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Articolo apparso per la prima volta sul sito Scritturaimmanente.it
La lettura di Kafka è sempre un'esperienza particolare, che richiede una precisa volontà da parte del lettore: confrontarsi con una sensazione generalizzata di malessere. Eppure, Kafka è un autore il cui valore letterario non è misurabile e, credo, nessuno si priverebbe mai del "piacere" di leggerlo e rileggerlo.
Nei suoi racconti, dai più lunghi e famosi (La Metamorfosi, Il Processo, Il Castello, ecc.) ai più brevi (addirittura poche righe) ed ermetici, si delinea e si condensa un universo dell'umano che sembra stare in un'altra dimensione, ma che nonostante tutto ci coinvolge. Ognuno di noi infatti può riconoscervi delle coordinate che fanno parte del proprio mondo, il mondo conosciuto, sulle quali però si innesta un elemento che disturba, da cui la sensazione di malessere, di incomprensione: un elemento disturbante o "straniante" ("perturbante", diremmo con Freud) che ci porta di fronte ad una delle più complesse e complete rappresentazioni letterarie dell'assurdo.
Assurdo è, per definizione, "contrario all'evidenza logica, intrinsecamente contraddittorio, privo di ogni fondamento nella ragione e nel senso comune", oppure "incredibile per stranezza o eccezionalità", "ciò che non è ammissibile o pensabile perché contrario alla ragione". Ma il confine tra stranezza e ordinarietà, tra razionale e irrazionale è molto più labile di quanto sembri, anche quando non investe problemi dell'ordine del punto di vista (caro all'analisi testuale) e si limita al mondo del significato.
Già anticamente si dibatteva su questioni simili. Il filosofo Zenone è celebre per aver elaborato una logica, che portata alle sue estreme conseguenze razionali prefigurava una dimensione reale dell'impossibile. Uno dei suoi "paradossi" meno noti è quello del "mucchietto": prendete una certa quantità di miglio e con la metà di essa fate un mucchietto, poi prendete metà del rimanente e aggiungetelo al mucchietto, poi metà del rimanente e così via. In un universo finito il mucchietto potrà essere completato, in un universo infinito mai, perché più ci si avvicina al totale, più il mucchietto cresce lentamente.
In quest'esempio, è la coordinata temporale a essere messa in gioco. Ma altrettanto coinvolta è la coordinata spaziale, per esempio nel paradosso, più noto, di Achille e la tartaruga, dove Achille, pur andando ad una velocità maggiore della tartaruga, non potrà mai raggiungerla.
Le logiche "altre", che si basano su fondamenti diversi da quella che regge la logica a cui siamo abituati, non sono appannaggio soltanto della filosofia. Le si ritrovano altrettanto bene nel campo che, per eccellenza, è il dominio della logica, la matematica, così come in architettura, tanto per fare degli esempi. Nel primo caso, infatti, come non rammentare le cosiddette "geometrie non-euclidee", diverse da quella più diffusa, euclidea? E nel secondo, potremmo considerare i quadri di Escher, che rappresentano spazi architettonici impossibili ma pur sempre rappresentabili all'occhio umano.
Ignazio Matte Blanco ha fatto uno studio molto approfondito di queste logiche "altre", e in particolare di quello che ha chiamato la "bi-logica". Si tratta, in parole povere, della logica "notturna" del nostro inconscio, che si contrappone, o meglio spesso si sovrappone, alla logica "diurna" della nostra coscienza, e si regge su un sistema di valori diverso. Per esempio, contrariamente a quanto si tende a fare razionalmente, per essa vale la regola della generalizzazione anziché della particolarizzazione (tende a "fare di tutto un'erba un fascio"); detto con le parole di Ignacio Matte Blanco:
By making the individual identical to the class, the principle of symmetry as seen from an asymmetrical point of view, leads to infinite sets. […] What I wish to stress here is the fact that, as the classes dealt with by the unconscious contain an infinite number of elements, and any of these elements is, if seen symmetrically, identical to any other element of the class and to the class itself, the result is that many things become possible in symmetrical thinking which would not be possible in asymmetrical thinking.
Citare Matte Blanco e la sua bi-logica parlando di Kafka può sembrare forzato. Ma è vero però che il senso letterario che si può ricavare da questo avvicinamento è molto profondo: lo stesso Fromm, nel libro Il linguaggio dimenticato, dedica un intero capitolo a Kafka e al "linguaggio dimenticato" che affiora nei suoi racconti, e in particolare in Il Processo. Sotto questa luce, Fromm avvicina la scrittura creativa di Kafka al mito, al sogno, ecc., e quindi ci spiega perché non sia sbagliato considerare la sua opera un vero capolavoro letterario, per la ricchezza e la profondità, su più strati, dei significati che veicola. Ovviamente, con le dovute differenze, perché il testo kafkiano rimane pur sempre un testo letterario, ed è quindi diverso dal sogno o dalla tradizione mitico-religiosa.
Kafka ha delle affinità con moltissimi altri scrittori in questa sua "rappresentazione dell'assurdo". Un primo autore che mi viene in mente è Jean-Paul Sartre. In La Nausée, il protagonista, Roquentin, si trova di fronte alla sensazione, più cutanea che intellettuale, dell'assurdità dell'esistenza. Per lui, è la gratuità della vita che diventa insostenibile. Riprendendo un tema caro a Kundera, potremmo parlare di una "insostenibile gratuità dell'essere". Tale da nauseare.
Ma se in Sartre la nausea, prima di arrivare al lettore, passa da Roquentin, per finire alla fine spezzettata e razionalizzata nella più pura tradizione cartesiana, nella scrittura di Kafka il malessere va direttamente dal libro al lettore, senza alcuna mediazione. I protagonisti dei suoi racconti non sono nemmeno tali da facilitare un processo di immedesimazione da parte del lettore: si trovano già "troppo oltre", "troppo dentro" l'assurdo. Non razionalizzano niente. Vivono l'assurdo, e basta. O se razionalizzano, è troppo evidente che i valori su cui si fonda la loro razionalità sono troppo diversi da quelli che reggono l'ambiente in cui si muovono.
Questo mi fa pensare a un'altro autore, Beckett. In En attendant Godot i due protagonisti vivono anch'essi l'assurdo, anzi vivono proprio una rappresentazione dell'assurdo, su un palco, in un teatro, davanti a degli spettatori. L'opera, assolutamente incentrata su un problema di tipo temporale (il tempo dell'attesa che si protrae all'infinito) è una rappresentazione che dura solo due atti: tre sarebbero stati troppi. Bastano, infatti, due atti a dare la sensazione di un tempo ciclico che si ripete dilatandosi all'infinito; tre atti sarebbero stati troppi per gli spettatori, per i lettori, per noi che vediamo "dal di qua" una rappresentazione dell'assurdo che si trova "di là", sul palco. Del resto, lo affermò Beckett stesso che "un atto solo sarebbe stato troppo poco, tre atti sarebbero stati veramente troppi":
La scelta dei due atti quindi in cui non succede quasi nulla, serve a dare allo spettatore l'impressione quasi fisico-temporale del vuoto, dell'assurdo (D. Ventimiglia).
Non è un caso se, sempre Ventimiglia, riprende nell'analizzare Beckett l'idea dei paradossi di Zenone. Eccoci tornati al punto di partenza. Ma il sentimento di nausea e di malessere che si può avvertire in Beckett o in Sartre diventa tangibile quando si legge Kafka. Perché lui non ha pensato che fosse "troppo" ed è andato fino in fondo nella sua rappresentazione dell'assurdo. E soprattutto, non ha tentato nessuna mediazione.
Alla luce di tutto, come concludere questa analisi? Direi nell'unica maniera possibile, con la constatazione di quanto Kafka abbia "aggiunto" alla nostra percezione del reale e della letteratura. L'altra sera pensavo a un articolo che ho letto, firmato da Jorge Luis Borges. Borges cita molto brevemente una lista di autori che sono in qualche maniera avvicinabili a Kafka, e che attraverso lui si arricchiscono di una nuova chiave di lettura, più completa. Anche lui cita Zenone e suoi paradossi, poi cita un prosatore cinese del secolo IX, Han Yu; poi ancora Kierkegaard, Léon Bloy, Lord Dunsany. E osserva per ognuno un'affinità col mondo oscuro di Kafka, con l'acuto rapporto che si instaura nella sua opera tra razionalità e sentimento dell'irrazionale, tra il tentativo umano di arrivare a qualcosa e l'impossibilità di farlo. E poi conclude con una meravigliosa osservazione, che spiega come mai perché, e fino a che punto, l'opera di Kafka è secondo me un vero capolavoro:
Se non erro, gli eterogenei testi che ho enumerato somigliano a Kafka; se non erro, non tutti si somigliano tra loro. Quest'ultimo fatto e' il piu' significativo. In ciascuno di quei testi c'e' la idiosincrasia di Kafka, in grado maggiore o minore, ma se Kafka non avesse scritto, non la avvertiremmo; vale a dire che non esisterebbe.
A mio avviso qui Borges riesce a sintetizzare in poche righe un sentimento credo diffuso tra i lettori di Kafka: che dopo di lui, niente si può più leggere allo stesso modo. Come nessuna architettura può essere più guardata allo stesso modo dopo aver osservato i giochi sulle geometrie assurde nei quadri di Esher, e come, probabilmente, nessun matematico può guardare allo stesso modo la geometria classica dopo essere approdato alle geometrie non-euclidee.
Sì, Kafka mi piace davvero.
BIBLIOGRAFIA
J.L. Borges, Altre inquisizioni, Adelphi, 2000, p. 117.
E. Fromm, Il linguaggio dimenticato, Bompiani, 1994.
I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, London, 1975, p. 106 (corsivi del testo).
D. Ventimiglia, Il teatro di Beckett.
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