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Alexandre Dumas padre ha un collaboratore, Auguste Maquet, il cui compito è quello di dargli spunti per le sue scritture e talvolta di preparargli schizzi, che lo scrittore puntualmente mette a posto, a volte sconvolgendone totalmente i contenuti. Lascia fare poco agli altri Dumas; ha la buona abitudine di metterci sempre tanto di suo, rivedendo la trama, la storia o la struttura e sistemando qua e là, particolari decisamente significativi. Una fervida immaginazione, condita con una punta d’incanto, caratterizza sempre l’eccelsa mente di Dumas. L’abilità e la semplicità con cui l’autore compone Il Conte di Montecristo non ci deve trarre in inganno. Scrivere con scioltezza è la sua innata capacità: creare un capolavoro dal nulla è nelle sue naturali corde. Dumas padre, in realtà, ha lasciato ai posteri un libro da leggere con analitica attenzione, perché pregno di significati, di simboli e di arcani. Sono tanti gli elementi che si oppongono e si contrappongono per alla fine intrecciarsi, elementi che non devono mai sfuggire agli occhi dell’attento lettore. È innegabile, infatti, che il racconto che anima il capolavoro francese, sia incastonato tra l’ilarità e la drammaticità e sia portavoce dello scontro-fusione tra il Bene e il Male.
L’ironia che ha caratterizzato tutta l’epoca settecentesca è fortemente presente in ogni frase e in ogni capitolo del libro. La penna di Dumas dà risalto, in maniera magistrale, a quella sottile vena umoristica, capace di alleggerire una narrazione che altrimenti risulterebbe troppo nuda e cruda. Si ritrova una nota di comicità, per esempio, nel falso telegramma che Montecristo invia per far perdere soldi e tanti al suo acerrimo nemico Danglars. Come non gioire? Come non divertirsi e sorridere? Lo stesso Dumas gioca con il lettore: non gli consegna solo comicità allo stato puro, ma anche un pezzo di ironia che in qualche modo si fonde poi con l’orrore. A Roma, per esempio, i festeggiamenti del carnevale possono avere inizio, solo dopo che la ghigliottina avrà finito di tagliare teste, con tanto di spettatori!
Arriva così il Male che contamina ogni cosa: ben quattro sono le persone avvelenate nella casa della morte e così muore anche l’assassina e non le viene risparmiato nemmeno suo figlio: la casa del giudice Villefort, diventa il regno della maleficenza. Il male presente in Montecristo è un male assoluto, totalitario, che difficilmente si ritroverà ancora nella letteratura ottocentesca.
L’abile scrittura di Dumas crea una trama fitta e stupefacente nella sua innaturale precisione, alla quale il lettore inevitabilmente si appassiona. Il racconto non annoia, non diventa mai banale, perché nulla è lasciato al caso e ogni evento conosce la sua giusta collocazione. Sembra quasi che i fili conduttori di più narrazioni si incontrino e si intreccino, sino a creare una colorata rete di fatti. Il narratore è onniscente, ma non esprime mai nulla prima del tempo. Mai un’anticipazione e soprattutto nella sua “voce” risiede tutta l’abilità di Alexandre Dumas padre, quella capacità innata di descrivere i dialoghi, di far trapelare le emozioni, di disegnare sguardi e sorrisi e farli arrivare a chi legge, come se fosse appollaiato sulle spalle di un qualsiasi personaggio.
Una scrittura scorrevole quella di Dumas, una penna pregiata la sua, che non tedia, non stanca, non usa mai un linguaggio ricco di fronzoli o di contro mai banale. Il lettore viene catturato sin dalle prime pagine e rimane nella morsa della piacevolezza fino alla fine. Gli ambienti sono ben descritti, i personaggi ben disegnati, i contorni caratteriali di ogni figura ben esplicitati.
Edmond Dantès è un personaggio unico nel suo genere, una figura che affronta nell’arco della storia una metamorfosi incredibilmente inimitabile. La prima grande trasformazione Edmond la subisce subito dopo l’incontro con Faria, che lo ama come un figlio e lo tramuta in uomo sapiente e colto. Il vero grande cambiamento Dantès lo conosce con la sua liberazione dalle carceri, che assomiglia più a una resurrezione. Dopo quel tuffo in mare tutto cambia per Edmond. L’isola di Montecristo diventa il cuore della sua nuova esistenza. Quel pezzo di roccia a forma di cono, deserta e isolata, abitata e animata da cicale, lucertole e piante e da tanta, tantissima ricchezza è tutta sua, tutta di Dantès. Il tesoro ritrovato è del Rinascimento e sembra quasi essere sacro. Ecco che Dantès varca la soglia della fiaba, dove l’incanto e l’inverosimile albergano. Dumas con/in queste pagine consegna al lettore uno dei punti focali del romanzo: la trasformazione di Dantès nel Conte di Montecristo. Cambiando nome, Edmond, cambia anche modo di comportarsi e agire, diventando, per esempio, un uomo elegante e di gusto; elegante nei modi di fare, grazie all’educazione di Faria, viene rispettato e adulato. Le sue case risplendono di gioie ed eleganza. Trascorrono ben dieci anni dalla fuga prima di rivedere Dantès. Dieci anni in cui il lettore non viene messo a parte di quello che accade, ma lo può immaginare: si è compiuta la metamorfosi. Il Conte di Montecristo ha tutto, ma in questo lungo periodo di trasformazione ha perso una cosa importante: la sensibilità. Il suo cuore è come pietrificato: Montecristo si trasforma, da uomo semplice a uomo elegante e ricco e con lui si trasforma la sua psicologia, che diventa decisamente complessa.
Nonostante la sua complessità psicologica, il Conte sente la necessità di moltiplicarsi: per questo si trasforma in vari personaggi, utilizzando svariate maschere. Uomo affascinante è capace di attirare come fa il miele con le mosche, sia le persone che ama, che quelle che odia. La sua empatia e il suo fascino sono talmente potenti e prepotenti, da far pensare che il Conte possa aver stretto un patto con Dio o con il diavolo… Dumas gioca e con grande maestria propone questa arcana possibilità. Il Conte di Montecristo è un Angelo di Dio? Significa allora che il suo Dio è quello legato alla vendetta, quello che colpisce anche le generazioni future per i peccati degli avi. A onor del vero Montecristo fa proprio questo: recita nelle sue varie parti come fosse un bravo attore, spinto unicamente dal desiderio di vendetta. Quando giunge a Parigi, il Conte, sembra essere diventato il padrone del mondo: ricchezze e beltà sono sue e le mostra con ostentato piacere. La vita parigina è ai suoi piedi, mentre lui con inaudita crudeltà si vendica di coloro che gli hanno precedentemente rovinato la vita, fino a quando l’amore lo blocca e lo spinge a pensare al suicidio per non essere andato fino in fondo. Arriva così il riscatto finale: con l’uccisione del figlio e del giudice Villefort e di sua moglie, Montecristo comprende di aver superato ogni limite, pentendosi di ciò che ha fatto. Vorrebbe tornare indietro ed essere nuovamente Edmond Dantès. Il perdono di Dio però arriva attraverso l’amore che Haydée, la sua bellissima schiava greca, prova per lui. Decide così di lasciare Parigi, mentre “una serenità quasi sovrumana lo avvolge come un' aureola. Pare un esiliato che ritrova la sua patria”. Montecristo abbandona il mondo del potere e della vendetta per andare verso altri lidi a noi sconosciuti, dove forse avrà trovato pace e serenità. Rimane quindi da chiedersi quale mano lo abbia mosso: quella di Dio o quella del diavolo? Da un’attenta analisi del testo, si evince che quanto sembra scontato (elemento cardine la vendetta) in realtà non lo è affatto. Il sentimento di rivalsa non rappresenta il riscatto finale: il messaggio che Dumas padre vuole far passare è ben altro. È un messaggio di Fede, è un messaggio di credenza nel buon Dio, a cui non bisogna mai voltare le spalle. Solo chi ha avuto Fede, solo chi non ha mai abbandonato l’insegnamento divino, alla fine del romanzo riceverà una ricompensa. Un messaggio positivo quindi: agire nel bene è sempre indispensabile, affinché possa arrivare la salvezza e non la punizione.
Sulla nave mercantile Pharaon dell'armatore Morrel si è consumata una tragedia terribile: il comandante Leclérc ha perso la vita. La nave è pertanto costretta a fare una sosta forzata presso l’isola d’Elba. Morrel affida il ruolo di comandante al giovane marinaio Edmond Dantès, già uomo di fiducia di Leclérc. Dantès non è ben visto da Danglars, lo scrivano di bordo: l’uomo continua a fare pesanti insinuazioni su di lui, relativamente al fatto che Dantès avrebbe insistito per fare sosta all’Elba dopo la morte del capitano.
Dantès si giustifica, dicendo di aver voluto rispettare le volontà di Leclérc, che in punto di morte gli ha affidato un plico, da recapitare sull’isola. Il giovane marinaio non si lascia intimidire e soprattutto non ha alcuna voglia di farsi rovinare il momento di felicità che sta vivendo grazie al suo nuovo incarico: corre così da suo padre e dalla ragazza che ama, la bella Mercédès.
La gioia di Dantès urta la sensibilità di molti, suscitando la loro invidia. Danglars, prova odio nei confronti del giovane, perché avrebbe voluto essere nominato lui capitano, Fernand Mondego, cugino di Mercedes, è accecato dalla gelosia in quanto innamorato anch'egli della ragazza e Gaspard Caderousse, vicino di casa del padre di Edmond, è semplicemente invidioso del bene altrui.
I tre decidono così di vendicarsi: si ritrovano insieme e scrivono una lettera anonima in cui accusano Dantès di essere bonapartista. In quei giorni, infatti, Napoleone sta scontando il suo primo esilio all’Elba. La lettera pregna di calunnie, viene spedita e giunge nelle mani del sostituto procuratore Gérard de Villefort.
Villefort ha un segreto inconfessabile, che se mai dovesse venir fuori costituirebbe per lui una vergogna tremenda: suo padre è stato ed è ancora un fervente sostenitore di Napoleone. Il procuratore è consapevole dell’innocenza di Edmond, ma non esita a utilizzare le accuse mosse ingiustamente contro il giovane per sbandierare la sua fede realista, utile alla sua spudorata ambizione.
Edmond viene così tratto in arresto durante il pranzo organizzato per il suo fidanzamento e dopo un interrogatorio alquanto inutile e fittizio, viene condotto nello Chateau d'If, una fortezza-carcere costruita su un isolotto, nel golfo di Marsiglia, dove il giovane è condannato a restarvi a vita.
Dantès urla la propria innocenza, supplica, si arrabbia, prega, ma a nulla valgono i suoi sforzi: viene rinchiuso in una cella, in isolamento, dove rischia di impazzire. Un evento inaspettato e fortuito sembra riportarlo alla vita: arriva l’Abate Faria, un altro detenuto, che da anni sta scavando un tunnel per scappare da quella terribile prigione e per errore arriva nella cella di Dantès.
Faria e il giovane marinaio diventano amici: l’uomo molto più anziano di lui, gli trasmette tutto il suo sapere e soprattutto gli fa capire quanto sia stato sciocco a non accorgersi del complotto contro di lui. Edmond cerca di ricambiare il bene, aiutando l’uomo a scavare un altro tunnel, attraverso il quale fuggire. Faria è però anziano e malato e poco prima di lasciarsi andare alla morte rivela al giovane un importane segreto: esiste un tesoro immenso, nascosto sull'isola di Montecristo e solo Dantès da ora in avanti conoscerà le coordinate per arrivarci.
Faria muore e il giovane sta per lasciarsi affliggere nuovamente dalla disperazione, quando ha improvvisamente un’illuminazione: si sostituirà al corpo dell'uomo nel sacco che i carcerieri hanno portato nella sua cella e in cui è stato rinchiuso e così riuscirà ad uscire dalla fortezza.
Edmond mette coraggiosamente in atto il suo piano: si nasconde all’interno del sacco, venendo così prelevato dalle guardie e gettato in mare, secondo il destino che tocca ai prigionieri morti. Sott'acqua riesce a liberarsi dalle corde e dalla tela che lo avvolgono e una volta in superficie nuota lontano, verso la propria libertà. Quattordici anni sono passati dal terribile giorno dell’arresto.
Viene avvistato da una nave di contrabbandieri che naviga per il Tirreno e così salvato: si unisce a loro per qualche tempo, finché non prende la decisione di recarsi a Montecristo, l’isola che contempla da lontano ormai da un pezzo. Ci sarà davvero il tesoro di cui Faria parlava? Quello che trova Dantès sull’isola va oltre ogni sua aspettativa: ora Edmond è un uomo ricco, astuto, colto e pronto a mettere in atto la sua terribile vendetta. Ora Dantès è il Conte di Montecristo e fa ritorno a Marsiglia.
Grazie ad una serie di abili travestimenti scopre chi lo ha tradito e non solo. Gli giunge notizia della morte del padre subito dopo il suo arresto e quella del matrimonio di Mercédès, la donna che amava, con uno dei cospiratori, Mondego. Soltanto l'armatore Morrel gli è rimasto fedele, cercando sue continue informazioni e cercando di capire cosa potesse essergli realmente successo. Ora è Morrel, a essere in disgrazia: l’uomo medita il suicidio, perché gli affari vanno male, ma Montecristo, abilmente travestito, salva lui e la sua famiglia.
Mondego è nel frattempo divenuto Conte di Morcerf, Danglars è divenuto Barone e insieme al procuratore Villefort si sono recati a Parigi, dove trascorrono la loro beata esistenza. Nella città francese si reca anche Montecristo, che sotto mentite spoglie entra in contatto con gli uomini, diventando così il più fidato dei confidenti.
Niente è come appare, sotto le facciate di perbenismo e di serenità ognuna di quelle famiglie nasconde sordidi segreti. Unica eccezione è la famiglia Morrel, composta dai due figli dell'armatore ormai morto, Maximilien e Julie, e dal marito di lei. Nella loro casa il Conte respira un'atmosfera di pace e di felicità, pura e semplice, come non gli accade in nessun altro luogo. Diventa molto amico di Maximilien, che gli confida di essere innamorato di Valentine Villefort, figlia del procuratore, confidenza che costringerà il Conte a modificare i suoi piani sulla ragazza, inizialmente inclusa nella propria vendetta.
Il progetto non può essere accantonato, deve essere portato a termine e Montecristo, con spietata lucidità, inizia a muoversi approfittando delle debolezze e delle inconfessabili verità che condannano i quattro traditori. Si considera oramai uno strumento della Provvidenza, della giustizia divina, anche a costo di compiere delle crudeltà, anche a costo di dover rabbrividire egli stesso per gli effetti drammatici che le sue azioni avranno.
Sono tanti i personaggi che animano il capolavoro di Dumas, e tutti magistralmente disegnati dallo scrittore francese:. Oltre ai personaggi principali, troviamo anche figure che pur ricoprendo un ruolo secondario, hanno comunque una certa rilevanza nella storia.
Sono quattro i luoghi principali di ambientazione del romanzo:
Oltre ai luoghi principali, si possono menzionare ad esempio l'Isola d'Elba, in cui la nave di Edmond deve fare necessariamente sosta, Roma, dove il Conte di Montecristo incontra per la prima volta Albert.
La storia si svolge tra il 1815 e il 1838.
La narrazione ha inizio nel periodo in cui Napoleone viene esiliato all’Elba, da cui fuggirà per approdare a Parigi, dove si cimenterà nell’epopea dei Cento Giorni. Quando Napoleone scappa, Edmond è già in carcere. Subito dopo la parte iniziale, la collocazione temporale dell’opera diventa meno precisa. Quello che è certo è che il racconto si conclude nel 1838, quando il Conte avendo consumato la sua vendetta, salpa verso una nuova vita.
Nell’estate del 1967, Italo Calvino compone l’opera Ti con Zero contenente, in particolar modo nella prima parte, scritti appartenenti al genere delle Cosmicomiche, componimenti ricchi di fantasia e ilarità. L’ultimo di questi scritti è Il Conte di Montecristo, una parafrasi dell’opera di Dumas. Calvino nel suo scritto riprende solo la parte della prigionia e della fuga di Edmond Dantès, in cui ha avuto un ruolo determinante l’Abate Faria, come abbiamo visto sopra. Ne Il Conte di Montecristo, Calvino abbandona il genere delle Cosmicomiche, anzi, si può affermare con certezza che lo ribalti: non crea una narrazione magica da un fatto reale, bensì da un’opera di fantasia trae ipotesi scientifiche.
“Dall’idea astronomica dell’Universo in espansione, nasce l’immagine del carcere in espansione”. Calvino utilizza la metafora del carcere per rappresentare la società nel suo caos, dove la visione oggettiva della realtà risulta fuorviante (la prigione in senso metaforico è la prigione dell’esistenza). La percezione del mondo reale, secondo lo scrittore sanremese, se pur nato a Cuba, è esclusivamente sensoriale. I sensi non percepiscono la realtà così com’è fuori, ma la elaborano a seconda di come la coscienza dell’uomo la vive. Questo è il motivo per cui la visione realistica non è una e una sola, ma ne esistono diverse, grazie all’elaborazione dei sensi, della mente e dalla coscienza umana. Così Calvino spiega la motivazione per la quale né Faria né Dantès riescono a creare una mappa della prigione: ognuno vede la propria realtà, quindi qualsiasi metodo risulta errato. Per creare una mappa che fosse giusta e che permettesse la fuga, i due uomini, avrebbero dovuto mettere a punto qualcosa che andasse oltre il mondo reale, oltre quello esistente, che potesse essere neutro per entrambi. Per creare, quindi, un qualcosa di concreto e di oggettivo, è necessario staccarsi dalla visione personale della realtà. In altri termini, diventa fondamentale ragionare con oggettività e per poterlo fare, l’unica soluzione è staccarsi dalla propria radicata soggettività. Guardare al mondo senza farsi influenzare dall’aspetto deformante del proprio IO, è l’unico modo per trovare la soluzione.
Il Conte di Montecristo apre una nuova era dell’opera calviniana, che porta lo scrittore a rivedere il concetto di letteratura. La letteratura per Calvino è un contenitore di diverse ed eventuali interpretazioni, capaci di coesistere e intrecciarsi. La prigione dell’Isola d’If, viene quindi identificata non solo con la prigione dell’esistenza, come abbiamo visto precedentemente, ma anche con la letteratura. Secondo lo scrittore, un’opera per essere definita tale, deve contenere più testi possibili ed essere in questo modo in grado di poter descrivere la realtà. Una forma idealizzata dell’opera letteraria che viene identificata con il carcere d’If, che nella sua forma complessa, comprende diversi possibili modelli di prigione ed essendo in continua trasformazione, il carcere è speculare alla pluralità della realtà e aquella più dettagliata del mondo incomprensibile.
Calvino quindi ipotizza l’opera letteraria perfetta: come realizzarla? L’unico modo è quello di liberare la letteratura, creando una fitta rete di opere, un tessuto di cultura letteraria, in cui gli scritti si fondono gli uni con gli altri. In questo modo il campo interpretativo di ogni singolo scritto diventa più ampio, la finzione in cui tutto si svolge diventa una sorta di labirinto dove i testi si incontrano, si scontrano, si incrociano, permettendo così al lettore di partecipare attivamente all’interpretazione e sentirsi finalmente libero. Questa nuova concezione di opera letteraria libera il lettore quindi, ma rende libero anche lo scrittore: la metafora del carcere d’If, imprigiona sì il lettore, ma anche l’autore. Con la nuova concezione, lo scritto rimane produzione dello scrittore, ma anche di chi legge.
Perché l’autore è imprigionato nell’opera? Innanzitutto perché egli non è in grado di superare quel vuoto che si crea tra la produzione del testo e il suo effetto. Secondo Sartre “non è possibile svelare e produrre al tempo stesso”…L’opera per lo scrittore rimane sempre in sospeso, perché, durante la creazione, è possibile modificarne il contenuto ogni qual volta lo si desideri. Questo è il motivo che crea una sorta di legame speciale tra lo scrittore e il libro, un legame che però lo priva del piacere di considerare compiuta un’opera, di quella compiutezza a cui non si deve aggiungere nulla e dalla quale non si può togliere nulla. Ritroviamo così la plausibile spiegazione alla scelta di Dumas di non dare una fine al suo romanzo. Montecristo parte, non si sa per quale destinazione e non si saprà mai a quale vita sia andato incontro.
Un ruolo determinante nelle ipotesi calviniane, lo gioca la finzione, capace di collegare la realtà con un soggetto: essa diventa mediatrice, trasformando la lettura in un dialogo tra il testo e il lettore. La lettura è quindi intesa come celebrazione della scrittura: l’esistenza reale del testo è pertanto garantita dall’atto del leggere, una verità che nemmeno il mondo della finzione è in grado di mettere in discussione. La creazione letteraria esiste, se persiste una collaborazione tra lettore e scrittore: quest’ultimo produce e consegna, dando così a chi legge la possibilità di interpretare.
L’immagine dei due carcerati, quindi, Dantès e Faria, oltre a rappresentare il tema della finzione e quello dell’autore imprigionato nel suo libro, rappresenta anche la metafora di diverse possibili strategie di lettura. Faria è un lettore, perché organizza le strategie di interpretazione in base alla propria realtà e identità. L’Abate sembra avere un’attività di lettura passiva, perché legge sempre la stessa cosa, assimilando le prospettive che gli si presentano, senza interpretarne il significato. D’altro canto, analizzando attentamente le reazioni di Faria, si intravede il lettore che utilizza i testi come contenitore delle proprie emozioni. L’Abate cerca disperatamente di leggere la piantina del carcere, ma non riesce a individuare il giusto percorso: pur inserendo elementi nuovi nei suoi tentativi di fuga, rimane sempre lì in carcere. Il suo errore sta proprio nel non saper dare una propria interpretazione, diversa da quella esistente.
Una seconda strategia di lettura è rappresentata dalla figura di Edmond, in grado di dare una propria perfetta interpretazione, impersonando così il lettore ideale, capace di comprendere ogni significato della creazione letteraria. Metaforicamente il carcere rappresenta la molteplicità della realtà: la sua reale comprensione è quindi possibile solo attraverso l’analisi di ogni suo singolo frammento. La sconfitta di Faria sta nel fatto che non ha avuto la capacità di dare un’interpretazione del carcere come mondo, quindi non è stato capace di interpretare i vari tasselli della realtà. Dantès, invece, ne comprende la frammentarietà dandone la corretta interpretazione, non concentrandosi su un’unica e sola lettura. La riuscita della sua fuga è data dalla comprensione del carcere stesso. Un’affermazione di Calvino tratta da La sfida del labirinto a tal proposito è emblematica:
“definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere della letteratura della resa al labirinto (…) quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto, la più particolareggiata possibile”
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