poemetto occorrerà ricollegarsi a quanto ho accennato in apertura: la testimonianza polemica e allegorica attorno al tramonto della poesia. Le Epistole entomologiche evidenziano un mutamento nell’ispirazione di Gozzano: non è più un osservatore distaccato, ma colui che riflette, partecipa, quasi in modo estatico e il cui tono si fa serio. Nel poemetto, infatti, vengono a mancare due aspetti presenti nella produzione antecedente: l’ironia, sul piano concettuale, e la rima, sul piano formale. Dal punto di vista naturalistico appare interessante il discorso sulle nozze floreali: Gozzano insiste sulle somiglianze tra l’uomo e il fiore, entrambi di fronte all’ignoto, vi è pertanto una umanizzazione del fiore e del tema fiore-farfalla. Gozzano ribadisce l’armonia tra il fiore e la farfalla, dunque tra l’uomo e la poesia, una poesia che recupera l’innocenza dell’infanzia, in cui “s’aduna” principalmente “il superstite amore adolescente/ per l’animato fiore senza stelo”: liberatoria catarsi; e vedendo volare la messaggiera marzolina, il poeta commenta: “tutte in me resuscita / la primavere dell’adolescenza”.
La letteratura in chiave allegorica della farfalla-poesia che minaccia le istituzioni familiari e sociali, per Barberi Squarotti è prefigurazione del suo stesso destino di disfacimento e morte.
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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