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Bergson analizza in molte sue opere il concetto della memoria. Al di là dei meccanismi psichici che determinano la memoria a scopi pratici, c’è una “memoria pura”, una presenzialità del passato che esemplifica quel concetto di tempo tutto raccolto nell’esperienza vissuta e lo qualifica come durata. La concezione interiore del tempo, la contrapposizione tra tempo esteriore e durata, rendono quindi possibile una concezione della vita spirituale e con essa della libertà sottratte alle riduzioni materialistiche. La stessa materia assume, nel contesto del discorso di Bergson, una connotazione di imprescindibile riferimento all’attività spontanea della coscienza. Il concetto di durata permette al filosofo francese di individuare lo strumento gnoseologico capace di superare lo scientismo deterministico e di invertire il processo spaziale-quantitativo del pensare tipico della scienza. Tale strumento è l’intuizione. Intuire è un atto di intelligenza pura, non mediata dal discorso matematico e da passaggi logici, che tale discorso comporta. La mente può essere indicata come evolutiva, ma di una evoluzione creatrice, essa è espressione di uno slancio vitale.
Io constato anzitutto che passo di stato in stato. Ho caldo ed ho freddo, sono lieto o triste, lavoro o non faccio nulla, guardo ciò che mi circonda o penso ad altro.
Sensazioni, sentimenti, volizioni, rappresentazioni: ecco le modificazioni tra cui si divide la mia esistenza e che, di volta in volta, la colorano di sé. Io cambio, dunque, incessantemente. Ma non basta dir questo: il cambiamento è più radicale di quanto non sembri a prima vista. Di ciascuno dei miei stati psichici io parlo, infatti, come se esso costituisse un blocco: dico sì che cambio, ma concepisco il cambiamento come un passaggio da uno stato al successivo e amo credere che ogni stato, considerato per se stesso, rimanga immutato per tutto il tempo durante il quale si produce. Eppure, un piccolo sforzo di attenzione basterebbe a rivelarmi che non c’è affezione, rappresentazione o volizione che non si modifichi di continuo: se uno stato di coscienza cessasse di cambiare, la sua durata cesserebbe di fluire. Il mio stato d’animo, avanzando sulla via del tempo, si arricchisce continuamente della propria durata, forma, per così dire, valanga con sé medesimo. Se la nostra esistenza fosse costituita di stati separati, di cui un Io impassibile dovesse far la sintesi, non ci sarebbe per noi durata: poiché un IO che non muti non si svolge, come non si svolge uno stato psichico che resti identico a se stesso finché non venga sostituito dallo stato successivo. Infatti, la nostra durata non è il susseguirsi di un istante ad un altro istante: in tal caso esisterebbe solo il presente, il passato non si perpetuerebbe nel presente e non ci sarebbe evoluzione né durata concreta. La durata è l’incessante progredire del passato che intacca l’avvenire e che, progredendo, si accresce. E poiché si accresce continuamente, il passato si conserva indefinitamente. L‘accumularsi del passato su stesso continua senza tregua, in realtà il passato si conserva da se stesso, automaticamente. Talvolta, la coscienza vorrebbe lasciarlo fuori, ma esso è incalzante su di essa
(Il seguente passo è tratto da “L’evoluzione creatrice”)
L'influenza del pensiero di Bergson per quanto fondamentale per la lettura e comprensione di alcune poesie di Montale, non viene interamente riconosciuta, come testimonia la parziale ammissione da parte del giovane Montale: “Negli anni in cui composi gli Ossi di seppia (tra il 20 e il 25) agì in me la filosofia dei contingentisti francesi, di Boutroux soprattutto che conobbi meglio di Bergson”. La lezione dovette comunque giungere a Montale soprattutto per la rievocazione della memoria presente sia in Ossi di seppia che nelle Occasioni.
Due sono le fondamentali concezioni di tempo: quello oggettivo, che riguarda la materia e il mondo che in qualche modo possono essere misurati; quello soggettivo, che non può essere concepito, né tanto meno misurato, se non facendo riferimento alla coscienza del soggetto. È questa l’idea del tempo che, intuita da Sant’Agostino, è stata ripresa e laicizzata da Bergson.
Il filosofo francese sostituisce al tempo astratto e assoluto il tempo relativo del soggetto, il quale però non privilegia più la ragione, ma l’intuizione che si fonda sulle relatività delle percezioni intime. Al tempo scientifico che, secondo Bergson, è un tempo spazializzato, rappresentabile come una linea ferma, egli viene sostituendo il tempo della coscienza che, essendo mobile, può essere colto solo con l’intuizione pura, alogica e istintuale. Per il filosofo francese il passato è presente nel presente proprio in virtù dell’intuizione che, consentendo al soggetto di cogliere il tempo come durata, gli dà la possibilità di attingere al passato attraverso il recupero dei momenti istintuali sepolti e dimenticati nella coscienza.
E’ comprensibile, pertanto, perché un poeta come Montale, per il quale l’assoluta conoscenza sensibile e razionale delle cose risulta insufficiente o addirittura oscura, accolga il procedimento analogico della durata bergsoniana, in quanto gli consente di attingere non tanto alla forma esterna delle cose, ma alla loro essenza più profonda. Se per il poeta il tempo passato è irreversibile, per lo più, se il tempo cosmico non ci appartiene a causa della sua insondabile ed estranea profondità, c’è però qualcosa che è nostro e che ci appartiene interamente: il fragile tempo umano, creato dalla memoria e dall’immaginazione che, affidandosi alla parola, al linguaggio della poesia, è in grado di stabilire una continuità, una dimensione unitaria capace di ricucire le lacerazioni del tempo (talvolta) di sanare lo strappo esistente fra il tempo vissuto e il tempo assoluto. In Montale, nel tormentato itinerario umano e poetico, come accennavo sopra, una tale disposizione è comunque sottoposta a dubbi ed incertezze che richiedono costantemente d’essere chiariti.
L’interrogativo fondamentale al quale Montale ha cercato di fornire una risposta è il seguente: se è vero che la vita, come sostengono filosofi come Eraclito e Bergson, è un flusso continuo, un incessante trascorrere di avvenimenti che, snodandosi senza sosta con un destino inesorabile di vita e morte in un vortice di sensazioni, emozioni e pensieri che si riflettono solo per un istante nella nostra coscienza, come è possibile che la parola poetica, in parte determinata ed arbitraria, sia capace di esprimere la vita nella sua complessa varietà? La parola poetica - sostiene Montale - ove se ne consideri la natura, non è altro che un fossile, un oggetto morto, una minima interruzione praticata nella durata del tempo infinito:
da una parte la vita, soggetta alla vicenda temporale, nascita e morte continua, che dura all’infinito, dall’altra la cristallizzazione della parola che per far sopravvivere la vita, deve tagliarla in tanti segmenti.
Sin dagli Ossi di seppia per Montale esistono principalmente due vie di fuga; in realtà, questa parola andrebbe chiarita. Per fuga non è da intendersi rifugio, ma una autentica alternativa ad una vita che Montale ha già sperimentato come “avara”.
La memoria è intesa come recupero del passato vissuto con nostalgica contemplazione o come un doveroso ricordare. “Occorrono troppe vite per farne una” è la splendida chiusura della lirica “L’estate”, poesia che chiude il secondo libro del poeta. L’esperienza umana è troppo breve e misera per essere sprecata, per essere sepolta. La vita è unica e per questo troppo preziosa e l’uomo non s’accontenta, cerca la felicità che, raggiunta, repentinamente perde “perché nulla paga il pianto del bambino a cui il pallone fugge tra le case”. Nell’inquieto pelago delle emozioni, il ricordo rappresenta un punto fermo dal quale partire, a cui ricapitolare non tanto e non solo la propria esperienza ma anche la propria conoscenza. Esso non è fitto di contemplazione, ma riemerge dal pozzo della memoria come una folgorazione, un lampo di verità nella piatta penombra della storia. Il ricordo viene a visitare l’uomo e ad interrogarlo e non chiede certo celebrazioni di sorta. La memoria non è celebrazione dunque, ma un punto di partenza gnoseologico, verità prima sul mondo e poi su di sé. E’ un altro modo di cogliere i segnali di quel quid che mette l’uomo sul sentiero di una qualche verità. Per Montale la memoria è primo luogo sul quale costruire una conoscenza, ma anche una coscienza che sappia riconoscere principi di discernimento. Ad essa si lega sempre un fremito, un dolore ed un rancore per le occasioni mancate, per un passato che non può più essere modificato. Il ricordo per Montale “trema”, cioè scuote, sveglia l’uomo dal suo torpore, non lo conforta o lo giustifica, riemerge dal “pozzo” rendendolo più vigile, più cosciente della sua infermità fino a volersi “scabro ed essenziale”, povero fra i poveri, portatore di una verità che la folla non può riconoscere. Montale propone nelle Occasioni il sonetto V di Shakespeare:
ma i fiori distillati, al sopraggiungere del verno, perdono soltanto l’esterna apparenza, chè la loro intima essenza vive per sempre fragrante.
E sarà una fragranza amara quella dei ricordi di Montale, ma pur sempre interezza di verità e di intendimenti.
Da Ossi di seppia: “Cigola la carrucola del pozzo”:
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…………….
……………. Ah che già stride
La ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.
La lirica si apre con una parola onomatopeica (stride) per indicare il risalire rumoroso di una carrucola che sale verso l’alto, portando acqua: l’incipit appare descrittivo, ma già verso la fine del secondo verso, con la fusione tra l’acqua e la luce, si entra in ben altra dimensione: un ricordo trema nel secchio. Il pozzo richiama la profondità dell’inconscio: dalla memoria remota sale infatti l’immagine. La forma circolare della bocca del pozzo (puro cerchio) si combina con il movimento di ascesa della carrucola, con la riemersione nello spazio buio. La visione del volto evanescente che viene dal basso e vi ritorna è un’immagine di notevole forza metaforica: le labbra alle quali il poeta cerca di accostarsi scompaiono, inghiottite di nuovo (dall’atro fondo). La carrucola che avvicina e poi allontana il ricordo, è il correlativo oggettivo del tempo che scorre inesorabile e la distanza segnata dalla catena è il correlativo di una distanza fisico-temporale, ma anche psichica che separa il soggetto dal suo passato. La rottura di ogni possibile contemplazione del ricordo è sottolineata dai versi finali: la morte della speranza; l’io non può scrutare fino in fondo e “una distanza ci divide”.
La lirica è pertanto costruita intorno alla figura del pozzo: vale a dire dell'apertura verso il basso, inquietante, perchè mette in comunicazione due mondi usualmente separati (il sopra e il sotto, destinato nei miti ai morti); ma anche figura dello sprofondamento, che può alludere per metafora ad esperienze puramente interiori, alla memoria o all'inconscio. Se la lettura della lirica si concentra nella risalita dal basso verso l'alto, cioè nell'evocazione dal basso verso la luce, si può scoprire, celato nel testo, il mito di Orfeo e Euridice, certo raccorciato all'estremo, ridotto all'essenziale. Il richiamo di Euridice dal regno dei morti e di irresistibile ripetizione, da parte di Orfeo, del gesto d'amore, così la trascina, non appena l'ombra è riconosciuta e si è ricostituito quasi un rapporto con il vivo, “nell'atro fondo”.
In analogia con il mito di Orfeo la componente mitica può essere colta nella lirica “Non recidere, forbice, quel volto”:
Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
Un freddo cala... Duro il colpo
svetta.
E l'acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre.
Il tema di questo mottetto, scritto nel 1937, è il volto che le forbici del giardiniere autunnale recidono con i rami dell'acacia. Il volto della donna un tempo amata, ancora intenso nella memoria, sta per distruggersi e confondersi, come sempre, per il poeta, accade per i ricordi: lo scorrere del tempo allontana e dissolve questo volto nel pulviscolo della nebbia del tempo. Nella fredda stagione autunnale un boscaiolo, con l'accetta, taglia con un colpo secco i rami dell'acacia; l'albero fa cadere nel fango il guscio di cicala seccato. Con l'uso dell'imperativo negativo il poeta invita il tempo a non distruggere i ricordi. E' molto interessante l'uso della metafora: la forbice del tempo: infatti anche l'analisi di questa lirica consente di risalire alla componente mitica nella profonda ispirazione di Montale, dove in analogia con il mito di Orfeo ed Euridice, qui compaiono le mitiche forbici delle Parche.
Dal verbo recidere e dal sostantivo forbici, si coglie una ferita, un'esperienza dolorosa, quasi certamente senza rimedio. Il viso amato è rimasto solo nella memoria, nella coscienza che a poco a poco si “svuota”, cancella i ricordi delle persone care. La memoria lascia svanire in un passato sempre più confuso il volto dell'amata: “un volto-solo” che, come ultimo ricordo pur forte e intenso, svanisce.
Questo viso grande e in ascolto sembra protendersi verso le parole del poeta, ma è un inutile protendersi perchè si disperde nella nebbia di sempre, in una memoria che, a causa del trascorrere del tempo, non sa trattenere un ricordo, pur molto caro.
Privo com'è della virtù teologale della speranza, Montale intona tuttavia questa stupenda deprecatio: se il tempo è il forziere che contiene ogni nostro tesoro, e il tempo stesso lo svuota di colpo, il poeta emotivamente chiede al tempo di sospendersi, di non “recidere”, di non cancellare. E alla memoria, il cui ufficio peraltro è dimenticare, e che si “sfolla “di tutti i volti, chiede di serbarne uno: “quel volto”. Montale supplica che la lama del tempo non divida sé da “quel volto”. Il poeta chiede l'impossibile, cioè che il tempo contenga in sé quel volto, lo preservi dalla sua stessa forbice, nel secondo momento la lama fredda cala e recide, si apre un abisso. Qui il poeta, contro ogni evidenza fisica, mentre il colpo d'accetta viene vibrato per la potatura, chiede alla lama stessa, nel momento in cui recide, di non recidere; salta e vola in un altro tempo in cui nessun volto si consuma, ma anzi dura per sempre, conservato in teche terrestri imperiture, caldo e consolante, immune dai fanghi autunnali. Un tempo non “spazializzato” ma “metafisico”, irriducibile alla morsa dell'esterno, avrebbe detto Bergson. E il mottetto, nella sua stessa struttura, mostra questo tempo interiore-o metafisico, o ideale, o schiettamente poetico, in cui il solo volto dell'amata (Clizia) non è reciso: questa è una possibilità, Montale ipotizza un aldilà dello spazio e del tempo non meno vero di spazio e tempo: l'acacia ferita e il guscio di cicala aprono una porta, socchiudono ad un tempo ideale in cui quel volto non arretra né si cancella. Priva di questa seconda verità, la poesia, simile all'informazione, non sarebbe, dopotutto, che registro di “cose che si vedono”.
Ossi di seppia, “Ripenso al tuo sorriso”:
Ripenso al tuo sorriso e per me è come lo scorgere
l’acqua limpida per caso tra i sassi di un greto, un
piccolo specchio d’acqua in cui puoi vedere le
infiorescenze dell’edera sotto un bianco cielo senza
nuvole.
Questo è il mio ricordo, non saprei dire, amico lontano,
se il tuo volto nasconde un’anima libera e ingenua
oppure sei uno di quelli che errano estenuati dal male
del mondo portando con sé il proprio dolore come un talismano.
Solo questo posso dirti, che ripensare a te sommerge i miei turbamenti con
un’ondata di calma e la tua figura si insinua nella mia memoria grigia, candida come
la cima di una palma giovane.
Filo conduttore della lirica è la memoria; il poeta ricorda un suo amico e quest’immagine si rivela consolatoria, come lo scorgere l’acqua in un paesaggio arido e petroso (paesaggio evocato da Montale e generalmente ligure) come il colore acceso e la vitalità di una giovane palma quasi accerchiata dal grigiore. Il ricordo appare qui come una sorta di salvezza in un oceano di sconforto, come fiamma che riscalda il cuore, limitata è la speranza nel futuro compromesso dal trascorrere del tempo.
In un passato confuso, il poeta non sa dire se il volto amico sia ancora quello ingenuo di un tempo o se abbia incontrato il dolore che porta con sé come un talismano. L’aggettivo lontano riferito all’amico assume un duplice significato: lontano dal poeta fisicamente collocato in un altro spazio, ma lontano, in quanto il ricordo che il poeta ne conserva più che avvicinarlo a sé, lo allontana in un passato nebuloso, significativi sono infatti i versi “solo questo posso dirti; non saprei dirti; nella mia memoria grigia”.
Dalle Occasioni: “La casa dei doganieri”:
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desola t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchia mura
E il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
La tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
La casa e in cima al tetto la banderuola
Affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
Rara la luce della petroliera!
Il arco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende... ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
La lirica condensa alcuni temi fondamentali della poetica montaliana: la casa, l’opposizione interno /esterno, la figura femminile in funzione della dialettica assenza/presenza, il conflitto tra l’inevitabile trascorrere del tempo e il tentativo della memoria di mantenerlo immutato. La casa, uno dei posti di guardia della dogana dislocato a Monterosso, luogo di abituali vacanze per il poeta, che rivedendola pensa ad una sera lontana, in cui vi sostò con l’amata: vorrebbe far rivivere quel tempo, ma invano, un’altra vita (altro tempo frastorna) occupa la memoria della donna e soltanto il poeta si protende verso quella sera con nostalgia. Il luogo, la casa sulla scogliera che un tempo risuonava delle risa della giovane donna, ora è battuto dal vento e non offre più alcun riparo o meglio sicurezza interiore: questa vicenda diventa emblema di una realtà più vasta: non solo di una storia d’amore difficile da trattenere con il ricordo, anche l’ansia di passare il varco per una impossibile fuga dal destino. Il tu cui si riferisce il poeta non è solo la donna, è anche il suo io di allora, che egli tenta invano di recuperare nella continuità dell’oggi.
Il componimento è tutto giocato sull’opposizione tra le immagini dello scorrere e del fluire del tempo e quelle del permanere e del restare. La casa, immagine dell’identità dell’io, segno di una possibile persistenza nel flusso caotico delle sensazioni e del tempo, è il correlativo oggettivo dell’attesa e della fissità del ricordo; ad essa si oppone il movimento del vento che sferza da anni le vecchie mura e fa girare la banderuola del tetto. Lo smarrimento del soggetto è emblematizzato da due oggetti: la bussola, che gira all’impazzata, e i dadi, il cui conto non torna più.
Entrambi, nel rappresentare la crisi dell’io che non si ritrova più nel suo passato né a prospettive future, rimandano ad una concezione della vita come casualità e rischio, non priva però di regole. I poli dell’opposizione sono dunque il moto del tempo che distrugge i ricordi e allenta il legame tra l’io e l’amata, e la stabilità della casa. Posta in una zona di confine, la casa si carica di una simbologia mortuaria, come limite tra la vita e la morte o tra presente e passato. Il tempo, simboleggiato dalla banderuola che gira sul tetto, scorre via senza tregua, l’attimo non s’arresta. Lo scorrere del filo che sottolinea un movimento all’indietro è come il girare della banderuola: un moto circolare, un passare delle cose da un nulla a un altro nulla.
Il passato è perduto per sempre e la casa appartiene soltanto alla sera del poeta, alla sua solitudine. Il verso conclusivo esprime emblematicamente lo smarrimento del poeta e non solo, lo spegnersi di ogni illusione: tutto è consumato, non so chi va e chi resta.
I passi dei testi di Bergson sono ripresi da “La Grande Antologia filosofica” ed. Marzorati
E. Montale, Nel nostro tempo, Rizzoli
G. De Robertis, Altro novecento, Le Monnier
Caretti, Antichi e moderni, Einaudi
Il linguaggio poetico di Montale, Maria Corti, Einaudi
Le forme della lontananza di G. Beccaria, Garzanti
Maria Barchiesi è nata a Cremona nel '53; si è laureata in Lettere Classiche e perfezionata in Storia della Filosofia Antica presso l'Università di Pavia, sempre con il prof. Mario Vegetti con il quale ha collaborato presso lo IUSS pavese. Da sempre ama viaggiare e la cultura in tutte le sue manifestazioni e saperi è la sua scelta di vita prioritaria. Nell'insegnamento presso le scuole superiori e lo IUSS ha vissuto il rapporto con i giovani di età diversa sempre con entusiasmo e desiderio di vederli culturalmente crescere. Il principio che la guida nelle ricerche è: kalos kai agathos, ciò che esprime bellezza è anche buono eticamente, fa bene all'anima e alla mente.
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